Era giovane, forte, era un atleta. Capitano della Fiorentina, difensore nella Nazionale, un campione amato dai tifosi. Bello, una faccia da garibaldino. Una compagna, una bambina di due anni. Un uomo nel pieno del suo vigore. L’altra mattina non è sceso a colazione con i suoi compagni. Lo hanno trovato nel letto, come dormisse. Morto nella notte, senza nemmeno il tempo di chiamare nessuno.
Nei bar, dalla tv arriva la notizia. Gli avventori zittiscono, una bolla di silenzio si allarga nei locali. Giustamente il campionato si è fermato, oggi. Silenzio, negli stadi vuoti.
Qualcuno forse fra sé dice una preghiera, qualcuno impreca. Non è possibile, non si può morire così, a 31 anni. Chissà quanti controlli aveva superato Astori, da giocatore professionista qual era. Impossibile, che quel giovane cuore si fermasse.
E invece, proprio lui l’altra notte è stato chiamato. Mentre dormiva, alla vigilia di una partita come tante. Sereno, i lineamenti in pace nel sonno. Quasi un ragazzo, ancora. Forse anche la Morte ha esitato davanti a quel giovane volto, al petto ampio che si sollevava regolare nel ritmo calmo del respiro? Ma la Morte non opera a caso, la Morte obbedisce. E c’era proprio quel nome, Astori Davide, nella lista del 4 marzo 2018. Forse, impietosita, la Morte gli ha solo accarezzato una guancia. Insostenibile carezza. E’ bastata perché quel cuore gagliardo, quel cuore da combattente, abituato a reggere novanta minuti di corse e di dribbling e di tifo, di colpo si fermasse. Di colpo immobile il petto, pallido il volto. E’ morto in un respiro.
E poi i compagni piangenti, i tifosi attoniti, la serie A che si ferma in tutta Italia. Come se uno schiaffo possente avesse percosso questa domenica di voto e di calcio. La morte di Davide Astori sembra dirci, e anzi gridarci, che non sappiamo il giorno, e l’ora. Tutti bruscamente richiamati alla coscienza che la vita non ci appartiene. Che siamo solo creature dentro a un Mistero, che non siamo padroni di niente.
Che urto ai nostri cuori, nell’eco delle ultime grida elettorali, delle sfide, delle promesse, degli insulti, la morte di un campione – l’ultimo di cui avresti potuto immaginare che fosse giunta la sua ora. Si può recriminare, imprecare, maledire il Caso. Oppure mettersi in ginocchio. Forse è questa, la cosa più ragionevole e realista. Nel riconoscere che nessun istante ci appartiene, che nessun figlio, nessuna persona amata è nostra. Perché tutti sono di un Altro. Del quale non possiamo capire i disegni. “Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri”.
A quel giovane volto da garibaldino, vorremmo dare una carezza. Al combattente, al Capitano abituato alle grida e al furore degli stadi, di cui forse anche la Morte ha avuto pietà.
E non gli ha voluto far male. Soltanto una carezza, senza svegliarlo. E il Capitano è partito per un altrove che noi non conosciamo. Con la sua donna, la sua bambina, la sua squadra nel cuore. Ma dentro un’altra vita, immensa. (E cieli e prati infiniti, e forse ancora l’ebbrezza delle vittorie di un tempo nella memoria? L’ebbrezza del gol, quando con i compagni ci si abbraccia, sudati e felici. Ma quella gioia, ora, per sempre. Ciò che noi non possiamo capire). E noi dunque qui attoniti, noi schiaffeggiati dalla morte di un campione. Come ci fosse gridato, ineludibilmente: non sapete il giorno, e l’ora.
Fonte: Marina Corradi | Avvenire.it