Sopra La Notizia

Cos’è l’Amore

In quell’intreccio benedetto e accidentato, pieno di avventure e disavventure, di sospiri incantati e di malinconie struggenti, che è la vita umana, ci domandiamo da sempre cosa sia davvero l’amore. È la domanda che infiamma i poeti, intriga i filosofi, ispira gli artisti. Sta perfino nel cuore della divina Rivelazione. I bambini l’hanno conficcata nell’anima prima ancora di saperle dare parole e forma. I vecchi la stringono segretamente in pugno, sperando che il nome che gli rimane in gola nel pianto quando accarezzano per l’ultima volta chi è stato al loro fianco una vita intera possano di nuovo un giorno sussurrarglielo all’orecchio con un bacio ed un sorriso ritrovandosi per sempre. Accumuliamo lungo la via abbracci ed errori, conoscenze e misteri, imprese e vanità, fino a chiarire, se non abbiamo sciupato il tempo a noi concesso, che saper vivere in sostanza vuol dire saper amare e saper accogliere amore.

Cos’è dunque l’amore?

Di fronte a una domanda l’inclinazione istintiva è quella di trovare al più presto una risposta.

L’amore però interpella senza lasciarsi risolvere, rimanendo sempre più in là di ogni spiegazione. Esige d’essere concepito con un pensiero onesto e patisce la disinvoltura con cui lo si nomina anche nei contesti più equivoci o volgari: è materia sottile, luminosa, che suscita poesia, musica, arte, gesti, silenzio. Trabocca oltre gli orli delle parole che esso talvolta infonde il coraggio di pronunciare e talvolta la timidezza di lasciar morire sulle labbra con un rossore di guance liete e sorprese.

Non per tracciarne una teoria psicanalitica e fredda, ripercorriamo ora la questione dell’amore e le memorie personali che essa rievoca in noi, ma con un pensiero caldo, capace di visione spirituale, tanto urgente oggi perché vantiamo mille progressi ma non siamo stati capaci di progredire nell’amore, né siamo più allenati a tutta la delicatezza e l’eleganza e la galante nobiltà che dovrebbero accompagnare l’amore, spesso mortificato invece da una piatta miseria di linguaggio e da una cieca e frettolosa intimità fisica che, credo, rispecchino frequentemente il vuoto interiore nel maldestro tentativo di distrarci un po’ dalla solitudine. Proviamo a reimparare a memoria l’essenza profonda contenuta nelle parole “ti amo”, per non sperperare l’anima in relazioni di scherzo, e per saper di nuovo inventare mille poesie d’amore prima di tentare un solo bacio.

Narriamo come la prima pagina di un libro sacro quel che sull’amore sappiamo da quando nel grembo di nostra madre eravamo avvolti da esso come boccioli non ancora fioriti.

Primo Giorno

Vi è il primo giorno dell’amore.

Nella genesi del cosmo fu il giorno della luce.

Ed in effetti, l’inizio dell’amore dipende proprio dall’accendersi d’una certa luce, che colpisce lo sguardo e fa salire dal petto l’emozione di vedere il bene che hai davanti. L’amore inizia come risposta allo splendore dell’altro. Può trattarsi dello splendore corporeo, o di quello del carattere e della personalità, della delicatezza dei sentimenti, di una certa limpidezza interiore che ti pare di cogliere nello sguardo, di un gesto che t’ha fatto pensare e t’ha trapassato l’anima all’istante perché vi hai colto un valore non comune: in principio vi è uno splendore speciale dell’essere di fronte a te, oltretutto percepito in modo speciale. Chi ti è vicino s’accorge che ne sei rimasto avvinto e contemporaneamente si chiede cosa mai di tanto speciale tu abbia trovato in quella persona, che agli occhi altrui pare non dissimile dal resto del panorama. Non che osino domandartelo, né che ti sia facile spiegarlo analiticamente: per te è un’evidenza. Quando conosci la persona che amerai per una vita, la riconosci.

Il primo moto dell’amore – chiamato compiacenza – dichiara intimamente all’altro: «tu sei un bene». E lo dichiara in stato di sorpresa, con gioia, con un entusiasmo innocente, senza immediati calcoli di interesse.

Il moto interiore che stiamo considerando congiunge insieme l’intelletto e la volontà con l’intervento della sensibilità: la forza dei sentimenti spalanca gli occhi e avvicina ciò che altrimenti non si contemplerebbe con tanta attenzione, sebbene tutto ciò possa innescarsi ancor prima che vi sia una vera e propria conoscenza. L’amore di compiacenza nasce da una conoscenza che induce amore ed è un amore che induce conoscenza, ma l’induzione dell’amore e della conoscenza avviene nella volontà delle persone, nelle quali vi è un vero impegno delle energie e dei loro esseri in un cammino di avvicinamento reciproco.

