“Nessuno, oggi, si sognerebbe di mettere in discussione la costituzionalità della legge che, nel 1986, ha introdotto l’obbligatorietà del casco. Eppure all’epoca ci fu chi lo fece”. Alfredo Mantovano scandisce le parole. L’attuale magistrato, già parlamentare per quattro legislature e sottosegretario all’Interno in due governi Berlusconi, sa bene che l’argomento lo esige. La vicenda della morte di Fabiano Antoniani, per tutti Dj Fabo, continua a far discutere dopo che la Corte d’Assise di Milano ha deciso di interrogare la Consulta sulla legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale che punisce col carcere (da 5 a 12 anni) “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata durante il processo a Marco Cappato che, dopo aver accompagnato Fabiano a suicidarsi in Svizzera nel febbraio del 2017, si era autodenunciato. La domanda cui la Consulta dovrà rispondere è: ha senso prevedere il carcere per chi si è limitato ad accompagnare una persona che aveva già deciso, nella sua libertà, di morire?
Per Mantovano la vicenda, che per molti è una battaglia ideologica, andrebbe piuttosto trattata sul piano culturale. E giuridico. Il Centro Rosario Livatino, di cui è vicepresidente, ha depositato un atto di intervento alla Corte Costituzionale che si trasformerà in una memoria “più ampia non appena verrà avviato il giudizio”. Per questo, parlando con il Foglio, Mantovano parte dall’esempio del casco. “Quando nel 1986 venne contestata la legge sul casco le argomentazioni erano simili. Il tema era quello della libertà di procurarsi un danno attraverso una condotta che lede esclusivamente sé stesso”. E quale fu la posizione della Consulta? “La Corte citò esplicitamente il dovere di solidarietà sociale disciplinato dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Il casco, proteggendo la persona da eventuali danni, rispondeva pienamente al dettato costituzionale. Quando, come fa la Corte d’Assise, si punta a stabilire per legge un diritto al suicidio, bisognerebbe partire da qui. Dal fatto che alla base della nostra Carta c’è un tratto solidaristico. E porsi una semplice domanda: è più conforme alla Costituzione una legge che aiuta le persone a ridurre una condizione di disagio, evitando ad esempio che un depresso abbia la libertà assoluta di suicidarsi, o una che punta a darti la possibilità di ucciderti come e dove preferisci?”.
Per i giudici di Milano la condotta di Cappato ha solo “agevolato” Dj Fabo ma “non ha agito sulla sua volontà”. “Purtroppo – spiega Mantovano – chi ha letto questa storia triste nell’ordinanza della Corte di assise di Milano sa che Fabiano Antoniani già da un anno manifestava ai propri amici e famigliari la volontà di suicidarsi. Ma questa è diventata concreta solo quando ha trovato chi lo ha accompagnato. L’atto di accompagnarlo, quindi, ha inciso sulla volontà. Non solo, quello che è successo a Fabiano non può essere paragonato a vicende precedenti come quella di Piergiorgio Welby. In quel caso, infatti, la decisione riguardava l’essere staccato dai macchinari sanitari. Antoniani, invece, ha assunto direttamente una dose di veleno che gli è stata somministrata”.
Il governo, nel frattempo, si è costituito davanti alla Consulta in difesa della norma contro l’istigazione al suicidio. “Una scelta apprezzabile ma inevitabile. E’ prassi che il governo si costituisca. Non è quindi un atto di eroismo anche se, avesse deciso diversamente, sarebbe stato un chiaro segnale politico”. Certo, stando a Roberto Saviano, si è trattato comunque di un segnale politico. Ovviamente negativo. “Quello che non si capisce è che introducendo il ‘diritto al suicidio’ come qualcuno vorrebbe potremmo trovarci davanti a dei paradossi. Poniamo che io impedisca a una persona di gettarsi da un ponte, verrò accusato di violenza privata? Un’ambulanza potrà intervenire per soccorrere un suicida che è in fin di vita? Prevarrà la volontà del medico o del paziente?”.
Una domanda che lega il dibattito odierno a quello sulla legge, recentemente approvata, sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. “Il vero punto critico di quella legge è che stravolge completamente la professione del medico e la sua relazione col paziente. Che non si fonda sul consenso informato, ma sul bene stesso del paziente. Il consenso, semmai, è un limite che impedisce al medico di fare delle scelte. Anche quelle che potrebbero salvare una vita. D’ora in poi i dottori sceglieranno le soluzioni che creeranno loro meno problemi. E si trasformeranno in semplici impiegati. Dopotutto di cosa ci meravigliamo. Già oggi, per far quadrare i conti, ad alcune persone anziane colpite da patologie tumorali, viene consigliato di non sottoporsi alla chemio”.
Cosa ci si deve aspettare quindi dalla Consulta? “Fare previsioni sarebbe irrispettoso. Possiamo semplicemente auspicare che le ragioni della vita vengano tenute in considerazione. Una legislazione che ammette il diritto al suicidio ci farebbe tornare ad ere selvagge in cui i malati venivano abbandonati a se stessi. La domanda che dobbiamo porci è: che idea dell’uomo abbiamo? La persona va rispettata come tale? O esistono persone di serie A e persone di serie B?”.
Fonte: Nicola Imberti | IlFoglio.it