La XVII edizione de “I Colloqui Fiorentini” è dedicata quest’anno ad Eugenio Montale, col titolo Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto.
Ma che cosa ha ancora da dire la poesia del poeta ligure ad un lettore del 2018, ai 3.500 docenti e studenti che da tutta Italia si riuniranno dal 22 al 24 febbraio al Palazzetto dello sport Mandela Forum di Firenze, per studiarlo e cercare di conoscerlo meglio?
Non certo il “male di vivere”. Su questo i giovani studenti del 2018 non hanno nulla da imparare, tanto è profondo e radicato in loro, sempre più precocemente, sempre più diffusamente, sempre più intollerabilmente, fino a renderli tante volte, già in giovanissima età, privi di ogni speranza, di ogni aspettativa sul domani, della capacità di gettare lo sguardo ed il cuore oltre un presente ora e subito da bruciare in un violento carpe diem. Un presente che hanno però imparato ad affrontare con coraggio ed eroicità imprevedibili. Chissà che espressione conierebbe oggi Montale di fronte a tanto dolore e sperdutezza!
E da Montale i giovani di oggi non possono neppure trarre chissà quale insegnamento sulla società omologata e omologante, sulla società consumistica che livella tutto e tutti e riduce ogni cosa a merce. Montale ha denunciato con amarezza ed ironia l’avvento di questa società nella seconda parte della sua produzione poetica, ma oggi i ragazzi ci vivono dentro, non è più una società che sta arrivando: è il mondo che li precede, che è appartenuto già ai loro genitori. Ci sono dentro e non se ne accorgono neppure. Certo, ne sentono parlare, soprattutto a scuola o nei film o in qualche talkshow. Tutti ti dicono che non vogliono omologarsi. Ma sanno di cosa stanno parlando? Quando essere trasgressivi significa fumare tanto, bere forte e vestirsi strano, cioè esattamente quello che la società prevede per loro, che il mercato vuole che facciano?
Forse, allora, la poesia di Montale potrebbe essere utile per preservare i giovani di oggi dal fascismo? Montale è uno dei pochi scrittori italiani a non aver aderito esplicitamente al regime e ad averne pagato le conseguenze sulla propria pelle: perse il lavoro come direttore del Vieusseux a Firenze.
Ma oggi fascismo e comunismo sono degli slogan nella testa degli studenti. Parole dietro cui ancora per poco ci si può nascondere, per non scoprire che sono ben altri i totalitarismi del duemila: il politically correct, ad esempio.
Perché, allora, tanti docenti e studenti accorrono ad un convegno di tre giorni su questo autore? Perché una studentessa scrive alla sua insegnante, condividendo così i suoi pensieri dopo un incontro di lavoro per preparare la partecipazione ai Colloqui: “Prof, scusate se sono qui a disturbarvi. Vi scrivo semplicemente per dirvi che l’anno prossimo ho un bisogno viscerale di partecipare nuovamente ai Colloqui Fiorentini, chiunque sia l’autore di cui parleranno alla prossima edizione. Con l’esperienza e l’incontro di oggi ho capito che al di là delle persone che mi accompagneranno in questo viaggio, ho bisogno di intraprenderlo. Inoltre volevo un vostro parere… Perché vi assicuro che per le emozioni che mi circolano ora nel corpo per i miei coetanei sembrerei probabilmente pazza. Eppure oggi, sapete quale assurdo pensiero mi è nato? Mentre il professore parlava, ho provato le stesse emozioni di quando si è ad un primo appuntamento. Dovete credermi, lui parlava ed io in determinati momenti rabbrividivo, quasi mi commuovevo. Ed io sinceramente non so se è normale tutto questo… Oggi sono stata come ogni giorno su un autobus e qual è stato il mio pensiero, mentre vedevo come dei ragazzi quasi bullizzavano un altro ragazzo? Diamine! Quanto è insulsa e misera la vita di chi pensa che questo è il divertimento, senza avere alcun scopo nella vita. Ha proprio ragione Montale quando afferma quanto siano stupide le persone che pensano che la realtà sia quella che si vede”.
