«Esisto ma non sono viva, e voglio esserlo. Come si fa? Tu come fai? Io voglio gustare ogni istante e farlo mio! Voglio che la mia vita sia piena. Restino pure le difficoltà, le fatiche e le sofferenze. Ma voglio essere salda, piena, gioiosa. Sembra molto più comodo e sbrigativo vivere senza aspettarsi troppo. Ma così io NON SONO FELICE!». Ho la fortuna di ricevere spesso lettere come questa, che mi costringono, come solo la scomposta sincerità dei ragazzi sa fare, a interrogarmi sull’essenziale. Queste righe mi piacciono perché non cercano l’emozione fuggendo dalla realtà, da cui non pretendono di rimuovere difficoltà e sofferenze, ma cercano la vita vera, perché esistere non basta. Come si fa? Tu come fai? Sono domande la cui risposta può essere solo narrativa, perché la felicità è sempre un racconto. Per questo Milan Kundera sosteneva che «ogni romanzo, che lo voglia o no, propone una risposta alla domanda: che cos’è l’esistenza umana e dove sta la sua poesia?», e poneva a un estremo gli autori per cui la poesia è nel fascino dell’azione e dell’avventura, all’altro estremo quelli per cui è invece nell’interruzione dell’azione. In mezzo tutte le gradazioni narrative, e della felicità.
Mi sono sempre divertito con i miei studenti a ragionare sui generi letterari non come strutture da imparare, ma come domande fondamentali sull’esistenza, che si strutturano in forme più o meno rilevanti nelle varie epoche. Il giallo si domanda: esiste la verità? E la sua poesia è nella ricerca di giustizia, e forse per questo oggi è il genere che più riempie scaffali e palinsesti. L’horror si interroga su cosa è umano attraverso ciò che non lo è e ci fa paura, come mostrano i libri di Stephen King o serie come The Walking Dead. La fantascienza, dai racconti di Io, robot di Isaac Asimov alla serie tv Black Mirror vuole sapere: che cosa è il presente se questo è il futuro? E così via. Ma come segnala Kundera c’è una domanda che accomuna tutti i generi di racconto e quindi della vita: che cosa è l’esistenza umana e dove sta la sua poesia? Dalla risposta dipende la felicità.
Lo abbiamo imparato da bambini ascoltando i magici «c’era una volta», in cui era già contenuto tutto: l’imperfetto del verbo essere ricorda che ogni storia vuole un compimento, e il «ci», avverbio di luogo, con la segnalazione temporale «una volta», indicano l’essere qui e ora come teatro del viaggio a cui il protagonista è chiamato, nelle fiabe come nella vita. Einstein, studente riottoso, sosteneva che per avere bambini intelligenti basta leggere loro le fiabe che preparano al qui e ora della vita, con le annesse sfide, paure, verità, ferite, sconfitte, rinascite… e lo fanno attraverso la poesia della vita, che non nasconde la realtà, ma la abbraccia con mezzi adatti a sondarne la sostanza misteriosa. Con Einstein concordava il suo amico e nobel della fisica Niels Bohr, dicendo che ci serviamo «di immagini, parabole, paradossi, perché non c’è altro modo di afferrare le cose a cui si riferiscono. Ma ciò non significa che queste cose non siano reali».
Dunque che cosa è l’esistenza e qual è la sua poesia? Rispondere alla seconda domanda getta luce sulla prima. Tutti noi ogni tanto veniamo «raggiunti dalla poesia»: succede, ad esempio, quando esclamiamo «questo vino è poesia», «ha fatto un goal da poesia». La parola «poesia» ci serve a indicare un evento che, nel quotidiano, ci illumina. Sono momenti in cui qualcosa che sta fuori di noi ci viene incontro e riempie a tal punto le nostre aspettative che ci sentiamo «in accordo» con il mondo, nella giusta proporzione: la pienezza che le cose potrebbero avere ci è offerta e ci fa sentire «accordati» in noi stessi e con gli altri: carne e spirito si riannodano armonicamente e trovano la pace a cui anelano. Tutto ciò che separa la carne dallo spirito, tutto ciò che ci disunisce, che ci fa sentire separati, spezzati, inadatti, senza proporzioni, è tutto ciò che è privo di poesia.