Vero è che in questo slancio impetuoso si ha una certa idealizzazione dell’amato, una modificazione delle percezioni tale da non farci cogliere diversi limiti che altri colgono e da lasciarci invece incantati da pregi per altri assai sbiaditi, e vero è pure che questa luce d’amore con il tempo si modificherà o si spegnerà addirittura per l’amante; ma egli sa che non era qualcosa di falso e infondato: un’apertura di fondo aveva creato le condizioni affinché l’altro rivelasse la sua segreta bellezza, o almeno la bellezza cui è destinato se diventerà pienamente ciò per cui è stato creato.

Amare stabilmente non significa per forza vedere costantemente quella bellezza: significa crederci giorno dopo giorno dopo mese dopo anno, votando se stessi a renderla possibile, a prepararla.

E fu sera e fu mattina. Primo giorno.

Secondo Giorno

Vi è il secondo giorno dell’amore.

Nella creazione del cosmo fu il giorno in cui vennero separati il firmamento del cielo dalle acque del mondo.

Ed in effetti, l’amore di compiacenza è solo l’inizio dell’amore, ma non lo esaurisce affatto, facendo presto divampare il fuoco del desiderio tra esseri distinti, in un’umanità nella quale è stato separato – sexus – il femminile dal maschile. Poiché l’essere umano si dà in una di due possibili forme diverse, in cui è inscritta la tensione verso una persona che vive nell’altra forma, egli avverte acutamente la solitudine originaria e la propria incompletezza come provocazione ad un superamento del proprio io per trovare la pienezza nella relazione giusta con l’altro.

Il secondo moto dell’amore – chiamato desiderio – dichiara intimamente all’altro: «tu sei un bene per me». La scoperta gioiosa dello splendore dell’essere che sta di fronte a noi combacia con la scoperta che esso intensifica la nostra vita colmandola di grazia e di senso, in modo tale che se non dedicassimo a quella persona la nostra vita questa ci diverrebbe insulsa e noiosa, perfino insopportabile. Questa spinta, che è fascinazione per l’altro visto come una grande promessa di felicità e punta a generare contatto e legame, si manifesta in particolare nell’eros, mostrandosi nelle dinamiche della carne, fino al segno della congiunzione dei corpi, ma estendendosi ben oltre la sensualità e al di là della carne stessa nel ricolmare l’intera persona del bisogno dell’altra. L’altra componente del desiderio amoroso è l’agape, lo slancio speculare a fare di sé una grande promessa di felicità per l’altro.

Osservandolo attentamente, l’eros è una benedizione, poiché di natura sua è la forza concreta che si contrappone diametralmente alla concreta e insidiosa trappola dell’io, che ha forza di trasformarsi in prigione, instaurando l’egoismo come sistema di vita e l’uso di tutto e di tutti per la soddisfazione degli appetiti come metodo ordinario. L’eros è il richiamo potente e profondo che risveglia nella creatura la coscienza di non bastare a se stessa, di non potersi dare la felicità da sé. Naturalmente, questa forza si porta dietro l’ombra della concupiscenza, che manifesta le deformità dell’essere umano impoverito e alterato nella sua struttura spirituale di fondo. Mentre l’amore autentico tende a personalizzare ogni cosa, l’amore sottosviluppato e intossicato dalla concupiscenza, cioè dall’egoismo del peccato, tende a cosificare ogni persona. Ma non dobbiamo confonderci: questa decadenza utilitaristica non è l’eros in sé, è la sua corruzione, il risultato della sua separazione dall’agape che ne costituisce la maturità e la garanzia.

