Mezzo secolo di esperienza pastorale
a servizio dell’Humanae vitae
Intervista all’ostetrica Flora Gualdani. Un lungo colloquio sul travaglio dell’enciclica di Paolo VI: dai tempi del Concilio Vaticano II ai nostri giorni. La fondatrice di Casa Betlemme illustra l’anamnesi, traccia la diagnosi e indica la sua terapia.
di Davide Zanelli
Flora, hai passato 50 anni a difendere l’Humanae vitae, consumando la tua esistenza per aiutare l’enciclica a diventare prassi tra la gente. Cominciamo dall’inizio: come nacque il tuo impegno su questo fronte?
Casa Betlemme esisteva già dal 1964. Avevo avviato l’opera dopo una forte intuizione ricevuta nella Grotta di Betlemme durante il mio primo viaggio in Terra Santa. A quei tempi andavo spesso all’estero e in un ospedale di Londra avevo incontrato donne italiane che volavano lì il fine settimana per abortire, quando ancora da noi non esisteva la legge 194. La cosa mi aveva turbato molto, interpellandomi sul piano cristiano e professionale, come ostetrica. Mi rendevo conto che era urgente lavorare sulla prevenzione, fare cultura. Ne parlai in diocesi, nell’Azione cattolica. Ma i tempi non erano maturi. E così, mentre a Roma c’erano i lavori del Concilio Vaticano II, io dentro quella Grotta capii che dovevo incamminarmi da sola. Rientrata al lavoro, incontrai in reparto una giovane povera donna, gravemente malata di cancro, che non intendeva abortire nemmeno davanti al consiglio dei tre medici come prevedeva all’epoca la legge Rocco. Le stetti vicino. Dalla scelta eroica di quella madre nacque una bambina e con lei tutta un’Opera. All’inizio Casa Betlemme era quindi soprattutto una casa di accoglienza per le “ragazze madri”, centro di assistenza per le maternità difficili.
Avevo anche fatto la mia esperienza di “Chiesa in uscita”, incontro alle periferie esistenziali cioè in mezzo alle guerre e ai disastri, negli angoli più poveri della terra attraverso un mio personale servizio alla “maternità senza frontiere”: India e Bangladesh, Africa e Cina, dall’Irpinia terremotata all’inferno della Cambogia, e poi la Bosnia Erzegovina ai tempi dello stupro etnico.
Cercando di rimanere sempre attenta ai segni dei tempi, ad un certo punto mi accorsi che era urgente aprire un altro reparto nel mio piccolo “ospedale da campo”: il reparto della formazione, per aiutare la Chiesa a trasmettere il messaggio dell’Humanae vitae.
Quale fu esattamente l’episodio che ti trascinò dentro la vicenda dell’Humanae vitae?
Il vescovo di Bangkok, durante la guerra in Cambogia, voleva che rimanessi e aprissi una casa là. Ma io sentivo che la mia missione era qua nel nostro occidente gaudente e disperato, dove stava emergendo il degrado morale e la povertà culturale su questi temi.
Nel 1981, ai tempi del referendum sulla legge 194, ci fu un convegno della Chiesa aretina dove un ginecologo abortista intervenne interpellando i responsabili. Lui disse che non era contento di praticare gli aborti ma domandò cosa francamente avesse da proporre la Chiesa come alternativa all’aborto. C’era la risposta dell’Humanae vitae ma quella risposta nessuno seppe darla. Mi sconvolse la gravità di questa omissione davanti alla buona volontà dell’abortista. Io però non ero abbastanza preparata per fare supplenza. Così l’indomani presi il treno per Roma e andai al Policlinico Gemelli dove incontrai la ginecologa missionaria Anna Cappella e i medici australiani Billings: pionieri nella regolazione naturale della fertilità, i primi laici che erano stati ammessi al sinodo del 1980 sulla famiglia, da cui scaturì l’esortazione Familiaris consortio. Insieme a loro incontrai altri giganti come il professor Jérôme Lejeune (padre della genetica moderna), il genetista Padre Angelo Serra, la psichiatra polacca Wanda Połtawska. E infine mons. Carlo Caffarra (il teologo moralista cui Wojtyla aveva chiesto di fondare l’Istituto Giovanni Paolo II) con mons. Elio Sgreccia, bioeticista padre del personalismo ontologicamente fondato. In quegli anni di aggiornamento ebbi cioè la fortuna di avere come docenti figure di questa statura. San Giovanni Paolo II li aveva fatti incontrare e li aveva legati tra loro, affidando ad essi varie responsabilità nei dicasteri vaticani. Dopo ogni congresso internazionale ci riceveva perché voleva essere informato sugli sviluppi pastorali e scientifici a livello mondiale riguardo l’Humanae vitae. Una sera, superando tutti gli appuntamenti che aveva in agenda, volle addirittura riceverci – noi allieve con le nostre maestre – nel suo appartamento privato, prima di cena.
All’Università Cattolica sedute accanto a me, come studenti, c’erano le suore che Madre Teresa inviava da Calcutta perché diventassero anche loro insegnanti dei metodi naturali. Le lezioni di tutti questi grandi maestri ho cercato di riportarle nella mia terra, trasmettendole ai miei collaboratori e a generazioni di sposi, a educatori laici, consacrati e medici.
La dottoressa Anna Cappella la invitai subito ad Arezzo per una conferenza: ricordo che fuori del salone parrocchiale le femministe protestavano animatamente e, dato il clima minaccioso, alla fine dovemmo passare da un’uscita secondaria. Tornati con la mia Fiat ‘500 a Casa Betlemme, ci fermammo fino a tarda ora con la mia mamma a recitare tutte e tre il Rosario e la Compieta. Nacque una bella amicizia e Anna Cappella, una delle ultime volte che l’ho incontrata anziana a Roma (un congresso internazionale nel 2005 per la quinta laurea Honoris causa conferita ai coniugi Billings), si ricordava ancora di quella avventurosa serata aretina.
Quanto è stato faticoso per te organizzare una scuola di formazione sull’Humanae vitae?
Anzitutto due premesse. L’idea di aprire una scuola a Casa Betlemme la devo a Santa Teresina di Lisieux, uno dei tre santi patroni a cui ho voluto legare tutta l’opera. Fu lei ad ispirarmela. Secondo: certi particolari che racconto qui come in altre interviste sono frutto di un profondo amore che nutro per la Chiesa cattolica. Ho dato tutta la mia vita e consumato i miei beni per amore della Chiesa. E’ per amore della Chiesa che abbandonai in anticipo la mia amata professione ospedaliera all’inizio degli anni ’90. E non fu per niente facile. Avevo davanti le mie due grandi passioni: l’ostetricia e la pastorale della vita nascente. Nel discernimento, ad un certo punto scelsi di servire quella che vedevo messa peggio, cioè la Chiesa.
All’epoca ero ancora pressoché da sola: diventata insegnante dei metodi naturali, cominciai ad organizzare a Casa Betlemme corsi rivolti a fidanzati e sposi, educatori, medici e sacerdoti. E giravo le quattro vallate aretine, più volte a settimana, per tenere incontri: una fatica da follia, mentre gestivo tutta l’accoglienza delle ragazze madri e lavoravo in ospedale con i turni di notte.
All’inizio pensavo – ingenuamente – che la mia diocesi avrebbe accolto a braccia aperte questo specifico servizio pastorale sull’Humanae vitae. Invece con i miei pastori, nel fare obbedienza, ho dovuto esercitare tanta paziente umiltà, tipicamente femminile. Ci sono voluti quarant’anni per avere la prima approvazione ufficiale di questa opera. Finché accogli le ragazze madri e fai – gratis – una meritoria opera sociale, ti battono le mani e ti danno premi. Quando invece parlavo di morale e del no alla contraccezione, la cosa si faceva complicata. Compresi che se volevo la libertà di parola dovevo parlare in casa mia. E spalancai sempre di più le porte.
Spiegaci meglio la questione dell’obbedienza. Com’è stato il tuo rapporto con i pastori?