Per provare a rispondere occorre vedere dove sta il cuore di Montale, che era sì antifascista, contro la società di massa, ma il suo cuore si colloca ad un altro livello, ad un livello a-storico, metafisico, come ci dice lui stesso, in una prosa del 1951: “L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio”. Il fascismo è “transitorio”, la società nazista, comunista, capitalista, di massa, sono “transitorie”. Cioè non sono oggetto della poesia e dell’attenzione di Montale. Cosa dunque è “essenziale”? Cosa è terribilmente interessante per un uomo del 2018, come lo era per Montale, come lo era stato per Omero e Virgilio o per Alessandro Magno?
“Oggi tutti vorrebbero essere contenti, ma non c’è più quasi nessuno che desideri veramente di esser felice; che lo desideri fino all’impossibile, fino all’annientamento”. (Sulla veranda in Prose e racconti)
Questo è il cuore della poesia di Montale, questo il messaggio inedito, sempre inaudito, sempre attuale. Ma attuale soprattutto oggi, dove tutto dice il contrario.
Perché tutto e tutti oggi dicono ai giovani che bisogna mirare a quello che si può raggiungere, senza alzare troppo lo sguardo. È il mantra di tutti, fin nelle canzoni: “Quanto costa la felicità, non ci resta che essere felici senza, se cerchi ancora la luna ti dico, buona fortuna” cantono Benji e Fede e fa loro eco Caparezza: “Devi fare ciò che ti fa stare bene!”, non che ti fa felice. Ma questa è una distinzione che non è più percepita, come mi ha detto, cadendo dalle nuvole, una mia studentessa di diciotto anni: “Ma scusi professore, che differenza c’è fra felicità e stare bene?”.
Ecco, Montale ce lo aveva detto: non c’è più nessuno che desideri essere felice fino all’impossibile, fino all’annientamento. E che le sue parole risuonino ancora oggi è urgente, per salvare l’umanità nostra e dei nostri giovani. Perché che si possa pensare che felicità e benessere siano la stessa cosa è il trionfo di quella società di massa e consumistica che Montale guardava con orrore; è l’immagine di quella “ghiacciata moltitudine di morti”, di quei “nati-morti” di cui lui parla nelle sue poesie, che sono normalmente gli uomini. “Portami il girasole, ch’io lo trapianti/ nel mio terreno bruciato dal salino […] Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce“.
Allora si capisce la sua percezione del male di vivere: non una posizione pessimistica, ma una tensione talmente acuta alla felicità, che tutto ciò che è appena meno, è insufficiente, è male.
“Felicità raggiunta, si cammina per te su fil di lama…” dice in uno dei suoi testi più struggenti. “Su fil di lama”, cioè si accetta di farsi male, si sanguina, pur di raggiungerti! Si rinuncia allo “stare bene” per rischiare di “essere felici”.
Ma c’è un altro punto che Montale ci consegna, sempre vivo, tanto vivo, quanto inattuale oggi: la felicità è sempre, indissolubilmente legata all’intuizione di un oltre. Non si può essere felici, conquistando qualcosa quaggiù. Occorre passare al di là del muro. Anche se non sarà possibile, anche se è inutile e serve solo a farsi del male, la vita è degna di essere vissuta unicamente nel tentativo di valicare il muro, per abbandonarsi all’oltre.
“E andando nel sole che abbaglia/ sentire con triste meraviglia/ com’è tutta la vita e il suo travaglio/ in questo seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” (Meriggiare pallido e assorto).
Occorre rischiare il volo, gettarsi nel baratro del mistero della vita, anziché accasarsi nel comodo orto chiuso, che diviene ben presto un “reliquiario”. Occorre rischiare come la pavoncella, l’uccello che Montale vede spiccare il volo incontro al mare: “Con questa gioia precipita/ dal chiuso vallotto alla spiaggia/ la spersa pavoncella“.
Non sempre Montale ce la fa, non sempre spicca il volo, anzi, spesso ha paura, spesso si lascia avvinghiare le gambe dalle alghe che lo ritrascinano a riva, impedendogli di tuffarsi nel gran mare dell’essere, come scrive in Arsenio, ma nella sua poesia non smette mai di dirlo, di vederlo come unica, vera possibilità e di gridarlo come messaggio, come invito insistente: “Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per te l’ho pregato, — ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…“.