L’esperienza dell’amore umano soffre dunque di una nefasta frattura interna: può esserci un eros separato dalla persona, un eros che non è più integrato armonicamente nella persona, nella sua vocazione di fondo a tendere al bene autentico dell’altro in modo adeguato all’altro: e così, l’uomo si ritrova con un eros senza agape o con un agape senza eros. L’eros senza agape diventa un trascinamento passionale, capace di spingersi fino alla violenza, conquista che riduce fatalmente l’altro ad oggetto del proprio possesso e a strumento del proprio godimento, ignorando ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé. La conseguente trasformazione interiore di un soggetto in un oggetto è la radice di ogni impurità. La gioia stessa che l’eros procura degrada vergognosamente, mentre l’eros viene ridotto a libido, mera pulsione da saziare – e presto a rischio di nausea –, quando invece il piacere erotico ha il senso originario di essere il segno e la promessa di quella beatitudine che è il frutto della comunione delle persone; se l’appagamento reciproco diventasse l’armonizzazione di due egoismi, fingerebbe la posa dell’amore ma non sarebbe che un miserabile rapporto parassitario. Può, d’altra parte, esserci anche un agape senza eros, un amore presuntuoso, che presume cioè di poter dare molto senza considerare il proprio bisogno di ricevere, oppure un amore freddo, senza partecipazione né intimo slancio del cuore, come se ci si scrivesse lettere d’amore copiandole da un prontuario, trascurando ogni necessaria e benedetta tenerezza. La separazione dell’eros dall’agape è un’invenzione diabolica, compromette l’amore e altera il desiderio privandolo del suo vero respiro: il pensiero cristiano, su questo punto, ha sempre custodito una mirabile lucidità, puntando non a una liberazione dall’eros, ma a una liberazione dell’eros dalle tentazioni di autoripiegamento oscuro che lo minacciano. Se le persone sono in grazia di Dio, l’eros è una grazia.

L’amore, dunque, che nasce come compiacenza, diventa desiderio, forza concreta che spinge le persone alla comunione richiamandole alla realtà della loro incompletezza.

E fu sera e fu mattina. Secondo giorno.

Terzo Giorno

Vi è il terzo giorno dell’amore.

Nella genesi del cosmo fu il giorno in cui la terra fiorì, apparsa al ritiro parziale delle acque, pervasa dal germogliare delle piante e dei loro frutti, secondo le diverse specie.

Ed in effetti, l’amore che suscita il desiderio della comunione conduce la persona a cercare di far fiorire l’altro, preoccupandosi sempre meno di sé. L’amore autentico – cioè l’amore capace di riconoscere un bene autentico e di orientarsi ad esso in modo adeguato a quel bene – comporta il «ti desidero come un bene per me», ma non può arrestarsi a quello stadio, altrimenti degenera immediatamente in amore falso poiché riduce fatalmente la persona dell’altro a mezzo funzionale all’egoismo della propria persona, e ciò è insopportabile per la dignità della persona umana.

Perciò il terzo moto dell’amore – chiamato benevolenza – dichiara intimamente all’altro: «io voglio il bene per te», cosa che si dice anche nella forma «io ti voglio bene». Questo è l’altruismo dell’amore, che non costituisce una contraddizione rispetto all’amore di desiderio, del quale è in realtà il completamento e la migliore garanzia. Quando si desidera infatti qualcuno come un bene per sé, è necessario desiderare che quella persona sia effettivamente un bene e lo diventi sempre più, altrimenti non potrebbe continuare realmente ad essere un bene per chi la desidera: desiderio e benevolenza sono quindi strettamente legati.

Va però detto che la benevolenza instaura nella persona una direzione di fondo del suo sentire, del suo pensare, del suo volere e del suo agire, tale che essa progressivamente non tiene più conto di sé, essa cioè vuole il bene dell’altro in modo disinteressato, pur ottenendo dall’amore una profonda gioia che però non si è più preoccupata di procurarsi con calcoli o sotterfugi. Indubbiamente, per rimanere stabili nella gratuità della benevolenza non è sufficiente lo slancio dei sentimenti, seppur questi abbiano anche la funzione di alimentare la disposizione disinteressata a prendersi cura del bene altrui: sono indispensabili le virtù, in particolare la disponibilità generale al sacrificio, che è l’unica via concreta attraverso la quale la persona si libera dalle spire traditrici del proprio io e può reggere la fatica di sperimentare i limiti dell’altro, specialmente i più persistenti e i meno comprensibili – pare che tutti gli umani ne abbiano –. D’altra parte, il sacrificio d’amore è la legge della vita, la legge del chicco di grano che se cade in terra e muore produce molto frutto, altrimenti rimane solo, sterile: l’affermazione di sé tende, esasperata, a generare conflitti e morte, la vita invece è frutto di dedizioni, di un vivere per l’altro che giunge, se serve, a morire per l’altro. Nella fede cristiana, ciò è evidentissimo perché sta anche al cuore stesso del mistero della Trinità e del misero pasquale ed è il dinamismo della vita vera, che può sembrare paradossale: «Chi avrà trovato la sua vita la perderà, chi avrà perduto la vita a causa mia la troverà» (Vangelo secondo Matteo 10,39).

