Prosegue il dibattito su cattolici e politica avviato dopo le elezioni del 4 marzo. Interviene Riccardo Saccenti che già aveva aperto il dibattito all’indomani del voto.
Il dibattito che in queste settimane ha animato le pagine di Toscana Oggi resituisce un quadro plurale e ricco delle sensibilità politiche che si ritrovano in seno al cattolicesimo. In particolare emerge con chiarezza la lucida consapevolezza del passaggio di epoca che attraversiamo e delle sue implicazioni anche riguardo al ruolo e alla rilevanza del cattolicesimo politico. Tutto questo si misura però con un contesto sociale e storico che appare fortemente segnato da una sorta di incomunicabilità fra le culture politiche di ispirazione cattolica e la realtà del paese, che è certificata sia dalla scarsa attenzione che tutte le forze politiche hanno riservato a chi di quelle culture era espressione, sia dal livello marginale di consenso raccolto da quelle forze politiche che espressamente si richiamavano a «valori» cristiani.
Questo iato fra il cattolicesimo politico e il quadro sociale, economico, culturale del nostro tempo si colloca dentro un duplice orizzonte. Da un lato accomuna tutte le culture politiche che hanno caratterizzato il Novecento, incluse quella liberale a quella socialista. Dall’altro lato si tratta di una crisi che attraversa tutti i paesi con ordinamenti di carattere democratico. Paradigmatica di questo doppio livello del problema è la messa in discussione del progetto politico europeo, il quale non soffre solo dell’incapacità di composizione di interessi divergenti degli stati nazionali. Il ritorno dei nazionalismi che è emerso anche nel quadro italiano con il successo della Lega e in parte del Movimento 5 Stelle, ha infatti un tratto non ideologico, o meglio «non culturale», perché alla pretesa difesa della «identità nazionale» ha sostituito quella di un «interesse nazionale» concepito in termini prettamente economici ossia come difesa del tenore di vita di chi detiene lo status giuridico di «cittadino» italiano. Dentro questa visione, aspetti rilevanti della dimensione umana come il religioso, sono ridotti ad un tradizionalismo che rende irrilevante il loro contenuto di fede. Tutto questo risponde ad una sensibilità politica modellata sulla immediatezza del consenso conquistato e non costruito e che dunque non si preoccupa di visioni di ampio respiro che invece sono il proprium di ogni cultura politica.
È di fronte alla consapevolezza di questo orizzonte storico che emergono le domande sul ruolo dei cattolici in politica: esiste uno spazio per una cultura politica e nello specifico per una cultura politica di ispirazione cristiana? Che attenzione vi è alla politica nei cristiani e che qualità ha la sensibilità politica dei credenti?
Dare una risposta a questi interrogativi obbliga a prendere le mosse dal rimarcare quello che è un dato costitutivo dell’essere cristiano: la cura del prossimo, della realtà umana in tutte le sue sfaccettature. Il cristiano ha, in ragione della propria natura, una vocazione politica. Più nello specifico: egli vede nel politico uno dei piani esistenziali dove più propriamente dare forma al comandamento dell’amore. Il Vaticano II, maturando la secolare esperienza dell’insegnamento della Chiesa, vede la politica come luogo proprio dei laici, riconoscendo così non solo una specifica funzione laicale ma anche la piena autonomia della politica, che è tutta umana e tutta storica. E proprio perché tutta umana e storica è illuminata dal Vangelo, provocata intimamente dalla Parola. Questo significa che il cristiano, nel vivere la dimensione della propria esistenza deve essere «sale della terra e luce del mondo» scoprendo, in ogni circostanza storico-culturale, quegli elementi di umanità che proprio la Parola illumina.
Questa argomentazione risponde certamente ad una logica di ordine religioso, ma proprio per questo è anche estremamente laica nella misura in cui riconosce la temporalità dell’uomo e la piena autonomia della storia, nella quale lo sguardo credente coglie una traccia di senso. Essa suggerisce che l’approccio del cristiano alla politica richiede di muovere da una profonda coscienza del valore dei segni dei tempi. Segni, per altro, che l’insegnamento «sociale» della Chiesa ha saputo cogliere nelle stagioni anche recenti della storia: si pensi ai grandi documenti sulla pace e sullo sviluppo umano di Giovanni XXIII e Paolo VI negli anni Sessanta del Novecento o al più recente accento posto sull’ordine economico e su una visione integrale della casa comune da Benedetto XVI e Francesco.
Tradurre questa sapienzialità nel quadro attuale suppone un impegno politico dei cristiani che è premessa al «partito» e che ruota attorno ad alcuni punti qualificanti. Da un lato occorre uscire dalla logica del «programma», che non risponde più a questo nostro tempo, e accettare invece la logica più faticosa e fondata sulla prossimità del «processo» e dunque delle relazioni, che sono in fondo il cuore della politica democratica. Questo cambio di prospettiva impegna direttamente le realtà laicali, che costitutivamente sono calate nei processi sociali, economici e culturali. Spetta a loro trovare le forme per far sì che i tanti processi che compongono la nostra vita si incontrino a ritessere una trama forte. Un esempio prezioso, da approfondire, maturare, estendere e rendere permanente, può essere quello delle settimane sociali, che hanno preparato e sviluppato una riflessione che occorre però tradurre nella prassi delle tante realtà cristiane del paese.
Tutto questo significa assumere la responsabilità e il coraggio di esprimere un giudizio, di esplicitare una posizione pubblica argomentata sulle questioni che tracciano il profilo del nostro tempo. Immigrazione, lavoro, giustizia sociale, relazioni internazionali, Europa, rapporto fra economia e finanza, cura della casa comune: sono tutti temi su cui occorre il coraggio di una parola credente e profetica che provochi la politica. E si tratta di una parola da pronunciare usando quel lessico che è proprio della grande sapienza cristiana e che è fatto di termini che hanno un significato attivo: giustizia, libertà, equità, pace. È al laicato, alla sua rete associativa, alle sue esperienze, che viene chiesto, in questo passaggio così tormentato per il paese, per l’Europa e per la famiglia umana, di fare tesoro della distinzione fra piano religioso e piano politico, non per essere impolitici ma per essere più che politici e dunque, da cristiani, pienamente cittadini.
Fonte: Riccardo Saccenti | ToscanaOggi.it