Con tutti i miei vescovi c’è stato un buon rapporto, ma ad un certo punto li ho interrogati sulla loro posizione di fronte all’Humanae vitae. Volevo capire francamente da che parte stavano. Un primo vescovo mi disse che dovevo lasciar perdere con questi insegnamenti «…perché gli sposi lo sanno da sé come fare in camera da letto». Un altro vescovo mi ordinò (alzando la voce) di smettere di andare in giro ad insegnare queste cose, e mi proibì anche di riunire i giovani a casa mia per fare corsi. Si spinse oltre e mi disse: «finché io sarò vescovo, tu non sarai mai espressione della Chiesa!». Chiesi spiegazione di cosa non andasse nel mio apostolato ma non ebbi risposta. Feci obbedienza e gli dissi: «Eccellenza, farò quello che mi chiede: stia sicuro che appena torno a casa mi attacco al telefono e disdico tutti gli appuntamenti in diocesi. Per quanto invece riguarda i giovani a casa mia, Eccellenza, le dico che la mia casa se l’è sudata il mio babbo da emigrante, e la bocca me l’ha regalata la mia mamma. Per cui lì sono libera di riunire chi voglio». Per due anni, facendo obbedienza, non andai più in giro a parlare, ma a casa mia gridavo a squarciagola, e i giovani si affascinavano. Poi un vecchio prete mi convinse a riprendere il microfono con questa riflessione: «ma se ogni volta che vai a Roma ai congressi internazionali il Papa vi esorta a proseguire in questo apostolato e poi il vescovo te lo vieta, tu a chi devi dare retta?». In fondo era quello che facevo in ospedale: se un primario e un assistente hanno vedute diverse, io obbedisco al primario. E così ricominciai a parlare in giro.
Un altro vescovo ancora, che mi stimava, prima mi confidò che un suo amico ginecologo gli aveva spiegato che «…i metodi naturali non funzionano». Dopo di che mi consigliò di non insistere sull’Humanae vitae, dicendomi: «vedi Flora, tanto appena muore Giovanni Paolo II, vedrai che queste cose finiranno». Riuscii soltanto a balbettare: «Ma Eccellenza, è la dottrina!». Devo dire che, tra tutte, questa fu la mazzata più forte che ho ricevuto. Il tono era delicato e suadente, ma nella sostanza era come se mi avesse detto: hai sprecato inutilmente la tua vita. Uscii da quel colloquio disorientata, stordita. Per rimanere in piedi di fronte a certe coltellate, ti inginocchi in adorazione silenziosa. Riprendi fiato, e poi riparti.
Un importante sacerdote, educatore e professore di teologia mi spiegò: «Vedi Flora, la morale che insegni tu (quella dell’Humanae vitae) è una morale vecchia, perché guarda al singolo atto». Lui educava i giovani citando Sant’Agostino: “Ama e fa ciò che vuoi”. Anche i responsabili della pastorale familiare una volta mi rimproverarono così: «mica pretenderai che tutte le coppie usino i metodi naturali!». Risposi: «quello che pretendo è che tutte le coppie sappiano davvero cosa sono i metodi naturali, il loro reale valore scientifico ed umano, la loro praticabilità». Perché gli sposi siano davvero liberi di scegliere.
Poco tempo fa un alto prelato mi rivolse l’obiezione tipica secondo cui questa proposta sarebbe “di nicchia”, per poche coppie speciali. Altra obiezione che ho ricevuto recentemente dal mondo ecclesiastico sull’Humanae vitae è che sarebbe stata scritta in “un’altra epoca storica”, e quindi andrebbe contestualizzata. Siamo cioè nella linea di quei pensatori cattolici alla moda che affermano che l’uomo è cambiato, la sessualità è cambiata e quindi sarebbe la dottrina che va adeguata e non viceversa. E’ vero che la storia è cambiata e la società è più complessa. Ma l’uomo non è cambiato. E i peccati sono sempre quelli. Le sapienti leggi iscritte da Dio nella natura e nel cuore dell’uomo non hanno data di scadenza. Eva ovulava come ovulavo io.
Dopo quarant’anni di cammino in mezzo a queste prove, alla fine arrivò un vescovo che invece si è presentato a Casa Betlemme ad ascoltare. Si metteva in prima fila a prendere appunti, mettendomi in imbarazzo. Aveva capito l’importanza di questo moderno apostolato laico, ne vedeva i frutti e il carisma. Ogni anno portava i suoi giovani sacerdoti da noi per una giornata di formazione su teologia del corpo e Humanae vitae. Nel Natale 2005 volle riconoscere Casa Betlemme come associazione pubblica di fedeli, cioè non più mia organizzazione di volontariato ma opera della Chiesa e ci disse: «voi adesso potete andare anche a New York a parlare, e il vostro annuncio sarà a nome della Chiesa». Quel vescovo poi è diventato cardinale e si chiama Bassetti. Il nostro caro Gualtiero.
Questa lunga carrellata non è per criticare i miei pastori ma, al contrario, per testimoniare quanto è stata feconda l’obbedienza verso di loro. Quanto più costa fatica, tanto più porta frutto. Il fuoco amico è quello che ti fa più male. Ma c’è sempre la forza dello Spirito Santo che ti sostiene. La pastorale la fanno i pastori e quindi – ripete la Madonna – dobbiamo pregare per loro. Però dobbiamo anche tenere gli occhi aperti, vigilare. E non temere. Io prego ogni mattina per ognuno dei miei sette vescovi. Li ringrazio per le cose che, a modo loro, mi hanno fatto comprendere. Perché certe cose le capisci soltanto se le patisci. A volte mi è sembrato di aver vissuto l’effetto della palla: più la schiacci in basso e più rimbalza in alto.
Nella tua opera di attuazione dell’Humanae vitae hai avuto modo di confrontarti anche con i teologi?
Quando uscì l’Humanae vitae ero ancora giovane e non riuscivo a comprendere il perché di quella guerra contro l’enciclica. Così, con quella dose d’incoscienza e spirito d’avventura che mi hanno sempre aiutato, presi la mia Fiat 500 ed andai a Roma a suonare il campanello di Padre Bernard Häring, una delle grandi menti che guidava la resistenza internazionale contro l’Humanae vitae. All’inizio mi scambiò per una giornalista di Famiglia Cristiana. Lo stesso feci a Firenze con don Enrico Chiavacci, era l’altro illustre teologo moralista che si opponeva a Paolo VI. Entrambi mi ribadirono la bontà della loro tesi. Tra noi ci fu un vivace scambio di idee, faccia a faccia.
Mi ci sono voluti anni per capire le dimensioni dello scontro teologico che c’era dietro. Adesso il quadro è molto più chiaro. Quella frattura non si è più rimarginata e purtroppo oggi la vediamo riemergere. E’ tornata alla ribalta la “Dichiarazione di Colonia” con cui nel 1989 Häring sollevò il dissenso europeo contro il magistero di san Giovanni Paolo II provocando in Italia la “Dichiarazione dei sessantatre” teologi. Un editoriale di Riccardo Cascioli qualche settimana fa sintetizzava così la situazione: «se non fosse chiaro: i ribelli di allora sono oggi al comando e stanno cercando di realizzare quella rivoluzione che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno sempre impedito». Ho capito adesso cosa mi voleva dire quel vescovo riguardo lo scenario successivo alla morte di Wojtyla: in definitiva aveva avuto una sua preveggenza.
Ai Sinodi del 2014 e 2015 non ho partecipato, però ho preso l’iniziativa di stampare un piccolo saggio sulla procreazione responsabile (Occidente, procreazione e Islam, ed. ilmiolibro 2015) e mi sono permessa di recapitarlo a decine di pastori e teologi in giro per l’Italia e l’Europa. Voleva essere un piccolo contributo di riflessione per ricordare loro alcune cose importanti riguardo contraccezione e metodi naturali. Lo stesso ha fatto una mia collaboratrice.
Sul mio rapporto con i teologi ho trovato pace in un insegnamento che mi dette Padre Pancrazio Gaudioso, il cappuccino fondatore della Fraternità Francescana di Betania. Un giorno, parlandogli dell’apostolato di Casa Betlemme, gli confidai il mio timore di dover affrontare le obiezioni autorevoli dei teologi. E lui mi rispose sorridendo: «sono loro che devono aver paura di te!». Non si tratta di spaventare i teologi ma di aiutarli – loro e i nostri pastori – sostenendoli anche con la preghiera affinché trovino il coraggio di rimanere fedeli alla verità tutta intera senza sbandare davanti alle pressioni del mondo. Io sono un moscerino, non ho titoli accademici ma come battezzata e come esperta di lungo corso su questo campo spinoso, sento in coscienza il dovere di parlare. Se necessario anche alzando la voce. Ho dovuto farlo per esempio qualche mese fa (grazie allo spazio che mi ha dato la vaticanista Costanza Miriano nel suo blog) in risposta alla famosa lezione tenuta da don Chiodi alla Gregoriana. E di fronte ad alcune obiezioni che mi sono arrivate, capisco che dovrò intervenire ancora con altre precisazioni.
