La testimonianza di Giuseppe Comand, consapevole di essere l’ultimo degli uomini che videro risalire a “grappoli” i corpi degli italiani innocenti.
«L’odore dei corpi in decomposizione era pestilenziale, l’aria irrespirabile fino a chilometri di distanza. I miei compagni coraggiosi, Vigili del Fuoco di stanza a Pola, buttavano giù cognac prima di calarsi nella foiba: scendevano per centinaia di metri con due corde e una specie di seggiolino, mettevano il cadavere nella cassa e davano quattro colpi di corda, il segnale per dire tiratemi su».
Un secolo di vita non è bastato a Giuseppe Comand per cancellare dalla memoria il ricordo tuttora insopportabile, antico di decenni eppure sempre vivido: «Sono passati 74 anni, ma sento ancora quell’odore, e soprattutto le parole dei miei compagni, che sotto choc si sfogavano tutte le sere raccontando ciò che avevano trovato…».
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Oggi ha 97 anni, ne aveva 23 in quei drammatici giorni, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, quando nelle regioni giuliane l’improvviso cambio di fronte lasciò i cittadini italiani tra due fuochi, i partigiani comunisti di Tito da una parte, gli ex alleati nazisti dall’altra. «Certo non ero un eroe», racconta oggi Comand nella sua casa di Latisana, «la stessa in cui venni al mondo il 13 giugno del 1920», di tutto cioè gli importava «fuorché della guerra: io volevo solo tornarmene a casa mia».
Diplomato in Agraria a Udine, nel 1939 allo scoppio del II conflitto mondiale ricevette la ben nota cartolina di precetto, si presentò al distretto di Trieste e fu destinato all’Africa con l’XI Genio militare, ma «per mancanza di mezzi corazzati fui invece rimandato a Udine, destinato alla difesa territoriale: ricevevo le telefonate dagli addetti al sorvolo, di modo che le contraeree non sparassero se passavano aerei italiani».
Due anni dopo, nel 1941, fu scelto tra un gruppo di militari trasferiti a Sussak, nei pressi di Fiume (allora Italia, oggi Croazia) per unirsi al corpo dei Vigili del Fuoco, con l’incarico di magazziniere e come addetto alla compilazione dei figli di marcia. «Ricordo perfettamente l’8 settembre, quando il capitano Casati ci annunciò la fine della guerra, poi mi consegnò dei documenti da portare a Tersatto, vicino a Fiume, al colonnello… Ma alla scrivania del colonnello trovai seduto Marko, un croato sui 40 anni, il figlio dell’oste, che mi disse «da oggi il colonnello non c’è più, sono io il comandante di tutti i partigiani della zona». Ero amico di sua sorella Beba, così mi offrì di vestirmi in abiti civili e disertare. Lui mi avrebbe fatto scortare fino a Monfalcone, poi mi sarei arrangiato fino a Latisana… Ma sarebbe stato alto tradimento verso i miei compagni, così rifiutai. L’unica volta che feci l’eroe mi misi da solo nei guai…».
Perché da quel giorno l’Istria conobbe la prima ondata di pulizia etnica da parte dei partigiani comunisti di Tito, che rastrellavano di casa in casa i cittadini italiani e li gettavano nelle foibe. «La mia compagnia si mise in cammino cercando di raggiungere Trieste – racconta Comand – ma le strade erano infestate dai partigiani con la stella rossa, per cui dovemmo deviare tra Pisino e Pola e più volte rischiammo la pelle. A Pola ci accampammo nel campo sportivo militare, senza né acqua né cibo. La prima notte siamo stati accerchiati dai titini poi, dalla padella alla brace, siamo caduti nelle mani dei tedeschi: ci tolsero le stellette e ci giurarono che se fossimo scappati le nostre famiglie sarebbero state internate in Germania. Ed è allora che ci destinarono a riesumare dalle foibe quei poveri corpi, in aiuto ai Vigili del Fuoco di Pola guidati dal mitico maresciallo Harzarich…».