La benevolenza pare essere, allora, il frutto più maturo di quella compiacenza che gioisce per la bellezza dell’altra persona. Di fronte allo splendore dell’altro, infatti, vorremmo che esso possa giungere alla sua pienezza e che nulla lo possa mai mortificare, consumare, cancellare. E il bello dell’amore sta nel fatto che sono io a volere tutto ciò, sta nella forza di quel grido «io voglio il tuo bene», che sorpassa i confini scontati della natura – normalità sarebbe che io voglia il mio bene, e che tu voglia il tuo –, trasformando l’io in una realtà non più concentrata sull’autoconservazione ma miracolosamente libera da ogni nevrosi egoistica.

E fu sera e fu mattino. Terzo giorno.

Quarto Giorno

Vi è il quarto giorno dell’amore.

Nella genesi del cosmo fu il giorno in cui vennero appesi al firmamento del cielo i grandi luminari del sole e della luna, quest’ultima per rischiarare la notte riflettendo la luce dell’altro, in collegamento reciproco.

Ed in effetti, quando nell’uomo e nella donna l’amore – che scaturisce come compiacenza, si sviluppa come desiderio e matura come benevolenza – costituisce un legame tra le persone e non solamente una forza dentro ciascuna di esse, generando una nuova realtà che è il «noi», non esattamente coincidente con la somma delle due individualità.

Il quarto moto dell’amore – chiamato reciprocità – dichiara intimamente nei due che si amano: «io voglio che tu mi ami e noi siamo un grande bene insieme». L’amore interpersonale può indubbiamente essere unidirezionale e non condiviso: quando sperimenta la non corrispondenza, l’indifferenza, l’ingratitudine, il rifiuto, esso patisce una pena indicibile. Quand’anche si ostinasse, vi sono casi in cui non può che prendere atto della misteriosa e inespugnabile libertà dell’altro e tuttavia sa che sarebbe pura patologia volere che l’altro ami per costrizione o sortilegio. La pozione magica per indurre l’amore altrui è leggendario rimedio ai mali d’amore concepito da menti annebbiate dalla frustrazione. L’unico amore autentico, che può davvero dare beatitudine, è quello che scaturisce dalla libertà e che nella libertà quotidiana si alimenta.

Eppure, l’amore è appunto interpersonale, di natura sua non ammette di rimanere unilaterale ma invoca la reciprocità. Potrebbe sembrare che la necessaria reciprocità sia in contraddizione con la libertà e la benevolenza dell’amore, ma non è così. Anzitutto, poiché il fine cui l’amore tende è la comunione delle persone, esso ha notizia fin dal suo principio che il movimento dall’uomo alla donna domanda il corrispondente movimento dalla donna all’uomo, o viceversa, poiché soltanto questa reciprocità genera quella comunione di vita nella quale le persone sentono che i loro destini sono affidati a una cura più grande della propria. Nasce così quel «noi» che è il superamento dei due «io» giustapposti, nuova realtà nella quale i sentimenti bilaterali hanno imboccato un sentiero che ha insegnato alle persone l’unità dei loro voleri.

In secondo luogo, la benevolenza stessa instaura la reciprocità, perché volere il bene dell’altro significa in ultima analisi volere che l’altro sappia amare, essendo l’amore l’unico adeguato e pieno compimento della persona. La reciprocità si differenzia dalla concupiscenza perché la persona vuole l’amore dell’altra non per il proprio bene, ma per il suo e per il bene di quella realtà nuova, più grande dei due individui, che è la comunità umana sorta dall’amore stesso, quel «noi» il cui bene sentiamo venire prima del bene di ciascuno dei due singolarmente considerato.

Questa reciprocità è la luce del sole che di giorno rischiara la vita della coppia fugando le ombre dell’insicurezza e del sospetto e conferendo all’amore il carattere luminoso della stabilità e della certezza che è indispensabile affinché nasca davvero il «noi» e in esso possa nascere qualcun altro. Nei tempi notturni, che talvolta giungono, essa prende la tonalità di una certa sana gelosia, poiché l’amore vuole l’altro come colui che non delude e lo intende custodire dall’attrazione o dalle pretese dei terzi che l’essenza stessa dell’amore interpersonale esclude, poiché la dedizione delle persone su cui si fonda la comunione o è integrale, cioè piena, unica ed esclusiva, o è falsa. Quando la reciprocità autentica è in atto, le persone sperimentano l’appartenenza, ben diversa da quel possesso al quale sono soggette le cose e che per la persona sarebbe un dominio intollerabile: è un’appartenenza, nella quale la persona rinuncia nella libertà ad essere unicamente di se stessa e di cuore si affida ad un’altra e condivide il proprio destino con essa, eppure non vive tutto ciò come un rimpicciolimento ma come un accrescimento della propria dignità, della propria fortezza, della propria libertà e della propria esistenza.

