Diversi fattori concorrono, in questa prima metà dell’anno, a portare alla ribalta il tema delle politiche di sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa. Innanzitutto, i bilanci e i report aziendali attestano che una quota crescente del sistema produttivo ha fatto propria la Csr (Corporate Social Responsibility), integrandola nella strategia di sviluppo del business. Passaggio non da poco, perché marca ancora una volta il confine tra un impegno di carattere integrativo, per lo più reputazionale se non addirittura cosmetico, e una strategia di medio-lungo termine, che sia in grado di contribuire alla creazione di valore nel tempo.
In secondo luogo, si rafforza la consapevolezza degli stakeholders, soprattutto clienti e consumatori, sull’importanza dei processi di produzione e distribuzione dei prodotti o servizi che vengono loro proposti. Le aspettative non si fermano più ad aspetti di mera informazione e trasparenza: poiché molti sono disposti a pagare un differenziale di prezzo per consumare in modalità “sostenibile”, si richiede alle aziende un comportamento sostanzialmente conforme a queste aspettative, pena la perdita di quote di mercato.
Un terzo fattore riguarda gli aspetti regolatori. Dal 1° gennaio 2017 (ossia nei bilanci che saranno presentati nel 2018) le aziende con oltre 500 dipendenti dovranno rendere pubbliche, oltre alle informazioni finanziarie, anche quelle relative ad ambiente, politiche sociali, diritti umani, politiche di genere e anti-corruzione, in attuazione della direttiva Ue 95/2014, che il nostro Paese si sta apprestando a recepire. Entro il 6 ottobre prossimo un primo schema di provvedimento dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri per poi, acquisiti i necessari pareri parlamentari, essere licenziato entro il 6 dicembre, termine di recepimento. Si tratta di una scadenza importante, che può comportare un cambio di passo nella reportistica, purchè l’adempimento non sia appesantito da eccessivi vincoli burocratici, generalmente inutili, ma particolarmente dannosi in questa materia.
In un contesto così delineato si colloca la pubblicazione, pochi giorni fa, del settimo rapporto dell’Osservatorio Socialis di Roma sull’impegno in Csr delle aziende italiane, uno studio su base biennale, avviato fin dal lontano 2001 e condotto con la collaborazione di numerose aziende e il patrocinio di otto università distribuite su tutto il territorio nazionale. I dati presentati quest’anno sono i più elevati di sempre in termini percentuali: l’80% delle imprese con oltre 100 dipendenti, infatti, dichiara di impegnarsi in attività di Csr (erano il 72,9% due anni fa). Record anche per l’investimento globale, stimato in 1,12 miliardi nel 2015, contro i 920 milioni indicati nel rapporto precedente.
Ai primi posti tra le iniziative si confermano la tutela dell’ambiente, il miglioramento del clima interno e il welfare aziendale. In particolare, il 56% del campione indagato dichiara di aver promosso attività di sostenibilità ambientale e il 53% progetti per migliorare le condizioni di lavoro o il benessere dei dipendenti.
Cresce la reportistica: il bilancio ambientale raddoppia, passando nell’ultimo biennio dal 30 al 63% del panel di imprese oggetto della rilevazione, mentre il bilancio sociale si conferma intorno a quota 60% e fa capolino anche il report integrato, che in alcune grandi realtà riunisce le informazioni di bilancio e quelle di natura non finanziaria. Sempre più spesso a occuparsi di Csr c’è una figura professionale specifica o un team dedicato: la quota del 33% rilevata nell’edizione 2014 raggiunge ora il valore record del 44 per cento.
«Il 2016 può essere davvero considerato l’anno della Csr – commenta Roberto Orsi, direttore dell’Osservatorio Socialis e promotore della ricerca -. È stato necessario molto tempo, oggi però assistiamo a un deciso rafforzamento del trend, i cui effetti saranno ancora più evidenti tra pochi mesi, quando anche l’Italia avrà recepito la direttiva comunitaria sulle informazioni non finanziarie».
Fonte: Leonardo BECHETTI | IlSole24ore.com