Arnaldo Harzarich (di Pola, morto esule a Merano nel 1973), Medaglia d’oro al Valor Civile, dall’ottobre del ’43 perlustrò con la sua squadra alcune foibe, recuperando oltre 250 salme. A guerra finita, nel 1945 presentò alle autorità alleate la preziosa documentazione, descrivendo foiba per foiba l’attività svolta e i riconoscimenti fatti. «A Vines si calò per primo, senza indossare la maschera, ma dovette presto risalire per i miasmi. Ero così impressionato che gridai al maresciallo fascista che ci aveva in consegna di spararmi perché non sarei mai sceso in quel budello spaventoso, così mi permise di recuperare altri morti, sotto le macerie di una casa di Pisino bombardata dai tedeschi per una rappresaglia. Ricordo che dovevo ritrovare la salma di Toni Fornèr, il soprannome del panettiere, e le due figlie ogni giorno venivano a chiedere se avevamo trovato il loro papà».
La sera però la squadra tornava dalle foibe «e allora dovevo lavare le tute di gomma degli uomini di Harzarich. I quali, ricevuti da Pola gli autorespiratori con le bombole sulla schiena, solo dalla Foiba di Vines in quei giorni tirarono su un’ottantina di corpi, più altri quaranta da una cava di sabbia a cielo aperto vicino a Pisino… I loro racconti erano spaventosi, come l’odore di cui erano impregnate le tute quando le gettavo nelle vasche di cemento colme di disinfettante».
Decine di cadaveri furono recuperati anche dal fondo della Foiba di Villa Surani, e tra questi una ragazza seminuda, «non sdraiata ma con la schiena appoggiata alla parete di roccia, gli occhi spalancati che guardavano in su. Lo stesso maresciallo Harzarich mi ha descritto quello sguardo verso l’alto “come avesse una visione celestiale”, sono parole sue… È la prima volta che le riferisco a qualcuno», scoppia in pianto Comand, fino a questo momento sereno e saldo nei ricordi. Ripete ciò che gli raccontarono due sorelle che in quei giorni cucinavano per la squadra di Harzarich, e che in foiba avevano perso un fratello: «Quella ragazza era stata sequestrata dai partigiani e per tutta la notte si erano sentite le sue urla mentre la seviziavano e la stupravano in branco. Era Norma Cossetto, la figura simbolo del martirio degli infoibati. Non aggiungo cosa le fecero prima di gettarla in foiba viva, non ce la faccio: anche allora ero scioccato, ma erano tempi in cui all’orrore si era abituati, adesso soffro di più».
Tornato finalmente a casa a Latisana alla fine del ’43, Giuseppe Comand si sposerà con Modesta, scomparsa due anni fa a 92 anni, e solo nel 2009 avrà il coraggio di portare lei e i loro due figli in Istria, «ma mai sulle Foibe, troppo spavento». Conscio di essere l’ultimo testimone oculare tra gli uomini che videro risalire a grappoli i corpi dei nostri italiani innocenti dalle profondità delle Foibe (da allora mai più nessuno è sceso a recuperare le altre migliaia di vittime), sente il dovere della testimonianza: «Io che ho visto, sto male quando qualcuno osa negare gli eccidi di Tito e le Foibe. Basterebbe scendere oggi sul fondo delle tante rimaste inesplorate e continuare il lavoro del maresciallo Harzarich. Quanta povera gente è là sotto insepolta».
Come un tempo le figlie di Toni il Fornèr, sono ancora in vita tanti sopravvissuti che reclamano il corpo del padre o della madre o del fratello maggiore, tuttora inghiottiti dal silenzio di una storia poco raccontata. E di un’Italia che non sa chiedere indietro i suoi morti.
Fonte: Lucia Bellaspiga | Avvenire.it