D’altra parte, non è possibile costruire alcuna comunione né nutrire alcuna fiducia verso una persona se si sa che essa non esclude di trovare qualche consolazione profonda in altri o se si sa che essa cerca in te solamente il proprio godimento e la propria comodità, senza dimostrarsi disponibile a compromettere concretamente la propria vita attuale e futura per te e per la comunità interpersonale che con te è chiamata a costruire.

L’utilitarismo non può essere la base adeguata dell’amore umano, come già osservava Aristotele nei libri VIII e IX della sua Etica a Nicomaco: il filosofo osserva che vi sono diversi generi di reciprocità, differenziate dal genere di bene sul quale sono fondate, in modo tale che se questo bene consiste nel trarre vantaggio l’uno dall’altro il legame che ne deriva è fragile e insicuro, se invece questo bene consiste in un bene superiore a quello dei due singoli, in vista del quale essi congiungono i loro sforzi, allora il legame che ne deriva riesce ad essere incrollabile.

Analogamente, l’esperimento, anche se protratto lungamente nel tempo, è base inadeguata alla vera reciprocità dell’amore, di natura completamente diversa dal legame definitivo: per questo motivo non è affatto strano che dopo tempi di convivenza addirittura lunghi le coppie che poi si sposano possano fallire, ed anzi la statistica dimostra che falliscono come se non avessero mai convissuto: il provvisorio, nell’amore e nella struttura psicologica della persona, non ha nulla a che vedere con il definitivo.

E fu sera e fu mattino. Quarto giorno.

Quinto Giorno

Vi è il quinto giorno dell’amore.

Nella creazione del mondo fu il giorno in cui le acque e il cielo si popolarono di nuove creature viventi.

Ed in effetti, l’uomo e la donna vedono nella struttura dei loro esseri e dei loro corpi che l’incontro d’amore tra essi è innegabilmente diretto alla generazione di nuove persone, per come avviene di per sé l’atto della fusione sessuale: è oggettivamente innegabile che la sua dinamica biologica ha questo chiaro fine, anche nel caso che l’atto venisse posto in circostanze di infecondità e dunque non riuscisse a conseguire la generazione. Attraverso questa struttura data, che nell’amore interpersonale congiunge la differenza sessuale, quella tra maschio e femmina, con la fecondità, quella in grado di convocare nell’essere nuove persone, le persone che si amano hanno la possibilità di esprimere se stesse, di esprimere la qualità della loro vita personale e del loro reciproco amore. È ben più che consumare un moto carnale, come intuiva raffinatamente Gandhi: «A mio parere, affermare che l’atto sessuale sia un atto istintivo, come il sonno o l’appagamento della fame, rappresenta il colmo dell’ignoranza» (cfr. Letter to Narandas Gandhi, 23-5-1935, in The collected works of Mahatma Gandhi). Unendosi in modo umano, cioè con un atto consapevole, libero, frutto di amore, l’uomo e la donna si dichiarano pronti a lasciar traboccare oltre l’orlo delle loro persone la loro vitalità e il bene che sperimentano nella loro comunione di vita, affinché diventi un bene condivisibile per altri, una benedizione che si diffonde e – a ben guardare – una forma di riconoscenza per aver ricevuto loro stessi la vita e aver trovato l’amore.

Il quinto moto dell’amore – chiamato fecondità – dichiara intimamente nei due che si amano: «noi insieme accogliamo la vita e l’amore come missione». Così l’amore pieno prende parte alla creazione e si fa responsabile fino in fondo, scoprendo che la relazione di coppia non limita ai due l’orizzonte, ma include sempre un incoraggiamento alla vita e in particolare i terzi cui essi possono dar vita.