Nella primavera del 1982 lo scrittore Julio Cortázar decise di fare un viaggio con la sua amata Carol Dunlop, malata di aplasia midollare, da Parigi a Marsiglia. Niente di straordinario, se non fosse che ci misero 33 giorni, perché ciò che contava non erano partenza e meta ma le soste, quattro al giorno per mangiare e dormire, in tutte le aree di servizio, stenografando, tra parole e fotografie, tutto ciò che accadeva e incontravano, totalmente aperti l’uno all’altra e al mondo circostante. Un tratto di strada che richiede normalmente sei o sette ore si trasforma in una spedizione simile a quella dei grandi esploratori del passato. Ne nasce un libro: Gli autonauti della cosmostrada, in cui i due Argonauti in versione hippie, anziché in nave, viaggiano su un pulmino Volkswagen Kombi rosso fuoco, e l’autostrada è il cosmo intero. Ogni centimetro di vita ordinaria, con la sua noia e apparente insignificanza, mostra la sua poesia, dalla strada che «non è una linea retta ma una spirale, anche le nostre due vite sono spirali», a un’aiuola di rose in un autogrill: «chi ci dice che quel colore, che è una sorpresa di per se, non esista allo scopo di allontanare lo spettatore, per la sorpresa stessa, da un’altra cosa, da una chiave nascosta all’interno dei petali, una bellezza ancora piùgrande?». Tutto diventa parte di un gioco che non fugge dalla realtà, ma vi si addentra, anche la più polverosa e dimenticabile, e vi trova ciò che unifica l’uomo in un «crescendo di felicità e di amore da cui siamo usciti così colmi che niente, dopo, nemmeno in viaggi incredibili e in ore di perfetta armonia, ha potuto superare questo mese interiore in cui per la prima e ultima volta abbiamo saputo cosa fosse la felicità assoluta… perché l’amore e l’allegria ci riempivano troppo per lasciare spazio a un’ansia di ricerca. Avevamo trovato noi stessi e questo era il nostro Graal sulla terra». Accordo interiore ed esteriore: questa, forse, l’equazione della felicità.
Quattro mesi dopo il viaggio la malattia vinse Carol, che Julio ricorda alla fine del libro: «la tua mano scrive, insieme alla mia, queste ultime parole in cui il dolore non e, non sarà mai più forte della vita che mi hai insegnato a vivere, come forse siamo riusciti a dimostrare in quest’avventura che si conclude qui ma continua, continua per sempre nella nostra autostrada». Ecco il punto: azzardare il lessico del per sempre, riscattando ogni cosa, anche la più piccola, dall’ombra della morte, facendola cadere sotto il cono di luce dell’amore e dell’attenzione. Così, anche a sconosciuti e addetti «delle aree di sosta che, con un sorriso o un gesto amichevole, resero più luminoso lo scenario di ogni giorno», per la prima volta nella storia della letteratura, è offerta una dedica.
La poesia della vita è l’esperienza profonda dell’accordo: uscire da noi stessi per rientrare dentro noi stessi riconosciuti e quindi riconoscenti, sperimentando l’unità e la unicità della nostra esistenza, che spesso ci sembra irrimediabilmente separata dagli altri, dal mondo, e addirittura da se stessa, spezzata. Le espressioni ordinarie di questa poesia sono, in relazione agli altri, l’amicizia e l’amore, e in relazione al mondo l’attenzione e la cura all’unicità delle cose. Se diciamo che qualcosa «è poesia», si è compiuta una nuova unità tra corpo e spirito, sono state superate la solitudine e la separazione da tutto il resto, siamo divenuti polo di una relazione rigenerante. Se coltivassimo la nostra vita profonda, la poesia scaturirebbe dalla dura roccia del quotidiano, perché è una condizione interiore che si nutre di ogni occasione, anche la meno appariscente. Troppo spesso invece andiamo alla ricerca della poesia nel «poetico», nello straordinario, che dopo l’ebbrezza iniziale evapora, perché manca la profondità unificante che la vita sa donare a chi cerca con attenzione.
Trovare poesia nel quotidiano è il segreto di un’esistenza felice e per questo la seconda domanda di Kundera, cioè che cosa è poesia nell’esistenza, risponde anche alla prima domanda: che cosa è l’esistenza? La progressiva e sensata unificazione delle nostre forze interiori e l’armonia delle relazioni esteriori, l’accordo tra carne e spirito e poi l’accordo con gli altri e con il mondo: essere accordati porta ad essere concordi. Il letto da rifare oggi è la ricerca della poesia del quotidiano, che ci consente di viverlo in impegnata pienezza e non come condanna. Siamo alla ricerca di un Eden che ci sta irrimediabilmente alle spalle e vi proiettiamo tutto quello che ci manca. Ma se questo Eden fosse qui e adesso, incastrato in mezzo alle faccende di tutti i giorni e dipendesse solo da noi vederlo, costruirlo e abitarlo?
A me accade tutte le volte che faccio lezione ai miei ragazzi, tutte le volte che leggo un bel libro o racconto una storia, ascolto un pianoforte o la risacca, tutte le volte che prego, tutte le volte che bevo una birra con un amico, tutte le volte che dico e mi sento dire: amore mio.
Fonte: Alessanro D’AVENIA | Corriere.it