Perché “Storie del genere” è un tentativo di imborghesimento, di normalizzazione, di annegamento dei casi singoli e sofferti di chi ha la disforia nella trappola mediatica del “tema di grande attualità”
«Sono rimasto incinta», «si parla dell’invidia del pene, nessuno da cos’è l’invidia del parto», «per Pasqua mia madre mi ha regalato tre fialette di testoviron da 250 milligrammi e mi ha reso l’uomo più felice del mondo». Un corpo non è una corporazione, è un corpo. Ma ora è importante farne una corporazione, cosicché qualunque considerazione a proposito risulti faziosa, perfino razzista se non allienata. Non lo diciamo noi. In questi giorni sta andando in onda su Raitre il programma “Storie del genere”, con un programma preciso: «Certo, diciamolo che in fondo c’è un solo termine per definire chi è contro la naturale evoluzione della società: razzismo. Razzismo è quello che distingue tra ciò che invece deve essere riassunto in un solo modo, “genere umano”» ha spiegato la conduttrice Sabrina Ferilli all’Ansa. Capelli raccolti, longuette nera, un filo di trucco e décolleté rosse ai piedi, Ferilli apre la porta a persone che a un certo punto della loro vita hanno deciso di cambiare sesso, le accoglie sorridente in un luminoso salotto con camino.
«All’epoca lei mi disse “mamma l’hai sempre saputo che io mi sono sentito sempre un uomo”», «è la stessa persona di prima, forse con qualcosa in più, tipo la parrucca in testa», «durante la gravidanza avevo la percezione che il bambino che era in pancia fosse maschio. Anche dopo l’ecografia, credevo si fossero sbagliati». Sì perché le “Storie del genere” sono anche le storie e le parole dei famigliari delle persone scelte nell’ambito del protocollo di una struttura sanitaria, la Saifip, Servizio per l’adeguamento identità fisica e identità psichica dell’Azienda ospedaliera San Camillo – Forlanini di Roma. Persone con la disforia di genere: «Ho 62 anni sono vissuta 60 anni sotto copertura» (dice Fabrizio, un figlio grande, all’anagrafe Daniela), «hanno elaborato questa cosa, non mi chiamano mamma, mi chiamano Maikol» (dice Maikol, che prima era Masha, si è sposata e ha avuto tre bambine), «non avevo istinto materno non volevo che un bambino uscisse da me, il mio è un istino di protezione, un istinto paterno» (dice Alessandro, 26 anni, nata Verbenia che sta transitando da femmina a maschio, ha una compagna e vorrebbe un giorno diventare padre).
È IL CORPO CHE LO CHIEDE. «Io ho solo dovuto fare un passo: la conquista della verità», «la fine della vergogna», «togliere il pene: è il corpo che lo chiede». «Se ho sofferto? Un po’», «un pochino sì», «forse all’inizio». Ferilli, sguardo ora agli ospiti ora alla telecamera ammonisce, traduce, livella: «A volte dietro un bisturi si ridisegna la mappa della propria identità», «il matrimonio a volte nasconde, insabbia, maschera», «cambiare sesso significa cambiare desideri, si può desiderare di essere madri in un corpo di maschio, oppure non avere l’istinto materno quando si è biologicamente femmine, ma sognare di essere padri».
“A volte”, “un po’”, “oppure”: quello che colpisce delle drammatiche “Storie di genere” che in molti hanno presentato come un programma che «genererà polemiche e discussioni» è al contrario il tentativo di imborghesimento, di normalizzazione, l’affogare i casi singoli e sofferti nelle trappole mediatiche del «tema di grande attualità». Che non è il boom della disforia di genere – perché non sembra esserci alcun riguardo nella riduzione di quelle storie, così imbevute di dramma, nel presentarle come conquiste di verità. Bensì l’alimentazione dello storytelling del diritto/desiderio di essere ciò che si vuole. «Mio padre mi ha insegnato che la cosa più importante è essere quello che si vuole, a mandare a quel paese quelli che ti stanno accanto», «ricordo lo stordimento quando è nata mi hanno messo mia figlia accanto, lo smarrimento, ma ho fatto io questa cosa? Era più forte la sensazione che questo era un corpo che non era il mio e stava venendo fuori la consapevolezza che io potessi avere la disforia di genere», «non penso di aver tolto nulla alle mie figlie, penso di aver dato qualcosa in più. Se io stavo bene stavano bene loro», «farò l’isterectomia ma non farò la falloplastica perché sto bene così. L’importante è raggiungere l’equilibrio. Mi guardo allo specchio e dico: sono io».
NEANCHE UN BACETTO DA DUE ANNI. «Figlie che diventano figli, madri che diventano maschi, padri che diventano femmine. Una grande confusione. Una cosa è certa. Con l’amore e l’accettazione tutto torna a posto. Diversamente ma torna a posto», sorride Ferilli a fine puntata, «con la pazienza e la comprensione da parte di tutti». Eppure Fabrizio che diventa Daniela, esce col suo nuovo documento di identità levando gli occhi al cielo, «oddio mamma, nun me guardà. Zitta!». Racconta del suo matrimonio, «quel giorno ero felice perché amo la commedia, la rappresentazioni, io ne farei uno al giorno», racconta l’eros prima di cambiare, «aveva una grande originalità perché era molto corporale e non molto genitale», e dopo esser cambiato, «e adesso come funziona il sesso? Non funziona. Non c’è. La terapia ormonale abbatte completamente il testosterone. Non c’è la libido. Neanche un bacetto da due anni». Racconta della sua transizione, conclusa con un trasferimento lontano da tutti, in un casale nella Tuscia, dove Daniela si è ritirata tra uova, polli, gatti e ferri da stiro: «Questo amore e questa rinascita dovevano trovare un luogo. Per morire e rinascere devi trovare un posto, una cuccia in cui ti uccidi e poi risorgi. Ed è un luogo di solitudine».
Per non essere razzisti – e va da sé, visto come vanno le cose, per non essere omofobi, fascisti reazionari – basterebbe questo. Per raccontare che la vita è un dramma, che la disforia di genere è un dramma, non serve lo storytelling, il salotto col camino, gli slogan sull’amore, la crociata per il genere umano, la conquista all’anagrafe di una nuova identità, la traduzione del corpo in corporazione di certa eco mediatica e polemica. Basterebbe solo raccontare la verità.
Fonte: Ilaria Specchi | Tempi.it