Si potrebbe a questo proposito avanzare la domanda se sia possibile un amore interpersonale pieno e responsabile che però non includa necessariamente nei due quel determinato stato interiore della coscienza e della volontà che è l’«io con te posso essere padre» e l’«io con te posso essere madre». Non si sta ragionando, per essere precisi, sull’eventualità che occasionalmente o stabilmente ci possano essere cause biologiche che non consentono agli atti sessuali di conseguire il fine della generazione di nuove persone: si tratta di chiarire se si possa vivere l’amore interpersonale in modo adeguato alla persona nel caso la coscienza e la volontà respingano il fine procreativo degli atti sessuali. Ora, la struttura degli atti sessuali non è stata decisa dall’essere umano: è un dato che esso riceve, decifra e interpreta. In quella struttura, comunione e fecondità sono oggettivamente congiunti, in modo tale che la comunione innesca dinamiche che si dirigono verso la procreazione e la fecondità suppone che per la nuova persona il contesto giusto sia la comunione stabile d’amore tra genitori. Questa struttura è data, come un appello e una provocazione alle persone, che si trovano di fronte al bivio morale fondamentale: accettare la realtà con la sua finalità oppure rifiutarla soggiogandola al proprio arbitrio. Ecologicamente, potremmo dire che il bivio propone di prendere posizione per una tra due possibili strade: personalizzare la realtà facendo fiorire le sue latenti potenzialità, oppure appropriarsi della natura predandola dei suoi bottini e violandola in ciò che non ci aggrada. Teologicamente, potremmo dire che il primo atteggiamento è giusto verso il Creatore, anche se chi lo vive non conoscesse il Creatore, il secondo è dispotico e ingiusto, anche se chi lo attuasse non avesse intenzione di irridere il Creatore. Moralmente, il primo atteggiamento custodisce una profonda cultura della persona e dell’amore per mezzo dell’ordinamento degli stati erotici, il secondo apre inevitabilmente la porta allo scivolamento nell’utilitarismo o nel vizio, come ancora Gandhi ricordava: «il divorzio dell’atto sessuale dalla sua conseguenza naturale non può che condurre a una odiosa promiscuità o al condono, se non addirittura all’incoraggiamento, di vizi non naturali» (cfr. Letter to Narandas Gandhi cit.).

Ebbene, l’atteggiamento con cui una persona impone il proprio volere all’ordine originario della realtà, per estrarne qualcosa di gradito e strapparne via qualcosa di impegnativo, è incompatibile con la logica interna dell’amore: la tendenza a “violare”, per interesse e comodità, si oppone all’amore. L’amore accoglie l’altro così com’è, nella benevolenza e nella pazienza, gustandone le delizie e portandone il peso, anche costasse molto, con una stabilità magnifica e prodigiosa, come attestano le parole di un indimenticabile sonetto di William Shakespeare (Sonetto 116):

Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O no! it is an ever-fixed mark
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and weeks,
But bears it out even to the edge of doom.
If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved

 

Non sia mai ch’io ponga impedimenti all’unione

di anime fedeli; Amore non è amore

se muta quando scopre un mutamento,

o tende ad allontanarsi quando l’altro s’allontana.

Oh no! Amore è un faro sempre fisso

che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;

è la stella guida d’ogni vagabonda barca,

il cui valore è sconosciuto, benché la sua altezza venga misurata.

Amore non è alla mercé del tempo, pur se rosee labbra e gote

dovran cadere sotto la sua curva lama;

amore non muta in poche ore o settimane,

ma impavido resiste fin al giorno estremo del giudizio.

Se questo è errore e mi vien provato,

io non ho mai scritto e nessuno ha mai amato.

In conclusione, l’atteggiamento nei confronti della procreazione agisce in modo strutturale e decisivo sull’amore interpersonale, al punto che pone le condizioni della sua maturità o del suo bloccarsi ad uno stadio incompleto e immaturo. Per questo motivo, la fecondità non è una potenzialità aggiuntiva dell’amore interpersonale, ma una sua proprietà costitutiva, al punto che dove non si vuole fecondità non c’è propriamente amore: le persone che respingono assolutamente l’orizzonte dell’«io con te posso essere padre» e dell’«io con te posso essere madre» o son quelle che non intendono amarsi affatto o son quelle che s’amano in un modo che però contiene una disposizione interna oggettivamente contraria alla pienezza dell’amore. Bisogna che l’uomo accetti la propria grandezza e non mortifichi la grandezza dell’altra persona negandole di diventare genitore nella vita coniugale.

Il delicato timore che talvolta prende l’uomo e la donna di fronte alla prospettiva del figlio – che è non solamente una gioia ma anche una responsabilità e un “peso” – è segno di quanto profondamente sia scritto nella coscienza umana che la persona esige d’essere trattata in modo adeguato, impegnando tutti alla giustizia nei suoi confronti per il solo fatto di esistere: quando un tale timore diventa una vera e propria paralisi, però, allora si ritorce fatalmente contro l’amore interpersonale stesso.