Siamo arrivati alle porte del 50esimo anniversario dell’Humanae vitae. Secondo te cosa sta succedendo oggi a questa enciclica? Nei tuoi interventi hai parlato più volte di “imbalsamazione”: cosa intendi dire?
L’enciclica è tornata di nuovo sotto attacco, con l’obiettivo di sdoganare la contraccezione. Però questa volta non è più un assalto frontale. Ci sono ancora pastori, prevalentemente mitteleuropei, che ne chiedono la rottamazione senza mezzi termini. Ma la strategia in campo oggi è cambiata ed è molto più raffinata: è un attacco sottile in chiave interpretativa. C’è un ritornello che sentiamo ormai da qualche anno e ci viene somministrato continuamente come un tranquillante: “la dottrina non si tocca”. L’approccio interpretativo usato in quest’ultimo assalto lo definisco un tentativo di “imbalsamazione” perché mira a lasciare intatto l’esterno della dottrina ma svuotandola dentro, con le abili mani degli interpreti e con i loro “adattamenti pastorali”. E così l’Humanae vitae verrebbe elegantemente collocata in bacheca. Il senso dell’operazione è duplice: togliere la contraccezione dalla categoria dei peccati, e declassare i metodi naturali ad una bella opzione, un “ideale alto” sicuramente “consigliabile” ma riservato a certe coppie “speciali” capaci di vivere a quelle altezze. Partendo dalla presunta impraticabilità dell’enciclica, si cerca cioè di riabilitare l’etica della situazione: “allargare il corridoio dei casi particolari” significa che, senza abbattere un’enciclica, si fa un foro nella diga e poi sarà soltanto questione di tempo. Si può arrivare a svuotarla tutta.
In realtà, insieme all’Humanae vitae, l’attacco è rivolto soprattutto all’enciclica Veritatis splendor cioè contro quel baluardo che san Giovanni Paolo II ha posto ribadendo chiaramente l’esistenza di alcuni atti intrinsecamente sbagliati (tra cui la contraccezione come l’adulterio) al di là di qualunque circostanza. Quello dell’intrinsece malum è un fondamento della morale cattolica e mi pare che purtroppo oggi lo si voglia mettere in discussione.
Io credo che, nel “Vangelo della vita”, uno dei compiti più importanti che ci è richiesto è quello di portare la gente a sperimentare la misericordia infinita di Dio, che sulle nostre miserie arriva con il Cuore: miseri-cordia. Ma questo dopo aver spiegato tutte le ragioni per cui comportamenti come adulterio, aborto, contraccezione, fecondazione in vitro, saranno sempre un peccato agli occhi del Creatore. Sono atti, come dicevo, “intrinsecamente cattivi”: nessuna circostanza, nessuna moda, né maggioranze o trascorrere del tempo, li potrà mai configurare diversamente. Cosa diversa, invece, è il grado di colpevolezza personale, che solo Dio vede. Giovanni Paolo II, da uomo molto intelligente e grande santo, aveva già previsto tale scivolamento dedicandovi appunto questa intera enciclica, la Veritatis splendor, che ha concluso con queste parole: «Nessuna assoluzione, offerta da compiacenti dottrine anche filosofiche o teologiche, può rendere l’uomo veramente felice: solo la Croce e la gloria di Cristo risorto possono donare pace alla sua coscienza e salvezza alla sua vita».
La preoccupazione per un raffinato svuotamento dell’enciclica è la stessa che dopo di te ha espresso anche il prof. Michael Pakaluk (teologo dell’Accademia Pontificia San Tommaso d’Aquino oltre che docente alla Catholic University of America) intervenendo su The Catholic Thing il 9 gennaio scorso. Scendendo a livello pastorale, nella tua lunga esperienza quali tendenze hai incontrato riguardo l’applicazione dell’Humanae vitae?
Su questo campo esistono due tipi di derive che ci portano fuori dalla via maestra. Da una parte quella prevalente che definirei cattoprotestante cioè l’atteggiamento relativista dove si dice in definitiva “credo in Dio ma la morale a modo mio”. E’ il passaggio dall’utero a Lutero. Il beato Paolo VI ci aveva già avvisato di questo possibile scenario: un pensiero di tipo non cattolico che a un certo punto pare maggioritario, riferito principalmente a bioetica e morale coniugale. E’ la corrente di coloro che, come accennavo, usano i casi limite per mettere in dubbio la norma dell’Humanae vitae e sdoganare la contraccezione.
L’altra deriva con cui mi sono scontrata, anche recentemente, è quella che definisco angelismo e considera egoismo pure l’uso dei metodi naturali. Tanto agli sposi che ai consacrati, nelle mie lezioni spiego che Dio non ci ha dato le ali ma i genitali. Ai consacrati ripeto che sarebbero degli illusi se pensassero che portare un abito, pur prezioso, li preserva dalla concupiscenza.
Agli sposi ricordo che l’utilizzo dei metodi naturali non è di per sé una garanzia di santità coniugale (se usati quale chiusura alla vita), come nemmeno il metter sù una famiglia numerosa è sinonimo di santità: una famiglia numerosa è auspicabile, ma la perfezione degli sposi cristiani non sta nel numero di figli. Anche uno può essere troppo di fronte a certe situazioni cliniche gravi (l’eroismo non è obbligatorio), oppure – per altri – tre figli potrebbero essere espressione di egoismo.
“Procreazione responsabile” significa cioè apertura ragionevole alla vita, ma apertura: con i metodi naturali che non sono una tecnica cattolica per non fare figli ma uno stile di vita fatto di conoscenza di sé ed esercizio della virtù per amore nella reciproca fedeltà, lasciando a Dio l’ultima parola. E’ quello che ha scritto Paolo VI nell’Humanae vitae al n. 31: le leggi della trasmissione della vita, inscritte nella nostra natura, vanno rispettate con amore & intelligenza. In questo documento, Paolo VI in fondo non ha fatto altro che riproporre in chiave moderna due comandi biblici: siate fecondi e moltiplicatevi, e non disperdere il seme ovvero non dividere l’atto coniugale: non separare ciò che Dio ha unito. Quindi non si tratta di un’invenzione dei pontefici moderni.
Ho incontrato però comunità e ambienti cattolici dove usare l’intelligenza e la ragione viene purtroppo considerato un peccato (un po’ come sosteneva Lutero). Tempo fa una coppia venne a criticare l’uso dei metodi naturali dicendomi che loro non avevano bisogno di imparare la disciplina della continenza, cioè i metodi naturali, perché avrebbero accolto tutti i figli che Dio gli avrebbe mandato. Intenzione perfetta! Io però mi permisi di osservare che anche loro, prima o poi (e per motivi vari) dovranno fare i conti con la castità, il cui esercizio non si improvvisa. Infatti ho conosciuto coppie che hanno avuto tre o quattro gravidanze ravvicinate, faticosamente subite perché senza alcun discernimento per distanziarle e poi – sfiancate – sono entrate in crisi con la sessualità.
L’equivoco sulla “fecondità ad oltranza” fu sottolineato da Giovanni Paolo II anche durante l’Angelus del 17 luglio 1994 e – a modo suo – l’ha denunciato anche Papa Francesco nella famosa intervista ad alta quota del 19 gennaio 2015.
Educata all’angelismo, ad un certo punto la donna entra nella paura di un’altra gravidanza e comincia a vivere male l’intimità coniugale, l’uomo si sente rifiutato e cerca i surrogati. E’ una situazione pericolosa perché la coppia può scoppiare. Di solito a quel punto possono accadere due cose al confessionale: o il prete manda la coppia da noi ad imparare i metodi naturali. Però è una chiamata un po’ tardiva, perché ci troviamo davanti coppie terrorizzate, il cui unico obiettivo è evitare assolutamente un’altra gravidanza. E faranno molta più fatica a fidarsi e così a imparare bene.
Oppure il sacerdote benedice la loro contraccezione usando la logica del proporzionalismo: «Vi siete già aperti abbastanza alla vita, adesso siete giustificati ad usare la pillola o altro». Da noi in Toscana c’è un detto: “poggio e buca fanno pari”. Traduce bene il proporzionalismo, concetto che il Magistero – come sappiamo – ha dichiarato contrario alla morale cattolica.
