La grave patologia raccontata da Sacks fa emergere cosa significhi essere qualcuno: possedere un racconto che abbia una continuità nella molteplicità di eventi e compiti della vita. Il paziente per salvarsi dal continuo naufragio di memoria deve inventare, per ogni situazione in cui interagisce con gli altri, un io provvisorio, perché, continua Sacks: “ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un «racconto», e questo racconto è noi stessi, la nostra identità”.
Il sé non è un guardaroba di identità da scegliere e indossare a piacimento, ma il fondamento dell’esistenza. Se non vogliamo impazzire, abbiamo bisogno di una vita interiore, che dia continuità e quindi senso al nostro navigare nel mare del tempo, tra tempesta e bonaccia. Ulisse ha sconfitto il Ciclope fingendo di chiamarsi Nessuno, ma lo ha fatto proprio perché sapeva chi era e dove andava.
Tutto questo mi ha ricordato la lettera che ho ricevuto di recente da una donna diventata cieca. Mi raccontava dell’effetto “curativo” di un libro ascoltato, in un parco, dalla voce di chi la ama: “da adolescente fuggivo dal caos domestico per andare a leggere negli angoli nascosti del quartiere. Frequentavo il liceo e vedevo già pochissimo dall’unico occhio che rimaneva acceso. Sottolineavo pesantemente i libri con colori forti, per ritrovare facilmente le righe preferite. Mi diplomai con le scuse dei docenti: neanche un insegnante mi aveva aiutato, non esisteva neanche il sostegno… Fu bello vincere la mia prima vera battaglia grazie all’amore smisurato per i libri che fin da bambina fondarono le basi della mia resilienza. Mentre ascoltavo il libro ho ritrovato il filo di continuità con me stessa, il filo che ho perso tre anni fa, quando quasi allo scadere del tempo possibile, la natura ha fatto dono a me e al mio meraviglioso compagno di un bambino che, in modo imprevedibile, ha spezzato la blindatura della mia anima, in cui già suo padre aveva lasciato una breccia. Per anni ho detto che non volevo diventare madre. I bambini mi piacevano tantissimo, ma consideravo disdicevole dare una madre cieca a un figlio. La mia naturale inclinazione alla cura era più che saziata dalla mia professione di psicologa. Diventata cieca dopo la laurea e la specializzazione, riuscivo a condurre una vita felice, in cui un figlio poteva solo scombinare l’equilibrio raggiunto con tanta fatica. Il giorno che è nato il mio bambino pensavo di morire. Temendo di non avere il tempo di potergli dare abbastanza, quando me lo hanno messo vicino gli ho cantato una canzone. Volevo lasciargli almeno la mia voce. Pensavo di non essere capace, di non voler fare la madre e invece mi sono innamorata di mio figlio, non certo del ruolo. Leggendo (pardon ascoltando!) le pagine del libro, ho ri-contattato, o mi sono ri-connessa (come si dice oggi), alla studentessa fiduciosa che i suoi desideri si sarebbero avverati. Ho ritrovato il filo di continuità. Sento di non aver tradito me stessa”. Questa donna è riuscita a riconnettersi con la protagonista della propria vita che le consente di dire “io”, di avere una continuità narrativa, di dare senso a tutto, anche ciò che sembra non averne o scompagina la vita come un terremoto.
Qual è allora il fondamento della continuità dell’io, il filo della fedeltà a se stessi? Che cosa mi consente di dire “io sono io”? La donna della lettera rinviene la sua continuità con l’adolescente battagliera aperta al futuro, una continuità che si è strutturata grazie agli studi, alla cecità, alla maternità, che ha saputo interiorizzare. Non si è disciolta nei ruoli o nelle situazioni, proprio perché lei vive più in profondità. Ricordo un conoscente, talmente identificato con la sua professione, che, venuto meno il ruolo, era smarrito, come se smarrita fosse la sua stessa identità: non aveva più niente da raccontare. Non c’era il sé profondo, disperso in io provvisori, tenuti su da impalcature che la vita con i suoi terremoti spesso spazza via. Il sé profondo è un racconto che emerge nei momenti di silenzio o in quelli dedicati alle relazioni essenziali: vita interiore e relazioni vere (di famiglia, d’amore e d’amicizia) ci garantiscono la continuità narrativa e ci riparano dall’io-prestazionale. Chi ci dice “ti amo” o “ti voglio bene”, ci dice “vai bene così”, a prescindere da ciò che fai o appari, e ci riconnette a noi stessi. Vita interiore e relazioni sane strutturano il sé, come accade alla donna che ascolta un libro, nella quiete di un parco, dalla voce di chi la ama. Si riconnette al sé protagonista dell’intera storia, e si riconosce fedele a se stessa, e trova pace. Qualcosa che a volte accadeva persino al paziente di Sacks: “tutti i nostri sforzi per «ri-connettere» William falliscono, o addirittura accrescono la sua urgenza di confabulare. Ma quando lo lasciamo tranquillo, a volte va a passeggiare nel giardino che circonda la clinica, e lì ritrova la pace. La presenza degli altri lo costringe a un vero e proprio delirio di creazione e ricerca di una identità; la presenza delle piante, la quiete del giardino, con il suo ordine, fanno sì che il delirio d’identità possa placarsi, offrendogli (su un piano sottostante o trascendente) una profonda comunione con la Natura stessa, e con questo gli restituiscono il senso di essere nel mondo, di essere reale”.
Quell’essere reali impossibile ai personaggi della fortunata serie La casa di carta: prigionieri e banditi indossano tutti la medesima tuta rossa e una sardonica maschera di Dalì. Non è più possibile attribuire un’identità a nessuno, sequestrati e sequestratori sono ridotti a maschere che impediscono alla polizia di intervenire. Il letto da rifare di oggi è quello della nostra identità narrativa. Quale storia possiamo raccontare a noi e al mondo? A cosa corrisponde il nostro io antisismico? A maschere che ci impediscono di essere fedeli a noi stessi e agli altri di riconoscerci? Prima o poi le maschere cadranno e la vita nuda chiederà il conto, anzi chiederà il racconto. A ciascuno il suo.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it