Al contrario, quando l’amore interpersonale è disponibile alla procreazione, in questo afferma la suprema stima verso il consorte, poiché è allora che l’uomo dice alla donna «sono felice che tu sia la madre dei nostri figli» e la donna all’uomo «sono felice che tu sia il padre dei nostri figli», e ciò è assai più che apprezzare l’altro semplicemente come buona compagnia per se stessi.

E fu sera e fu mattino. Quinto giorno.

Sesto Giorno

Vi è il sesto giorno dell’amore.

Nella creazione del mondo fu il giorno in cui sorsero gli esseri viventi venuti dalla terra, fino alla creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, l’essere umano, maschio e femmina, benedetto e dotato di fecondità.

Ed in effetti, l’amore dei consorti, che promette e combatte, che ammira e sopporta, che stringe e lascia liberi, che non sa vivere senza l’altro e che sa morire per l’altro, che esclude gelosamente ogni intruso ed include gioiosamente ogni sconosciuto figlio, che è di giorno in giorno alla prova eppure osa volere il per sempre, l’amore coniugale è il segno più completo nel quale intravvedere in terra il mistero di Dio, e con quel mistero è in stato di profonda connessione.

Il sesto moto dell’amore – chiamato consacrazione – dichiara intimamente nei due che si amano: «tu sei di Dio e in Dio noi siamo custoditi».

Potrebbe d’altra parte la creatura fatta di terra che respira, senza l’aiuto di Dio, promettere per una vita intera fedeltà e dedizione e virtù e misericordia all’altro? La coscienza della propria fragilità e di quella altrui taccerebbe d’incoscienza pura una tale promessa di smisurata audacia, se essa si fondasse unicamente sul vigore dei sentimenti. L’amore è indotto dai sentimenti, e li alimenta pure, ma non combacia con essi, consistendo in una disposizione dell’essere verso l’altro e il bene. Una creatura segnata dal limite, dall’esperienza di una certa inconoscibilità di chi abbiamo davanti e perfino da qualche ombra e scoria di egoismo, se non intende accontentarsi d’amare l’altro con un cuore povero desidera amarlo come Dio sa amare. Non l’avesse mai saputo fare prima, le verrà spontaneo invocare Dio affinché protegga l’altro e infonda nel cuore la capacità di un amore limpido e degno fino in fondo.

Se poi l’uomo e la donna che si amano si soffermano appena un attimo a percepire d’essere “terra che respira”, come non ringraziare Dio, o almeno il mistero sconosciuto dal quale proveniamo, per la meraviglia d’esser vivi e per il non scontato dono d’aver accanto qualcuno che vuole vivere per te? Se prendessimo senza ringraziare sarebbe come se predassimo, o ritenessimo d’aver tutto meritato e di poter tutto pretendere come fosse dovuto. Non si tratta soltanto della riconoscenza nei confronti dell’altro che ti ama e che si lascia amare, si tratta proprio di una gratitudine religiosa che sgorga dall’intima percezione della vita come benedizione, tipica di chi ha trovato un amore grande e affidabile.

E quando, volgendo a tua moglie o a tuo marito lo sguardo, silenziosamente pensi che quella è una persona, la riconosci fino in fondo nella sua dignità nel momento in cui la riconosci come un dono di Dio, riconosci cioè che essa non ti spetta di diritto né può esser considerata di nessuno finché non t’appartiene, perché quella persona è di Dio prima di potersi donare a te e perfino prima ancora di essere affidata a se stessa. Dio la ama più di te e prima di te. Essa esiste perché Lui la vuole. Se non è un grumo di materia che s’agita insensatamente e se potrà avere un senso e una meta oltre il tempo fugace, è perché Lui c’è e a Lui appartiene radicalmente, come suo Creatore e Redentore. Chi si riconosce come una creatura e riconosce la persona dell’altro come un tesoro prezioso di Dio e l’amore dell’altro come una grazia di Dio da accogliere con gratitudine, non può dire «noi ci prendiamo l’un l’altro» o «noi ci diamo l’un l’altro», come se in tutto ciò Dio non c’entrasse per nulla: essi pensano «sei tu, Signore, che doni questa persona a me, essa è tua prima che io possa dire che m’appartiene, e rimarrà tua anche appartenendomi». Perciò, un uomo e una donna sono giusti verso Dio quando si congiungono dopo essersi domandati l’un l’altro a Dio stesso, affidandogli la comunità di vita che hanno la grazia di istituire nell’amore. Ciò, per i cristiani, avviene nel sacramento del matrimonio, mentre per tutte le altre civiltà della terra avviene comunque con un matrimonio che ha di natura sua un carattere religioso. Se i due stabilissero la loro comunità di vita more coniugali senza coinvolgere Dio stesso, l’uomo avrebbe preso la donna d’altri e la donna avrebbe preso l’uomo d’altri, trascurando inspiegabilmente nella loro coscienza la verità fondamentale che ciascuno dei due è di Dio.