Da quello che dici emerge il problema della disinformazione. Il 3 maggio 2014, quando ti consegnarono all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum un premio prolife (IV Marcia nazionale per la vita), facesti un discorso di ringraziamento breve ma molto intenso. Padre Maurizio Botta, che ti sedeva accanto, ha scritto che quel discorso sarebbe da consegnare alle generazioni future. In quel discorso (pubblicato il 13 maggio 2014 nel sito Libertà e Persona) affermasti che «se sopra la disinformazione ci seminiamo la confusione, alla fine raccoglieremo devastazione». Puoi farci qualche esempio per dare l’idea di questo nodo sull’Humanae vitae?
Intorno all’Humanae vitae il problema di fondo sta nel pregiudizio che nasce dalla censura e dalla disinformazione. Il primo ostacolo da affrontare è una ignoranza diffusa che persiste su alcuni aspetti essenziali. Per questo dico che oggi, una delle più urgenti opere di misericordia spirituale è “istruire gli ignoranti”: è questa la priorità su cui siamo maggiormente impegnati con l’apostolato itinerante di Casa Betlemme. Offrire cioè corsi di formazione, iniziative divulgative e serate di sensibilizzazione (usando anche il linguaggio artistico), oltre che formazione di formatori e incontri di consulenza alle coppie.
Abbiamo un magistero chiaro ed approfondito su matrimonio e famiglia, bioetica e trasmissione della vita, grazie soprattutto a san Giovanni Paolo II che ha prodotto, già da prima del Concilio, un insegnamento magnifico e sterminato per aiutarci a comprendere il significato dell’amore umano. E questo lo ha fatto con il contributo di alcuni consulenti straordinari che citavo all’inizio (tra cui un paio di donne speciali), insieme alla Pontificia Accademia per la vita, all’Istituto Giovanni Paolo II e alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale ha prodotto le due Istruzioni Donum vitae e Dignitas personae, fondamentali in materia di procreazione medicalmente assistita.
Eppure su questo capitolo s’incontra sia in ambito pastorale che sanitario una notevole disinformazione Un’ignoranza grave di cui ho toccato con mano i danni fuori e dentro le sacrestie dove, chi dovrebbe orientare e motivare, con l’impreparazione provoca invece danni gravi al cammino degli sposi.
Faccio alcuni esempi. Frequentando Medugorje fin dai primi tempi, mi sono resa conto di quanto sia importante ciò che la Chiesa raccomanda su questo luogo speciale: l’accompagnamento pastorale. Ho notato infatti che tanta gente torna dal pellegrinaggio con un grande entusiasmo spirituale ma spesso non viene aiutata ad incarnare la propria conversione dalla cintola in giù, nelle scelte della vita morale. Magari continuano a portare la spirale o ad assumere la pillola: per ignoranza, perché non sanno dei loro aspetti anche micro abortivi. Così anni fa mi recai dal parroco di Medugorje proponendogli un servizio pastorale con cui aiutare i pellegrini a conoscere il “Vangelo della vita”. Sono sempre più convinta che è un annuncio fondamentale da portare nei grandi luoghi della fede, dove transita tanta gente. Il parroco era interessato ma mi dirottò dal vescovo di Mostar e così feci, spiegandogli la mia proposta. Dal tenore severo della sua risposta compresi che i tempi non erano maturi. E feci obbedienza.
Secondo esempio: capita di incontrare il parroco che ci invita al corso prematrimoniale e, dopo una serata in cui abbiamo spiegato agli sposi il significato di “procreazione responsabile”, interviene lui alla fine con una battuta conclusiva del tipo: «bene, grazie di tutte queste belle spiegazioni. Però …non dobbiamo mettere addosso agli sposi un giogo». E’ una battuta che distrugge tutto, e dimostra la sua impreparazione. Oppure capita di trovare parroci che arruolano, come guide dei fidanzati, coppie di conviventi.
Terzo esempio. Una volta una coppia venne da me disorientata perché un monsignore aveva detto loro di usare tranquillamente la spirale. Io risposi così: andate dal monsignore e ditegli (a nome mio) che gli aborti della vostra spirale saranno scritti in cielo nel suo registro, non nel vostro. Poi la coppia venne a seguire un laboratorio imparando i metodi naturali e alla fine mi ringraziò con queste parole: «ci hai insegnato a spostare una montagna con la punta del mignolo!». Di fronte all’obiezione dei “pesanti fardelli” direi quindi che è esattamente il contrario: sono i metodi naturali che – se proposti, insegnati e vissuti nel modo corretto – liberano da certi fardelli cioè dalla paura di gravidanze indesiderate, dal peso della contraccezione con tutti i danni che essa comporta. E’ vero che quella dell’Humanae vitae è una via esigente e comporta momenti di fatica, ma perché è il sentiero sapiente di Dio, che ci porta all’amore totale e all’amore vero: e quando si impara a percorrerlo, si scoprono i suoi effetti liberanti anche sul piacere,
Quarto esempio: non è raro che arrivino da noi coppie sofferenti e disorientate per aver incontrato un sacerdote o un medico cattolico che consigliava loro la strada della fivet, benedicendo la provetta. Negli ultimi anni, infatti, la disinformazione si è purtroppo allargata anche sulla questione della PMA. Una sera mi telefonò un frate chiedendo indicazioni su una “provetta cattolica” a cui voleva indirizzare una brava coppia di sposi che stavano soffrendo per l’infertilità. Troppe volte coloro che hanno la grave responsabilità di orientare gli sposi al confessionale, non sono abbastanza preparati e non conoscono, per esempio, le ragioni per cui il Magistero dice sempre no alla fecondazione extracorporea, eterologa od omologa che sia.
Quinto esempio, per dire quanto la stessa cosa valga anche per le donne consacrate. Una giovane madre superiora, intellettualmente preparata e monaca di clausura, alla fine di un corso che aveva voluto che io tenessi nel suo monastero, si era resa conto che la propria disinformazione in materia era tanto grave da averla portata a spingere le coppie verso la fecondazione artificiale e ad assumere contraccettivi, senza che lei ne conoscesse i danni. Era convinta di fare opera di carità verso la sofferenza di quelle coppie. La superiora uscì sconvolta di dolore nel prendere coscienza della sua ignoranza: le sue lacrime erano interminabili nel colloquio personale che facemmo. Si meravigliava, piangendo, che nel suo percorso formativo nessuno le avesse spiegato certe cose. Ma anche quella ferita è diventata feconda. Dopo il corso, quelle monache hanno scoperto un nuovo impegno vocazionale, cioè portare tutti questi drammi nella loro preghiera e dare consigli giusti.
Quando invece al confessionale c’è una persona davvero preparata e convinta della bontà dell’Humanae vitae, nella reciproca fiducia nascono belle collaborazioni per cui il sacerdote manda le coppie dai noi ad imparare i metodi naturali e si raccolgono frutti molto preziosi per la pastorale della famiglia. Qui gli esempi sarebbero troppi da raccontare. E quello che capita da noi avviene in tante altre parti d’Italia, come negli angoli più sperduti del mondo.
Hai accennato al tuo apostolato dentro i monasteri. Nel 1994 pubblicasti con lo pseudonimo Letizia di Gesù Bambino un libro dedicato alle donne consacrate. Il sacerdote e l’editore che scrissero la presentazione lo definivano un testo anomalo, ispirato e controcorrente, rivoluzionario per la critica radicale e severa a certi idoli del mondo contemporaneo. Dicendosi meravigliati che in un tempo così fosco ci siano persone come Letizia, riconoscevano la «verità sconvolgente dello Spirito Santo che fa scendere tra noi, nel nostro povero mondo schiere silenziose di martiri e testimoni». Che vuol dire portare l’Humanae vitae e la teologia del corpo tra le donne consacrate? Cosa puoi raccontarci di questa pista che hai percorso?
Sì, dagli anni ’80 ho portato l’enciclica di Paolo VI e la teologia del corpo con l’alfabetizzazione bioetica anche dentro i conventi e i monasteri. Posso testimoniare quanto questa formazione specifica sia importante per la persona, prima ancora che per la coppia. Anche in ambiti accademici a volte c’è purtroppo la tendenza, sbagliata, a considerare i metodi naturali una proposta riservata agli sposi. Invece sono una conoscenza di sé che serve a qualunque donna, fin da giovane. E’ una vita che vado ripetendo questo concetto.
