Quella del cristiano deve essere sempre una «vita feconda» e il suo cuore sempre aperto «per ricevere e dare vita». È “fecondità” la parola chiave dell’omelia pronunciata da Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di lunedì 19 dicembre. Una fecondità, «materiale o spirituale», che sempre nella Bibbia «è un segno di Dio» e della sua «benedizione». Al contrario di quanto avviene, invece, in quei paesi «vuoti di bambini» dove le ragioni del «benessere» hanno provocato un vero e proprio «inverno demografico».
La meditazione del Pontefice ha preso spunto dalla liturgia del giorno dove, in entrambe le letture — dal libro dei Giudici (13, 2-7.24-25) e dal vangelo di Luca (1, 5-25) — si parla di donne sterili. Donne che non potevano avere figli o che, come Elisabetta, avevano perso la speranza di averne a causa dell’età avanzata. Si trattava, ha spiegato, di una vera e propria calamità per l’epoca: «La sterilità era una vergogna; non poter dare figli, non potere avere una discendenza».
Nella Bibbia, ha continuato il Pontefice, «ci sono tante donne» colpite da questa condizione, «cominciando da Sara, la sposa del nostro padre Abramo». Nel racconto biblico si legge di lei che era sterile e di come ascoltò di nascosto «quando gli angeli annunciarono ad Abramo, davanti alla tenda dove abitava, che entro un anno sua moglie sarebbe diventata madre». La notizia le strappò un sorriso — «Ma io, alla mia età, a novant’anni!» — ma l’angelo corresse la sua incredulità: «Perché sorridi?».
Francesco ha spiegato come Sara si fosse «spaventata» per l’inattesa notizia, ma soprattutto come «da quel momento» tutta la storia d’Israele sia punteggiata da figure del genere: «donne sterili che non possono avere figli o, se li hanno avuti, sono morti senza discendenza». Ad esempio «Noemi, che ha perso i figli», o anche «Anna, la mamma di Samuele che pregava e il sacerdote pensava che fosse ubriaca» perché pregava in silenzio però muovendo le labbra. Stava implorando il dono di un figlio.
Sempre, ha sottolineato il Pontefice, «la fecondità nella Bibbia è una benedizione». Del resto, «è stato il primo comandamento che Dio ha dato ai nostri padri: “Riempite la terra, siate fecondi!”». Quante volte, ad esempio, viene ripetuta una formula di benedizione in cui si auspica «di vedere i figli dei figli fino alla terza generazione». Così «Tobit che dice a suo figlio Tobia: “Il Signore mi dia la grazia di vedere i tuo figli fino alla terza generazione”». Si tratta sempre di «benedizioni di fecondità», perché «dove c’è Dio, c’è fecondità».
A questo punto il Papa ha attualizzato la sua meditazione con un’analisi della società contemporanea, facendo riferimento ad «alcuni paesi che hanno scelto la via della sterilità e patiscono di quella malattia tanto brutta che è l’inverno demografico». Non si fanno figli per paura di intaccare il proprio «benessere» e adducendo mille ragioni di opportunità. Il risultato sono «paesi vuoti di bambini. E questa non è una benedizione».
Tutto ciò per dire che «la fecondità sempre è una benedizione di Dio». Che si tratti di «fecondità materiale o spirituale», perché la sostanza è una: «dare vita». Infatti una «persona può passare la vita senza sposarsi, ma vivere dando vita agli altri». E ha aggiunto Francesco: «Anche noi, sacerdoti, religiosi e religiose, non ci sposiamo, ma guai a noi se non siamo fecondi con le buone opere, se non portiamo fecondità al popolo di Dio. La fecondità è un segno di Dio».
Per illustrare questo concetto, ha ricordato il Papa, i profeti «scelgono simboli bellissimi», come quello, ad esempio, del «deserto». Il deserto si caratterizza proprio per la sua mancanza di fecondità, per la sua «aridità»: ma «il deserto — dicono — fiorirà. Il miracolo della fecondità: l’aridità si riempirà d’acqua». Si riconosce in questo dettaglio «la promessa di Dio. Dio è fecondo. È fecondo in noi con la presenza dello Spirito Santo; è fecondo e vuol esser fecondo con noi. Fecondo nelle opere».
Al contrario, ha sottolineato il Pontefice, «il diavolo vuole la sterilità; vuole che ognuno di noi non viva per dare vita — sia fisica, sia spirituale — agli altri, ma per se stesso». E ha aggiunto: «L’egoismo, la superbia, la vanità è ingrassare l’anima senza vivere per gli altri. Il diavolo è quello che fa crescere la zizzania dell’egoismo e non ci fa fecondi».
Ogni cristiano, ha suggerito il Papa, può chiedere questa grazia: «la grazia della fecondità di avere dei figli che ci chiudano gli occhi e anche, per chi ha consacrato la sua vita al Signore, di avere dei figli spirituali che gli chiudano gli occhi». A tale riguardo ha aggiunto un ricordo personale: «Penso all’anziano missionario della Patagonia che alla fine, novantenne, diceva: “La vita mi è passata come un soffio”. Ma quell’anziano aveva tanti figli dell’anima che erano accanto a lui nell’ultima malattia». È questa «la gioia della fecondità».
Francesco ha concluso l’omelia coinvolgendo direttamente i presenti e mettendoli di fronte a un’alternativa decisiva: «Qui c’è una culla vuota. La possiamo guardare. Può essere simbolo di speranza, perché verrà il Bambino; può essere un oggetto da museo: vuota tutta la vita». Se, ha detto sciogliendo la metafora, «il nostro cuore è una culla», dobbiamo chiederci: «Come è il mio cuore? È vuoto, sempre vuoto. Ma è aperto per ricevere continuamente vita e dare vita, per ricevere ed essere fecondo o sarà un cuore conservato come oggetto di museo che mai è stato aperto alla vita e a dare la vita?».
Da qui l’esortazione finale: «Vi suggerisco di guardare questa culla vuota, di guardare la possibilità che ognuno di noi possa rimanere sterile sia fisicamente che spiritualmente, e dire, come la Chiesa dice: ”Vieni Signore, riempi la culla. Riempi il mio cuore e spingimi a dare vita, a essere fecondo”».
Fonte: Vatican.va