Messo nelle mani di Dio, il vincolo dell’amore reciproco consegue la finale vittoria dell’amore stesso sulla fragilità, sulla provvisorietà, sull’egoismo, sottraendolo a qualsiasi precarietà, ivi compresa quella dei sentimenti. Si impara così ad amare senza condizioni. Dio ama così, anche chi talvolta non si rende amabile. Quando il maschio e la femmina imparano ad amarsi in quel modo, con quell’amore che rifugge l’esperimento e supera l’incertezza, fedele nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, capace di onorare l’altro tutti i giorni di una vita intera, allora essi diventano il commento più convincente al sesto giorno della Genesi, manifestando d’essere davvero immagine e somiglianza di Dio.

E fu sera e fu mattino. Sesto giorno.

Settimo Giorno

Vi è il giorno settimo dell’amore.

Nella genesi del cosmo fu il giorno in cui tutto giunse al termine, al riposo, alla finale benedizione.

Avviene così anche ad ogni storia di amore. Nel calendario del mondo c’è un giorno nel quale il consorte entra nel riposo della morte, ed uno nel quale vi entri tu.

Con uno sguardo probabilmente incapace di parole ci benediremo, osando l’ultimo bacio e salutandoci come se non volessimo congedarci mai, con una domanda in bilico sull’orlo dell’anima. È la domanda che, da quando esiste, sempre e dovunque l’uomo si ritrova conficcata nel cuore: l’amore può vincere la morte?

Il silenzio della morte sembra ammutolire ogni poesia d’amore, mentre l’amore dichiara guerra alla morte, poiché l’amore saprebbe spingerti a morire per l’altro, ma non sopporta che l’altro muoia.

Amare significa bramare con tutte le proprie viscere che ci sia salvezza per l’amato.

Così, intanto, passeggiando sulla riva del mare o tenendoci la mano sulla vetta di un monte, resistiamo senza parlarne alla malinconia di doverci lasciare, un giorno che ci pare impossibile debba davvero arrivare ma che verrà fatalmente impedendoci di abbracciarci ancora.

Quando impietrito sei accanto al corpo morto di chi ha riempito la tua vita per una vita, fossi stato fino ad allora impietrito nell’ateismo ti ritroverai nell’anima la segreta speranza d’esserti sempre sbagliato.

Grande è invece la luce della fede, nella quale è dato di sapere che l’amore ha l’ultima parola sulla morte.

In quella luce è possibile sapere cosa accadrà l’ultima ora della nostra vita.

Vedremo tutta la verità, indagata con tenacia o un po’ fuggita nella penombra di quaggiù.

Vedremo Dio. Vedremo tutta la vita, la nostra vita, come intreccio benedetto e accidentato di Provvidenza e miseria, e di tanta misteriosa compagnia che i nostri vecchi e i nostri amici e i nostri santi, anche dal lato invisibile del mondo, ci hanno silenziosamente offerto.

Rivedremo quegli indimenticabili vecchi di casa nostra e gli saliremo in grembo, sulle loro ginocchia solide come le fondamenta della terra, per concludere quella frase che ci rimase mezza in gola, spezzata dal pianto, quando tentammo di salutarli.

E finalmente gli innamorati si ritroveranno, non parrà loro vera la separazione d’un frattempo.

E quel papà e quella mamma ritroveranno il loro figlio. Perché l’ignobile morte dovrà restituire.

Allora, alla fine della nostra attesa, proveremo il brivido bellissimo e la conferma di essere attesi.

È con questa certezza interiore che l’amore, che ha avuto il coraggio della fedeltà e quello di credere, giunge al settimo giorno, le lacrime agli occhi, il sorriso sulle labbra, il sussurro di un grazie e l’attesa di rivedersi nel cuore.

E fu sera. Settimo giorno.

E poi fu mattina.

«E non vi sarà più la notte,

e non avranno più bisogno di luce di lampada,

perché il Signore Dio li illuminerà

e regneranno nei secoli dei secoli»(Apocalisse 22, 5).

Fonte:Alessio Geretti | CostanzaMirianoBlog

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