Perché ogni donna deve sentire di appartenere a qualcuno: ad un marito o a Cristo. E ogni donna deve gioire di sentirsi femmina, sposa e madre: tre dimensioni che devono andare in armonia. Questo vale anche per la suora, se vuol essere capace di tenerezza nella sua gioiosa scelta di oblazione. La donna è visceralmente madre: nella mente, nel cuore e nel corpo. E Dio ha per ciascuna di noi un progetto personalizzato: c’è la maternità fisica, quella adottiva e affidataria, c’è la maternità spirituale.
Alle donne consacrate, come a quelle sposate, insegno essenzialmente la meraviglia e la sacralità della fisiologia femminile: dono prezioso che ogni donna ha ricevuto e che deve imparare a conoscere. E’ indispensabile amarsi per amare. Fin dai primi corsi che organizzai notai subito che rifioriva l’entusiasmo delle vite consacrate. Guarigioni spirituali tanto silenziose quanto preziose, sia per le suore anziane che soffrono di vecchi tabù sia per quelle più giovani, a volte ferite nella carne da certe esperienze nel mondo. La voce si sparse ed iniziarono a chiamarmi istituti religiosi da Varese, Milano, Roma, Terlizzi e altrove. In un’occasione le Madri Superiore di tutta Italia si riunirono per ascoltare le mie catechesi. E rimasero entusiaste. A quell’epoca prendevo il treno trascinando ogni volta con me valigie piene di fotocopie, proiettore e diapositive. Ad un certo punto mi decisi a scrivere un testo come supporto didattico. Quel libro si intitola “Briciole di un’esperienza di verginità per il Regno”. Ne furono stampate due edizioni, è circolato molto nei circuiti conventuali. Qualcuno pensa ancora che l’abbia scritto una suora.
Un paio di anni fa, su invito del sacerdote cinese don Rocco Huang della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, ho tenuto a Roma un corso ad un gruppo di suore cinesi. Sono rimaste completamente affascinate dalla teologia del corpo, tradotta in una vita di consacrazione verginale. Così l’anno scorso mi chiesero un secondo corso nella capitale, cui hanno partecipato anche sacerdoti della Chiesa sotterranea cinese. Ho ancora in mente i loro occhi che brillano.
Dalla mia piccola esperienza posso quindi confermare un fatto che Madre Teresa di Calcutta ha già dimostrato in grande scala: l’enciclica Humanae vitae contiene un “vangelo della sessualità” che viene ancora rifiutato (e talvolta deriso) dalla nostra cultura occidentale mentre viene riconosciuto con entusiasmo dai popoli lontani e poveri.
Nella riflessione che lanciasti il 3 maggio 2014 da quel microfono accademico, la tua preoccupazione riguardava anche la “confusione” oltre che la disinformazione.
Quella volta di penso di essere stata tra le prime voci in Italia a parlare pubblicamente di “confusione”, fu faticoso ma la coscienza me lo imponeva. Oggi sono ormai in tanti a parlare di “confusione” all’interno del cattolicesimo: è una denuncia che arriva dalle persone più semplici come dagli osservatori più autorevoli e dai principi della Chiesa. In un’intervista del 14 gennaio 2017 il cardinale Caffarra ha affermato che «solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione». A me pare che siano tanti i ciechi oggi che non vogliono vedere l’errore.
La confusione spesso si lega alla disinformazione. Faccio un esempio: in un’altra intervista durante i preliminari del sinodo (15 marzo 2014), Caffarra disse che le 134 catechesi di san Giovanni Paolo II sull’amore umano cioè il suo imponente insegnamento chiamato “la teologia del corpo” sono una riflessione non vecchia ma semplicemente «sconosciuta a molti cardinali».
Questo avviene perché una certa linea teologica internazionale produce evidentemente ricadute a cascata. Parte dal mondo accademico e dalle facoltà per scendere nelle diocesi dentro i seminari e dentro i corsi degli istituti religiosi, dai confessionali ai corsi pastorali di preparazione al matrimonio. Producendo gravi omissioni nell’annuncio e lacune nella preparazione. E’ uno scenario preoccupante descritto ampiamente nella lettera di un docente che ha importanti incarichi in Italia e all’estero, pubblicata l’8 febbraio scorso dal vaticanista Sandro Magister nel suo blog.
Sul fronte pastorale ho notato un’altra strana lacuna: nelle riflessioni degli ecclesiastici favorevoli ad un’apertura sulla contraccezione, continua ad essere sorvolata – sia durante il Sinodo che dopo – la questione degli aspetti micro-abortivi insiti (in percentuale più o meno elevata) in tutta la contraccezione ormonale e farmacologica. E’ il tema delle cosiddette fughe ovulatorie, che rendono incerto il confine tra aborto e contraccezione. Le evidenze scientifiche pongono qui problemi etici importanti. Il bioeticista Renzo Puccetti sottolinea come questo tema fosse noto già ai tempi del dibattito conciliare, ma anche allora venne silenziato. La nostra perplessità cresce notando che da certi ecclesiastici non sentiamo mai parlare della “mentalità contraccettiva” e delle sue conseguenze pratiche: non mi riferisco a discorsi moralistici o trascendenti ma anche qui alla letteratura medica, dove è ormai dimostrato che la contraccezione non previene l’aborto ma ne è l’anticamera e il viatico. Poiché delegare ad un mezzo tecnico la responsabilità dei nostri gesti favorisce un’attitudine mentale all’aborto: quando “il mezzo ha fallito” si è più predisposti a optare per l’aborto come soluzione. Ci sarebbe infine da parlare a fondo dei danni ambientali provocati dalla pillola anticoncezionale. Sono argomenti scomodi e politicamente scorretti, che si meriterebbero un capitolo importante nella grande questione dell’ecologia umana. Dobbiamo invece prendere atto che purtroppo anche l’enciclica Laudato sii ha sorvolato sull’argomento. Io mi sono permessa di evidenziarli in quel piccolo saggio che firmai il 12 aprile 2015.
Ulteriore danno viene dall’altra obiezione clericale che confonde il messaggio dei metodi naturali con un legalismo farisaico, una precettistica argomento di fanatici moralisti, oppure con una variante ecologica della contraccezione. E anche qui ci sarebbe da dire molto.
La confusione mi pare raggiunga il picco leggendo l’intervista di suor Martha Pelloni, figura molto nota appartenente alle Carmelitane Missionarie Teresiane, la quale il 3 aprile scorso ha affermato alla radio argentina Radio Cut che Papa Francesco le avrebbe suggerito di tradurre la “procreazione responsabile” in mezzo ai poveri promuovendo l’uso di preservativo, diaframma e legatura delle tube (www.infocatolica.com, 3.4.2018).
Se questo è il panorama dal punto di vista ecclesiastico, sul fronte medico vediamo che gli operatori sanitari non ricevono adeguata preparazione all’università sui moderni metodi naturali. Si incontrano purtroppo medici cattolici che quando gli dici dei metodi naturali ti parlano ancora dell’Ogino-Knaus. Sembrano all’oscuro dell’enorme lavoro di ricerca scientifica e attuazione pastorale che esiste a livello mondiale. Medici cattolici e farmacisti che svolgono benemerita attività pastorale, mentre benedicono la pillola del giorno dopo e la contraccezione in genere. Non so quanti siano a conoscenza che soltanto in Italia siamo diverse centinaia di insegnanti qualificate con tre grandi scuole d’insegnamento riunite da 25 anni in una Confederazione nazionale (www.confederazionemetodinaturali.it).
Trovare un medico che rimane fedele al Magistero e non prescrive la pillola estroprogestinica è cosa rarissima. Ci sarebbe da discutere se certa ignoranza sia colpevole o voluta. Ma non vogliamo giudicare le persone. Su questo punto ho perso per strada, nei decenni, diversi bravi collaboratori medici. Perché qui è il banco di prova: nell’obbedienza alla verità tutta intera, anche a quella parte più scomoda che brucia. Anche per loro si tratta, in fondo, di accettare il martirio delle idee e del cuore.
