Cari amici,
il Santo Padre il primo di febbraio, durante l’omelia in Santa Marta, ha ricordato a ciascuno la verità più concreta e più censurata: la morte. Mi ha molto confortato, perché quasi più nessuno ne parla né della drammaticità del cammino che percorriamo, volenti o nolenti, ogni giorno fino a raggiungere la meta dove lei ci aspetta.
È un cammino ben presentato nel film di Bergman “Il settimo sigillo” e, per quanto mi riguarda, lo compio tutti i giorni con i miei figli e fratelli ricoverati nel mio ospedale.
È dura morire, così come lo è per chi assiste all’ultimo duello fra la vita e la morte, accompagnando una persona a lasciare questo mondo. Parlo di duello perché è una vera lotta e la si vede nel progressivo crescere dell’affannoso respiro fino al lento spegnersi. È il duello dell’agonia. Ogni volta che assisto a questo, mi vengono i brividi. È un’impresa difficile morire! Spesso scendo nella camera mortuaria dove a volte ci sono anche tre cadaveri. Scendo prima di andare a dormire, nel silenzio più completo. Appoggio i gomiti alla sponda di una bara, tenendomi la testa fra le mani e guardando con la coda dell’occhio il capo del defunto, e penso al momento in cui al posto suo ci sarò io… domani, fra un mese, fra un anno…! Non lo so, però sono sicuro che verrà anche il mio turno.
Mi fa tanto bene passare del tempo così e per di più di notte. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, scriveva il genio di Pavese. E nei tempi remoti i frati nei monasteri si salutavano con un sano “memento mori”, e l’altro rispondeva “memento”. Era il modo più vero, più umano per vivere intensamente il presente, da uomini liberi. Senza questa prospettiva, il presente diventa una schiavitù, una trappola e uno si attacca a qualunque cosa che, senza che se ne possa accorgere, gli dice “addio”. Tu pensi alla morte, alla tua morte? Tutti i giorni mi vedo nella bara, che poi scenderà un metro e mezzo sotto terra o dentro la prigione di un loculo… e vi confesso che mi fa ancora paura, dopo tanti anni. Sì, mi fa paura immaginarmi sotto terra, ridotto a un cadavere. L’altra sera, guardando l’ultimo morto, pensavo: “Ma che cos’è un cadavere?”. Si direbbe un corpo in cui non vibra più la coscienza dell’io, per cui tutto si dissolve apparentemente nel nulla. Ma non è così, perché l’”io” è già fra le braccia del Padre… e non solo. Perché, come recitiamo nella Professione di Fede, “Credo la resurrezione della carne (quel mio, o tuo, corpo freddo, putrefatto) e la vita eterna”. È tutto così misterioso, difficile da capire, eppure è il cuore, è la ragione a esigerlo; ma soprattutto, per noi cristiani, è Gesù risorto. Nella certezza che la morte ci aspetta dietro l’angolo e con gli occhi fissi su Gesù risorto, viviamo ogni istante.
E non dimentichiamo di recitare l’atto di dolore prima di dormire, perché non sappiamo se apriremo gli occhi, ed educhiamoci a confessarci frequentemente e, se siamo in peccato grave, subito, sempre che si trovi un prete disponibile; altrimenti dite l’atto di dolore, nella certezza che la Misericordia Divina, a differenza di noi preti, è sempre disponibile. E quando vi ammalate seriamente, chiedete l’Unzione degli Infermi. Scusate se ve lo ricordo, ma oggi, presi da tanti incontri, ritiri, cose da fare, corriamo il rischio di perdere di vista l’essenza della Fede.