E’ un gran bel periodo per chi ama leggere pagine che, sollevandosi dal piccolo cabotaggio quotidiano, tentino uno sguardo più alto sul senso dell’epoca che viviamo. Sono in libreria Karl Löwith, nuovamente sul tempo e la storia, i dialoghi di Ratzinger e Habermas, il bellissimo Nuovo Medioevo, riedizione del testo chiave del pensiero di Berdjaev. Da un altro punto di vista, sono interessanti anche un libro di geopolitica di Tim Marshall e il nuovo saggio di Michel Onfray sulla fine della civiltà giudaico-cristiana.
Recentemente si segnala anche L’innominabile attuale di Roberto Calasso, nono volume di un’opera di grande respiro, ovviamente edita da Adelphi. E’ un testo che affascina e disorienta. Affascina, perché affronta con acutezza lo stato della nostra epoca, età della frantumazione, in cui “nulla è vero e tutto è permesso”. E’ l’età in cui l’uomo secolarizzato, che ha definitivamente abbandonato ogni legame religioso, si sente leggero, ma non felice. “Duemila anni dopo Cristo, il secolarismo avvolge il pianeta”. Ma ciò con cui ha sostituito l’antica fede, cioè la società organica, l’umanitarismo, la democrazia formale, è inconsistente e deludente.
Ogni pagina del libro di Calasso apre uno squarcio su un carattere del nostro tempo: ad esempio, il sapere ridotto a ciò che è digitabile, in cui il vero e il falso, le news e le fake news sono ugualmente accessibili; la censura, che opera per abbondanza di informazioni inutili; la perdita del senso del sacrificio; la crisi della coscienza; il turista, come efficace immagine dell’uomo moderno (idea già presente in Bauman); l’incombere del terrorismo, la cui matrice non è la religione, ma la rivolta contro il nostro mondo e in cui la pornografia in rete ha un ruolo fondamentale. E molto altro ancora. Chiude il libro una rara citazione di Baudelaire, quasi una profezia delle Torri gemelle, simbolo di un mondo che sprofonda: “…Una torre labirinto. Non sono mai riuscito ad uscire. Abito per sempre un edificio che sta per crollare, un edificio intaccato da una malattia segreta”.
Quello di Calasso è anche un libro che disorienta. Innanzitutto per la sua forma: è volutamente senza mappa, anche banalmente privo di vero indice. Dopo aver messo a tema alcune parole chiave della nostra età, e della sua debolezza, nella seconda metà del testo l’autore ripercorre gli anni che portarono al nazismo e alla guerra mondiale con gli occhi di vari protagonisti della cultura e della società del tempo. Le due parti del libro sono speculari: concetti la prima, testimoni oculari la seconda. E sono legate: dopo la follia della guerra mondiale, tentativo parzialmente fallito di autodistruggersi, l’umanità non si è più risollevata, ed ora langue.
In entrambe le parti Calasso procede con un caleidoscopio di pennellate veloci, sempre suggestive: scopriamo così le parole disilluse di Stuart Mill sulla felicità, che nessun cambiamento delle istituzioni potrà mai assicurare, o le pagine del Journal di André Gide, sorprendentemente accondiscendenti verso Hitler e Stalin. O, ancora, il folle discorso di Himmler sulla necessità di estendere lo sterminio alle donne e ai bambini ebrei, per impedire loro in un futuro di vendicare i propri uomini. La vastità degli spunti presenti, l’erudizione, la mole delle citazioni, la rete incoativa dei riferimenti culturali disorientano il lettore medio, mettendolo di fronte alla propria ignoranza. Ma possono anche spingerlo a cercare approfondimenti fuori del testo, provocando un’esperienza di lettura diversa, che ricorda quella degli ipertesti.
Più profondamente, il libro di Calasso disorienta per il suo sguardo sul mondo. Vi traspare una specie di nostalgia per qualcosa di oltre, per una trascendenza abbandonata a cui non si sa dare volto. Innominabile. Il mondo senza cristianesimo non è affatto migliore. Ma ormai il percorso è compiuto e non c’è modo, per la stessa strada che ha portato alla secolarizzazione, di tornare indietro. Né forse lo si vuole. Occorrerebbe altro, ma nel libro di Calasso non c’è. Perciò L’innominabile attuale è un libro a due facce, una diurna, fatta di lucidi ragionamenti, l’altra notturna, fatta di lampi di testimonianze. Ma sono due facce entrambe invernali, plumbee come la copertina del libro. Non è l’inverno dei quadri di Bruegel, brulicante di vita, né quello di Monet, solitario ma luminoso. Piuttosto, un inverno senza apparente via d’uscita, se non quella dell’antico cinismo, eroico e nobile. Ma se non covasse una qualche primavera, ogni inverno sarebbe un inferno.
Fonte: GIUSEPPE FEYLES | IlSussidiario.net