Una delle obiezioni tipiche all’enciclica afferma che, siccome non è praticata dalla stragrande maggioranza dei cattolici, significa che non è stata recepita, quindi è da considerarsi fallita e pertanto sarebbe da riformare. Sulla questione della “mancata recezione”, ha replicato l’arcivescovo di Varsavia–Praga, mons. Henryk Hoser, tuonando così in un’intervista al giornale Niedziela a margine dei lavori sinodali: «vi dirò brutalmente. La Chiesa ha tradito Giovanni Paolo II. Non la Chiesa come sposa di Cristo, non la Chiesa del nostro Credo, perché Giovanni Paolo II è stato una voce autentica della Chiesa; ma è la pratica pastorale che ha tradito Giovanni Paolo II. È una tesi che sottoscrivo perché 40 anni del mio sacerdozio sono stati dedicati al matrimonio e alla famiglia, durante i quali ho promosso il tema dell’evangelizzazione dell’intimità coniugale. In molti altri Paesi, a causa della contestazione agli insegnamenti della Chiesa, espressi dal Beato Paolo VI, la pastorale famigliare è stata fermata». Mons. Hoser, che è un medico polacco, appartiene alla Congregazione dei Pallottini e ha lavorato a lungo anche in Africa per la diffusione dei metodi naturali, considera la Familiaris consortio un insegnamento di immutata attualità e ritiene che le indicazioni di quella «straordinaria» esortazione apostolica siano state disattese e non applicate nella prassi pastorale. San Giovanni Paolo II, dopo il Sinodo del 1980, aveva chiesto «ai pastori di condividere» quell’insegnamento, ma i pastori non l’hanno condiviso «perchè non l’hanno letto, o non lo ricordavano» (L. Bertocchi, Sulla famiglia la Chiesa ha tradito Papa Wojtyla, La Nuova Bussola quotidiana, 6 febbraio 2015). Tu Flora cosa ne pensi?
Penso che mons. Hoser abbia ragione. Dalla mia piccola postazione devo purtroppo confermare le sue parole. La resistenza organizzata contro l’Humanae vitae è stata fino ad oggi molto forte e si è radicata, portando i suoi frutti velenosi. Qualcosa della mia esperienza sul campo l’ho già accennato. Nell’enciclica Evangelium vitae ai nn. 97 e 98 san Giovanni Paolo II, esprimendo riconoscenza «verso coloro che con sacrificio personale e dedizione spesso misconosciuta si impegnano nella ricerca e nella diffusione» dei metodi naturali, affermava che, alla luce dei progressi della medicina e della pastorale, «una onesta considerazione dei risultati raggiunti dovrebbe far cadere pregiudizi ancora troppo diffusi e convincere i coniugi nonché gli operatori sanitari e sociali circa l’importanza di un’adeguata formazione al riguardo». E chiedeva di promuovere i centri per i metodi naturali di regolazione della fertilità quali strumenti da valorizzare «alle sorgenti della vita». L’anno successivo, in uno dei tanti discorsi di approfondimento che ha fatto nei congressi scientifici internazionali, ribadiva la raccomandazione precisando: «la promozione e l’insegnamento dei metodi naturali è una vera preoccupazione pastorale, che coinvolge la cooperazione da parte di sacerdoti, religiosi, specialisti e sposi, che lavorino in collaborazione con il Vescovo della Chiesa locale ricevendo da lui supporto e assistenza». E concludeva così: «è ormai maturo il momento in cui ogni parrocchia e ogni struttura di consulenza della famiglia e alla difesa della vita possano avere a disposizione personale capace di educare i coniugi all’uso dei metodi naturali. E per questa ragione raccomando particolarmente ai Vescovi, ai parroci e ai responsabili della pastorale di accogliere e favorire questo prezioso servizio» (Udienza, 7 dicembre 1996. Cfr. P. Pellicanò, Giovanni Paolo II. Mandato d’amore, ed. San Paolo, Milano 2012).
Dobbiamo chiederci sinceramente quanti vescovi abbiano davvero preso a cuore queste indicazioni pastorali di san Giovanni Paolo II. La questione della “mancata recezione” quindi penso che vada affrontata da un altro punto di vista: la recezione mi pare sia mancata non tanto da parte dei coniugi quanto principalmente da parte dei pastori e di coloro che avevano il compito di attuare l’enciclica trasmettendola al popolo di Dio. La sostanza è questa. Per quanto riguarda invece l’aspetto formale, sulla irreformabilità dell’enciclica nonostante il fatto che Paolo VI non abbia usato la solenne dichiarazione di infallibilità, abbiamo avuto sufficienti chiarimenti sia dallo stesso Giovanni Paolo II, sia da Padre Ermenegildo Lio con un abbondante trattato, sia da Padre Giorgio Carbone nell’ultimo numero de Il Timone.
Fin qui la tua anamnesi e la diagnosi sulla travagliata storia dell’enciclica. Parlaci adesso di come vedi il futuro dell’Humanae vitae, e del compito che secondo te avranno i laici. Paolo VI, firmata l’enciclica e sommerso di critiche, sperava che sarebbero stati gli sposi cristiani a capire che quella norma morale «pur sembrando ardua e severa» vuol essere «interprete dell’autenticità del loro amore, chiamato a trasfigurare se stesso nell’imitazione di quello di Cristo per la sua mistica sposa, la Chiesa». E auspicava che loro per primi avrebbero saputo «dare sviluppo ad ogni pratico movimento» per «infondere nella famiglia moderna la spiritualità sua propria, fonte di perfezione per i singoli suoi membri e di testimonianza morale nella società» (Udienza generale, 31 luglio 1968). E il 28 giugno 1978, poco più di un mese prima di morire, disse: «della Humanae Vitae, ringrazierete Dio e me». Sul ruolo decisivo dei laici, i coniugi Billings nel 30esimo dell’enciclica affermarono: «non è la prima volta, nella storia della Chiesa Cattolica, che una crisi all’interno della Chiesa stessa è stata sanata dallo Spirito Santo, che agisce attraverso i laici. Alcuni vescovi, più sacerdoti ed un largo numero di teologi, hanno mancato di informare i cattolici sull’insegnamento ufficiale della Chiesa o hanno dato consigli contrari all’insegnamento della Chiesa mascherandoli come “soluzioni pastorali”» (A. Montonati, Lyn e John Billings. Due vite per la vita, ed. San Paolo, Milano 1998, p. 141).
Lo scenario attuale è effettivamente allarmante e per certi versi drammatico. Però io sono fiduciosa come lo erano i Billings. Ci sono ancora ostinate resistenze contro l’enciclica di Paolo VI, sia nel mondo ecclesiale che in quello medico, per motivi di genere vario. Ma il futuro è dell’Humanae vitae, perché la contraccezione è una proposta vecchia. Il “nuovo femminismo” di cui parla l’Evangelium vitae passa per i metodi naturali. Una parte della gerarchia ecclesiastica fa ancora fatica a capirlo perché le obiezioni all’Humanae vitae, come tutta la teologia, sono scritte quasi sempre dagli uomini, che non hanno l’utero.
L’ambulatorio ostetrico è uno speciale “confessionale” più frequentato di quello dei sacerdoti. Dopo aver ascoltato la vita concreta di migliaia di donne, in mezzo secolo di esperienza mi sono fatta alcune convinzioni. Benedetto XVI e Papa Francesco hanno spiegato che viviamo nell’epoca del «peccato contro il Creatore». Anche la comunità scientifica, osservando i danni del nostro divorzio da Dio, ha iniziato a ripensare e sta lentamente rivalutando la sapienza del Creatore, cioè i benefici del rispetto della fisiologia che è sacra. Io lo definisco “il cerchio della vita”. Prima si è capito che dobbiamo de-medicalizzare la gravidanza. Cioè che la gestazione non è una malattia. Poi si è capito che dobbiamo de-medicalizzare il parto. Poi si è capito quanto è importante l’allattamento naturale, al seno. L’ultima tappa, che chiude il cerchio della vita, sarà la de-medicalizzazione nella gestione della fertilità. Lo ripeto da anni: il futuro è dei metodi naturali. Ne va della qualità della generazione e della qualità dell’amore, cioè della famiglia. I metodi naturali sono la strada per costruire famiglie solide nella società dell’amore liquido.
Portiamo avanti questo servizio alla persona perché siamo convinti che sia la risposta ad un bisogno storico: un messaggio prezioso di bellezza e di verità, che non ha confini religiosi o culturali. E’ una verità anzitutto scientifica, che purtroppo – come dicevo – viene ancora maltrattata e tenuta in disparte. Come disse anni fa una mia collega ostetrica ad un congresso internazionale, i metodi naturali non sono altro che una splendida cenerentola che aspetta soltanto di essere scoperta.
