La casa dei giovani eroi più che una casa è una navicella nella quale chiudersi in tempo di tempesta: è il libro scritto da un padre di fronte al dolore della figlia, eppure è un libro pieno di speranza e di allegria e di gioia di vivere. Non pensavo, è per questo che ho tardato tanto a leggere la penultima opera di Antonio Socci: la foto di sua figlia Caterina, in copertina, mi aveva frenata. È che da quando sono mamma faccio tanta, tantissima fatica con la sofferenza dei figli. In più il fatto che stavo scrivendo un libro mi forniva un valido alibi. E così i mesi sono passati, e il bellissimo profilo di Caterina continuava a campeggiare in cima alla pila dei libri da leggere, intatto.
Invece mi sbagliavo. La storia della famiglia Socci è una storia di forza e di allegria, di fatica e di speranza. Soprattutto, di fede, senza la quale accogliere docilmente il dolore è ovviamente una follia. È una storia che racconta di chi si mette di fronte alla realtà senza recriminare, senza chiedere “perché a me?”, ma raccoglie la sua croce e la porta meglio che può. La storia è nota: la figlia dell’autore, Caterina, studentessa a Firenze, bellissima e piena di talenti, tra cui una voce strepitosa, ha un arresto cardiaco e viene rianimata dopo molto tempo. La carenza di ossigeno le lascia danni molto seri. La famiglia comincia a cercare vie per curarla, e intorno a lei, che come un enzima invece di seminare disperazione moltiplica la vita, si fortifica una comunità di persone stupende che la aiutano nel paziente, faticoso percorso verso una guarigione sempre più piena.
È un libro che si divora in poco tempo, che ti regala un senso di pienezza e di invincibilità: se siamo amati così da un Padre che in questa famiglia qualcuno (tutti?) deve avere per forza incontrato, nessun dolore ci fa paura. E ti regala, almeno a me ha regalato, la gratitudine per avere fratelli e sorelle come Caterina e chi le sta intorno (con una predilezione particolare per la mamma Alessandra, che fa capolino tra le righe con pudore e discrezione, ma che ogni giorno portando il suo dolore, tenendolo senza ribellarsi, rimette al mondo Caterina, come solo una mamma può fare, perché una madre – biologica o spirituale – sa che il dolore portato non è mai fine a sé stesso).
Sull’onda dell’entusiasmo per questo libro, ho messo mano anche all’altro di Socci appena uscito, Amor perduto, l’inferno di Dante per contemporanei, che è invece mi ha spalancato un mondo. Innanzitutto un mondo di sensi di colpa per quanto poco ho conosciuto e apprezzato la Divina Commedia quando potevo (e dovevo) studiarla: solo leggendo questo libro infatti ho sentito Dante contemporaneo, fratello nella ricerca e nell’inquietudine, tanto che fra i due quella medievale e rigida sono senz’altro io, in confronto al Dante che emerge da queste pagine.
Socci fa una singolare traduzione in prosa del capolavoro di Dante, rendendo il testo davvero facile e fruibile a chiunque. Lo fa mediando continuamente tra la fedeltà al testo, e il tentativo di non dimenticare la natura del viaggio di Dante, che prima di tutto è un pellegrinaggio verso la propria conversione, e grazie a questa, verso una nuova comprensione della realtà, comprensione che si può ottenere solo esercitando un giudizio (che parolaccia sembra, oggi). A me la lettura ha fatto venire voglia di recuperare il testo, di riprendere il mio Sapegno pieno delle note a matita di mia madre, dei miei fratelli e mie, effetto che mi hanno fatto anche le lezioni di Franco Nembrini, mentre non posso dire lo stesso di quelle di Benigni. Mi piacerebbe anche tanto seguire il consiglio di Socci, quello di imparare a mente i canti “come primaria forma di resistenza al dispotismo (sulle menti e sui corpi) dei poteri globali di questo mondo. E come forma di resistenza all’idiozia universale”.
Dell’ampia introduzione voglio cogliere solo due dei molti elementi. Dante dice di avere avuto una visione di Beatrice: a questo dato non è mai dato il giusto rilievo dagli studiosi, che ovviamente tendono a non prendere minimamente in considerazione tutto ciò che è soprannaturale. Ma Dante è un cattolico vero, e non scherzerebbe mai su una cosa così seria. L’apparizione di una donna profondamente credente e morta giovane, potrebbe essere l’esperienza mistica che è all’origine della Commedia. D’altra parte l’accesso alla realtà preternaturale è consentito ad alcune persone, a chi ha avuto esperienze premorte, e anche ai mistici. È vero, Dante non è un mistico, eppure chissà, magari anche a lui, a cui Dio aveva affidato questa grande opera, è stato concesso questo privilegio (ma a chi molto è stato dato… il poeta lo ha restituito a noi, perché potessimo avere uno sguardo diverso sulla realtà). Grazie a questa chiarezza di visione sui novissimi, l’inferno dantesco è certamente un pugno nello stomaco per la mentalità politicamente corretta. Con grande libertà Dante poteva mettersi anche di fronte alla corte pontificia e al ceto ecclesiastico, senza clericalismo o bigottismo. Oggi Dante sarebbe senz’altro ritenuto un cattolico integralista, reazionario, fondamentalista, e anche questo ce lo fa sentire fratello, vivo, amico, contemporaneo, perché dalla sua inquietudine e dalla sua ricerca del senso ultimo non si liberava mai. Che voglia di rileggerlo, oggi più che mai!
Fonte: CostanzaMirianoBlog.it