È come se vivessimo nel mondo di “Blade Runner ”con gli schemi intellettuali del “Nome della rosa”. Un futuro medievalizzato. È la situazione che vive oggi il diritto del lavoro quando deve fronteggiare l’impatto della diffusione dell’internet delle cose e dell’esplosione dei nuovi consumi online con il suo paradossale seguito di lavori inimmaginabili, ma anche iper-tradizionali, addirittura caratterizzati da una nuova dimensione della fatica. Di una fatica 2.0.
Il Novecento con il suo complesso (a tratti drammatico) portato di diritti legati proprio al tema del lavoro si schianta con l’oggi dell’intelligenza artificiale e dei big data, con lo sviluppo delle mansioni create dal nuovo rapporto uomo-app, apparentemente più simili a un hobby o a un passatempo che non a un impegno codificato e tradizionale (per questo lo slang anglosassone ha subito provveduto a battezzarla “gig economy”).
Il lavoro però è così eternamente uguale a se stesso quando si riduca a inforcare una bicicletta per fare consegne nel più breve tempo possibile o immettere dati in un computer, secondo le metriche della nuova forma di operaismo informatico. Di passatempo in verità c’è poco, soprattutto se fai i conti con sistemi di valutazione della performance legati a una sorta di implacabile patente a punti, sistema in voga negli Usa che non tiene in grande conto, ad esempio, la variabile-malattia.
La digitalizzazione dell’economia pone nel proscenio il cittadino come consumatore e lascia in ombra la dimensione del cittadino come lavoratore: è all’interno del modello di consumo che si trovano forme di soddisfazione di ogni genere di necessità e bisogni (talvolta anche di welfare) e la stessa politica sembra aver scelto di parlare d’altro, anche se non ha mai rinunciato alla retorica della creazione dei milioni di posti di lavoro, realizzati o da realizzare a seconda del veicolatore della narrazione.
Il Jobs act ha avuto il merito di abbattere il tabù dell’articolo 18, inteso come simbolo di un sistema di regole anacronistiche rispetto alle nuove realtà lavorative e soprattutto rispetto alla necessità di favorire un humus culturale più adatto all’attrazione di investimenti.
Ma non ha completato l’opera. Il lavoro resta una realtà difforme e varia nei referenti, nelle modalità operative, nelle condizioni. Fotografare con regole omogenee questi fenomeni così caleidoscopici non è semplice; forse mai come adesso il tema del lavoro è difficile da rendere in categorie giuridiche razionali e semplici, come è stato per tutto il secolo scorso, quando il tema è stato centrale nella messa a punto dei quadri di valori delle grandi scuole politiche.
La bicromia del lavoro o subordinato o autonomo deve fare i conti con una nuova scala di colori e con le sfumature prodotte dalle inevitabili contaminazioni. La subordinazione ha come caratteristiche proprie la presenza nei locali dell’impresa, l’inserimento in una organizzazione aziendale, l’uso di macchinari o utilities dell’impresa, la definizione di un orario per le prestazioni. Schema che regge ancora per molti lavori, ma non del tutto applicabile alle nuove modalità d’impiego legate al mondo digitalizzato.
È vero che nel frattempo è nato il lavoro a somministrazione, quello agile e a chiamata. È vero che è stato razionalizzato il caos delle partite Iva vere o presunte, ma il mainstream del diritto del lavoro resta comunque la grande autostrada a due corsie: subordinazione o autonomia.
È troppo poco per definire i nuovi rider che portano sushi governati dagli algoritmi ed è troppo se quella interpretazione “brucia”, ad esempio, un sistema virtuoso come quello dei voucher che ha finito per ingrossare il vecchio sommerso di necessità e per ridurre le entrate destinate all’Inps per quel canale.
È poi del tutto distante da un sistema di diffusione della sharing economy dove gli elementi di condivisione del consumo potrebbero addirittura ribaltarsi anche nella condivisione dei fattori produttivi dell’impresa o nelle forme di welfare.
Il doppio Jobs act, nella versione per il lavoro dipendente e in quella per l’autonomo, ha tentato di portare una sorta di eguaglianza delle condizioni di base tra i due mondi del lavoro. Ma non riesce a intercettare la rapida evoluzione materiale dei comportamenti di datori di lavoro e occupati. Non è sufficiente la discriminante della prestazione eterodiretta o dell’assunzione in proprio della gestione del rischio e poco può il più recente tentativo di governare l’area grigia tra autonomia e subordinazione mediante il criterio della etero-organizzazione della prestazione (tempo e luogo di lavoro), a tratti stravolto dalla contrattazione collettiva; c’è un po’ di autonomia nelle forme più avanzate di subordinazione e un po’ di dipendenza nei lavori autonomi inventati dalla rete.
È maturo il tempo per un ripensamento della cornice delle regole, probabilmente per cercare un nuovo denominatore comune, magari più circoscritto. Con la certezza che il lavoro resta tema vivo e vitale anche per l’elaborazione dei codici della politica, finora così poco attenta ai mutamenti di lungo periodo della società. O troppo immaginifica se guarda solo a un domani fatto di ozio creativo e senza il lavoro perché appaltato del tutto ai robot.
C’è spazio per fissare regole per legge che colgano i nuovi perimetri e creino le condizioni per la libera organizzazione di negoziati contrattuali tra i nuovi attori che definiscano i singoli tratti distintivi delle diverse modalità di “ingaggio”. I temi non mancano: dall’orario alla misurazione della produttività, dal salario alle nuove forme di welfare, dalle modalità di rapporto con le application digitali fino al tema dirompente della privacy ogni argomento potrebbe diventare oggetto di confronto. Senza contare che, forse, si sta affacciando un nuovo tema del tutto inedito per le relazioni industriali: la contrattualizzazione proprio della stessa tecnologia. Fatto che apre uno spazio di rappresentanza nuovo e più largo, fino a comprendere anche chi abbia la responsabilità delle reti utilizzate.
È per questo che Il Sole 24 Ore ha deciso di aprire una discussione tra le diverse scuole di pensiero sul tema del lavoro: superata la fase in cui lo storytelling prevalente era quello di immaginare un mondo senza intermediazioni di interessi, ci si è resi conto che proprio il tema del lavoro moderno riapre il capitolo dei nuovi diritti, letti in una chiave di nuova cittadinanza “globale” perché proprio il lavoro è diventato il terminale su cui si scarica tutto il bene e tutto il male del nuovo mondo iper-connesso e interdipendente.
Fonte:Alberto Orioli | IlSole24ore