E la vera efficacia dei metodi naturali, precisavano i coniugi Billings, sta in questo: «aiutare marito e moglie a vivere felici fra di loro e con i loro figli, e farli crescere nell’amore reciproco, in modo tale che la famiglia acquisti stabilmente sicurezza e felicità». Io credo che tutti voi coniugi che, sparsi per il mondo, avete capito il significato e il grande valore di questo stile di vita, abbiate il compito non soltanto di trasmetterlo ad altre coppie di sposi (è l’apostolato tra i focolari di cui parla Humanae vitae n.26) ma anche di andare a “convertire” gli ecclesiastici con la vostra testimonianza. Certe cose possono comprenderle soltanto da voi che le vivete.
Per aiutare la Chiesa a realizzare l’Humanae vitae, tu parti dall’urgenza di un’opera di misericordia spirituale (“istruzione degli ignoranti”) e arrivi sempre alla questione della castità: dici che bisogna promuoverla e che lo si può fare soltanto vivendola. Nell’ottobre 2016 illustravi la tua “terapia” in un convegno davanti al cardinale Caffarra, il quale apprezzò molto questa riflessione sulla virtù della castità.
La mia “terapia” è molto semplice e dice di tornare a curare urgentemente i due grandi “decapitati” cioè il primo e il sesto Comandamento: che riguardano il primato di Dio e la purezza della vita. Decapitati questi, anche gli altri crollano.
Anzitutto va ricordato che la castità sta al cuore anche dei metodi naturali, altrimenti non si capisce il significato autentico, l’antropologia e la pedagogia che stanno dietro l’Humanae vitae, e si scivola nei soliti equivoci. San Giovanni Paolo II insisteva molto su questo punto perché è essenziale. Insieme all’altro fondamento: credere sempre all’educabilità dell’uomo, redento da Cristo.
Il Vangelo è chiaro e la verità è molto semplice, anche se esigente. Su questi argomenti la verità si lega alla parola “castità”. E’ la parola chiave, parola profetica in questa società decadente fatta di melma e di sangue. E’ virtù non banale ma basilare per ogni vocazione: per la fedeltà e la felicità degli sposi, per la salute dei nostri giovani, per l’equilibrio di una vita consacrata, e per il bene di una persona con tendenza omosessuale.
C’è chi sostiene che “qualche cornetto ravviva il matrimonio”, e che “qualche vizietto non danneggia la vocazione e non distoglie dall’apostolato”. Invece è proprio la mancanza di castità che porta allo sfascio le famiglie, e ha portato tanti sacerdoti a sfregiare il volto della Chiesa. Sappiamo di non essere naturalmente casti perché la nostra natura umana, ferita dal peccato, tende alla concupiscenza. Servono la disciplina e la Grazia: la castità è una virtù che si conquista soltanto mediante la volontà e la preghiera.
La castità è la chiave che ci matura come persone nelle nostre relazioni affettive, e ci educa all’umiltà poiché ti mette in ginocchio e ti fa riconoscere la tua fragilità. Eppure non si sente mai parlare della grande ricchezza della verginità. Oggi non si crede più al suo valore, si considera una cosa inutile e disumana, ormai superata, medioevale.
Anche tutto il dibattito infuocato dei recenti Sinodi, se ci pensiamo bene, si ricapitola in fondo sulla grande questione della castità. E’ sempre quello il nodo che viene al pettine, il filo rosso che lega tutto. Sulla comunione ai divorziati si discute infatti sul vivere “come fratello e sorella”. E non si propone l’esigenza della fedeltà al sacramento dopo il tradimento. Idem sulla contraccezione: si vuole aprire alla contraccezione perché si pensa che i coniugi non siano capaci di astinenza periodica cioè di vivere la virtù della castità coniugale con i metodi naturali. E lo stesso per il celibato dei sacerdoti: la questione parte sempre dal rifiuto della castità.
E’ una parolina che dà allergia a molti, e purtroppo ho notato che è stata la grande assente nei due sinodi, la parola latitante. Il mio timore è che anche nel prossimo sinodo dei giovani venga fatta fuori. Probabilmente qualcuno dirà che, siccome i giovani nella stragrande maggioranza non la praticano, allora la castità non è praticabile e quindi non è virtù proponibile al giorno d’oggi. Nell’etica della situazione, caso per caso si troverà una giustificazione per non farli sentire in peccato.
Flora, hai compiuto 80 anni nello stesso anno in cui l’Humanae vitae ne compie 50. Il vostro legame è notevole ed è tempo di fare qualche bilancio. La tua esperienza è diventata una scuola di vita che, lontana dai riflettori, ha affascinato e formato generazioni di famiglie cristiane. In tanti sposi siamo stati trafitti dal carisma dell’armonia tra scienza e fede che si respira a Casa Betlemme: una coniugazione profonda che si fa testimonianza credibile e potente, una morale incarnata che diventa balsamo per i cuori e produce cultura di vita. Padre Häring, spiegando che «tutti noi siamo chiamati ad essere testimoni di Cristo» affermava che «se un giovane trova una persona – sacerdote, suora, un laico impegnato – che sia trasparente, che abbia un carisma di sapienza, questo “maestro” o “maestra” lo può aiutare molto. Insisto nel dire “maestra” perché molte persone mi hanno detto che tale o tal’altra donna (religiosa, suora, buona laica) è un’ottima maestra che conduce a Cristo» (V. Salvoldi, Una fede si racconta. Colloqui con Padre Häring, Messaggero, Padova 1989, 90). E’ il concetto del “genio femminile”, coniato da san Giovanni Paolo II e ripreso anche dal cardinale Kasper per il Sinodo. Il tuo ettaro di terra è diventato negli anni una piccola roccaforte dell’Humanae vitae dove si insegna “l’amore bello”, come lo chiamava Wojtyla. E’ un’immagine che mi richiama alla mente un discorso di Benedetto XVI: «ci sono tante famiglie cristiane che vivono con fedeltà e con gioia la vita e l’amore indicati dal Creatore e così cresce una nuova umanità. […] Poiché esiste una cultura consumistica che vuole impedirci di vivere secondo il disegno del Creatore, noi dobbiamo avere il coraggio di creare isole, oasi, e poi grandi terreni di cultura cattolica, nei quali si vive il disegno del Creatore» (Colloquio con i giovani, 6 aprile 2006). Usando le parole di mons. Livio Melina, possiamo dire che la tua realtà fa parte di quella vastissima rete di persone riunite in centri, associazioni e movimenti che sono «la dimostrazione vivente della verità dell’Humanae vitae» (S. Mazza, Humanae vitae, fedeli alla verità dell’amore umano, Avvenire, 26 luglio 2008).
Nell’enciclica Casti connubii, Pio XI parlava di «laici opportunamente scelti fra gli iscritti all’Azione Cattolica». E’ tramite tale collaborazione nell’apostolato per la famiglia – diceva – che si potrà «contrapporre la verità all’errore, alla turpitudine del vizio lo splendore della castità, alla servitù delle passioni la libertà dei figli di Dio, alla iniqua facilità dei divorzi la perenne stabilità del vero amore coniugale e dell’inviolabilità fino alla morte del prestato giuramento di fedeltà». Io ero una giovane laica dell’Azione Cattolica e mi sono fatta avanti da sola, come ho raccontato all’inizio. Ho usato le mie competenze e tutto quello che avevo per servire questo capitolo della sana Dottrina. Quello che ho messo in piedi non mi piace chiamarlo “ospedale da campo”, anche se è un termine che va di moda. Preferisco chiamarla una piccola “Università dell’amore alla persona, con Facoltà della vita”. Da questa scuola sono passati in tanti: vergini e prostitute, analfabeti e professori, piccoli e anziani, artisti e giornalisti, vescovi e sbandati, famiglie ferite. E tante giovani coppie di innamorati. Ciascuno di voi è arrivato con la sua storia e il suo bagaglio.
Alcuni hanno deciso di fermarsi qui e spendere la propria vita in questo apostolato laico e moderno. Uno dei risultati più importanti di Casa Betlemme credo sia la formazione di formatori, cioè la preparazione di famiglie capaci di trasmettere con competenza il messaggio dell’Humanae vitae in mezzo alla società. Il mio scopo non è formare intellettuali della bioetica né spiritualisti disincarnati, ma apostoli intelligenti. Lo sa bene anche il presidente della CEI perché, quando era nostro vescovo, Bassetti ha conosciuto da vicino i miei collaboratori. Nel 2006 lui parlò a Benedetto XVI di Casa Betlemme e il papa gli rispose: «queste sono persone che vivono la Veritatis splendor».
L’armonia profonda tra scienza e fede è un messaggio che ho cercato di portare dai marciapiedi alle accademie, passando per le corsie degli ospedali e le sacrestie.
Come tante altre esperienze sparse per il mondo, Casa Betlemme è la dimostrazione che – se si vuole – anche la dottrina dell’Humanae vitae è capace di diventare prassi tra la gente ad ogni latitudine, comprese le periferie esistenziali.
Io ho cercato di dare il mio esempio, di vivere la carità nella verità. E nell’apostolato ho scelto uno stile preciso che si riassume in una regola apostolica (Ora, stude et labora) e in una regola personale (Preghiera, sacrificio, letizia): uno stile povero e piccolo, che preferisce alcune forti convinzioni alla sicurezza delle convenzioni economiche. Per questo ho preferito legarmi alla Madonna e a tre santi invece che a politici e potenti. Perché ho capito che solo la povertà ti dà la libertà, e ti obbliga ad esercitare la fede. Ho capito che soltanto rimanendo in ginocchio si sta in piedi. E di questo devo ringraziare il mio vescovo mons. Cioli che, tornando dal Concilio Vaticano II, volle affidarmi stabilmente l’Eucarestia qui a Casa Betlemme, facendomi ministro straordinario. Mi disse: «dovunque tu sarai, deve esserci con te l’Eucarestia». Da allora il cuore, il segreto e il motore di tutta l’opera risiede nella cappellina di Casa Betlemme: era la stalla dove i miei genitori contadini tenevano gli animali, ora lì dentro pulsa da cinquant’anni un cenacolo permanente di preghiera, con persone di ogni età in Adorazione dell’Autore della vita. In questo cenacolo è nato il ramo dei “Contemplativi del Verbo Incarnato”, missionari della vita. E, per chi vuole, propongo una scelta di vita consacrata, maschile e femminile, con i voti evangelici.
Siamo arrivati alla conclusione del nostro colloquio. Testimoniando il tuo amore per la Chiesa di Cristo e quanto ti sei spesa per l’attuazione dell’enciclica Humanae vitae, hai parlato con molta franchezza e parresia, come vuole Papa Francesco. Intervistandoti su L’Osservatore Romano, la giornalista Ritanna Armeni scrisse che tu sei «una donna che alla Chiesa ha dato molto» (inserto Donne Chiesa Mondo, 2 febbraio 2013). Quello in cui hai speso la tua vita è un campo spinoso, il capitolo più scottante della sana Dottrina. Pionieristica nella pastorale della vita nascente e nella cura del trauma post aborto, la tua è stata tra le prime case di accoglienza per ragazze madri, quando ancora non esisteva il Movimento per la vita. Dal tuo racconto si intuisce il tipo di fatica e sacrifici che l’intera opera ti ha richiesto. Specialmente quando parli di “martirio delle idee e del cuore”.
Sono figlia di contadini. Per cogliere frutti in un campo spinoso ci vuole la fatica e la pazienza di tanto duro lavoro, a volte in mezzo alle pietre. Devi mettere in conto anche i graffi e la cicatrice di qualche ferita. Però, perseverando negli anni, i risultati possono diventare meravigliosi.
Da tempo ripeto ai miei collaboratori di prepararsi a quello che definisco il martirio delle idee e del cuore. Il martirio delle idee significa che, per rimanere fedeli alla verità tutta intera, si è spesso chiamati a trovare il coraggio di rinunciare alla carriera, imparare ad accettare forme di isolamento e tribolazione anche in ambito professionale. Il martirio del cuore significa che per rimanere fermi in una certa posizione, si deve accettare di perdere per strada certe amicizie, a volte anche le più care. Dolorosamente, ma in letizia francescana. Del resto Gesù stesso ha precisato che è venuto, con il suo annuncio esigente, a portare divisione anche all’interno delle famiglie. Non l’irenismo e il concordismo. Il cardinale Caffarra spiegava che «sarebbe un pessimo medico chi avesse un’attitudine irenica verso la malattia».
Ho già raccontato, in altre occasioni, episodi in cui mi sono trovata a combattere per difendere il Vangelo della vita nella mia professione, dentro le corsie degli ospedali. Confronti verbali a volte durissimi. In certe circostanze ho sentito il dovere morale e professionale di scontrarmi (talvolta in modo molto forte) con i ginecologi abortisti, anche se erano i miei superiori. Quando li rimproveravo energicamente, richiamandoli alle loro gravissime responsabilità, sentivo che gli toccavo la coscienza e che gli facevo del bene. Ero il loro tormento. Mi davano ragione, ma mancava loro il coraggio di disobbedire alle “alte protezioni” che avevano alle spalle. Capivo la loro debolezza, perché quel coraggio può venire soltanto dalla forza della fede. A quarant’anni di distanza, devo dire con stupore che ho incontrato lungo i decenni molta più stima professionale (e personale) proprio da parte di quei medici con cui mi ero scontrata apertamente, piuttosto che da parte di quelli cattolici che avrebbero dovuto sostenermi ma preferivano il dialogo tiepido e conciliante.
Caffarra diceva che dentro lo scontro tra la Creazione e l’anti-creazione in cui stiamo vivendo, siamo chiamati a testimoniare: «la testimonianza è il nostro modo di essere nel mondo». Testimoniare significa «dire, parlare, annunciare apertamente e pubblicamente»: chi non testimonia in questo modo – concludeva il cardinale – «è simile al soldato che nel momento decisivo della battaglia scappa. Non siamo più testimoni ma disertori» (intervento al Rome Life Forum 2017, in La Nuova Bussola Quotidiana, 21 maggio 2017). Penso alle umiliazioni che questo pastore coraggioso ha dovuto accettare negli ultimi tre anni della sua vita.
C’è una raccomandazione di san Giovanni Paolo II che mi pare perfetta e profetica per i nostri giorni: «nell’annunciare questo Vangelo, non dobbiamo temere l’ostilità e l’impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo» (Evangelium vitae n. 82). Come spiegavo a Ritanna Armeni in quell’intervista, la paura di essere impopolari fa gravi danni e in definitiva è frutto di un calo della fede. Quella dell’Humanae vitae non è una morale “fuori dalla realtà” ma semplicemente fuori dalla maggioranza. Voler sottoporre la verità al criterio umano della maggioranza è una tentazione che risale a Pilato. Anche lui sapeva bene da che parte stava la verità, ma fece quello che fece – spiega l’evangelista Marco – «volendo dar soddisfazione alla moltitudine» (Mc 15,15).
Nel difendere il Vangelo della vita si incontrano obiezioni severe ed altre più sottili, mitragliate da cui fai più fatica a difenderti. Il martirio delle idee e del cuore è un passaggio inevitabile. E sta scritto dietro le righe di un lungo discorso di incoraggiamento, altrettanto impressionante per la sua profezia, che san Giovanni Paolo II fece il 2 marzo 1984: «voi ben sapete che spesso la fedeltà da parte dei sacerdoti – diciamo anzi della Chiesa – a queste verità e alle norme morali conseguenti, quelle insegnate dall’Humanae vitae e dalla Familiaris consortio, deve essere spesso pagata ad un prezzo alto. Si è spesso derisi, accusati di incomprensione e di durezza, e di altro ancora. E’ la sorte di ogni testimone della verità, come ben sappiamo. […] Con semplice ed umile fermezza siate fedeli al magistero della Chiesa in un punto di così decisiva importanza per i destini dell’uomo».
Per quanto mi riguarda, essere accusati di durezza è una cosa che vivo ormai da decenni e non mi fa più né caldo né freddo. Ho notato che, quando la verità che andiamo ad annunciare è dura e alcuni non la vogliono ascoltare, spesso aggirano il problema dicendo che sono dure le persone. Quando c’era Giovanni Paolo II, dalle mie parti dicevano che ero “papista”. Oggi so di essere classificata tra quelli “intransigenti” e “integralisti”. Noi, per l’esattezza, vogliamo essere semplicemente integrali cioè fedeli alla verità tutta intera, anche a quella parte più scomoda. I marchi e i cartelli che mi porto sulla schiena saranno smeraldi e schegge di diamante a decoro del vestito da sposa con cui un giorno mi presenterò davanti a Gesù.
Indicatore (Arezzo), 29 aprile 2018
festa di Santa Caterina da Siena
Fonte: BlogCostanzaMiriano.it