Cronaca del convegno milanese cui hanno partecipato i tre professori Paolo Pagani, Francesco Botturi, Giacomo Samek Lodovici. E un messaggio di mons. Luigi Negri
Grande mattinata di filosofia al Centro culturale francescano Rosetum di Milano il 12 maggio scorso, con appendice e conclusione nel pomeriggio. Tema del convegno, voluto dalla Fondazione internazionale Giovanni Paolo II e dall’Associazione culturale Esserci, “Volti del moderno: Infinità – Libertà – Universalità”. A relazionare, dopo un’introduzione dell’arcivescovo emerito di Ferrara mons. Luigi Negri, tre accademici: Paolo Pagani docente di filosofia morale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Francesco Botturi professore di antropologia filosofica all’Università Cattolica di Milano e Giacomo Samek Lodovici, anche lui docente alla Cattolica, professore di Storia delle dottrine morali.
Dopo l’introduzione di mons. Negri, ha preso la parola Paolo Pagani per trattare il tema “Modernità e Infinito”. Pagani ha spiegato che la contemporaneità filosofica accetta di considerare (sia pur criticamente) tre tipi di infinito: quello di perfezione, Quello potenziale o matematico e quello transfinito, cioè le serie matematiche infinite date per ipotesi come insiemi di elementi dispiegati. Se non che, c’è un infinito radicale che fa da condizione di costruibilità del secondo e del terzo, e di concepibilità del primo: infinito trascendentale o iniziale. Esso è il referente del pensiero e del desiderio. Nella sua attualità solo formale (esistenza) istituisce l’uomo nella sua specifica dignità (Pascal).
Il cuore teorico della modernità – filosofica, sapienziale, cosmologica, matematica – è la considerazione positiva dell’infinito. Il Creatore è pensato anzitutto (e non solo corollariamente) come infinito di perfezione. L’uomo è pensato come un Io aperto sulla infinità del possibile che si apre dentro di lui. L’irriducibilità della nozione stessa di infinito a quella di finito (pensiamo a Cartesio, Pascal, Kant Rosmini) è il cuore filosofico di questa partita. L’infinito è un contenuto semantico che non si può ottenere per aggiunta o moltiplicazione di finiti a finiti: se moltiplico finiti, ottengo finiti. E neppure per toglimento di limiti. Occorrerebbe infatti il toglimento di ogni possibile negatività relativa (o limite) del finito; e “ogni possibile” implica già la riferibilità ai possibili infiniti limiti del finito.
Quell’infinito di cui Cartesio accerta l’irriducibilità (e che Locke neppure avvista) è l’infinito trascendentale (l’idea di infinito che Rosmini chiarificherà come essere ideale, e più ancora come iniziale), che già Tommaso aveva intravvisto e distinto da quello potenziale e da quello attuale: è l’infinito su cui sta aperto il pensiero (di ogni quantità posso pensarne una più grande perché già sono aperto sull’infinito: su un oggetto infinito), e che trova in Dio la sua unica istanziazione sussistente adeguata (metafisica cartesiana e poi rosminiana). La polemica razionalismo/empirismo trova qui, nella irriducibilità semantica dell’infinito, il suo luogo più acuto. L’empirismo conosce solo l’infinito potenziale (quindi seriale). Interprete d’eccezione di questa polemica è Rosmini. Finito e infinito (inizial-virtuale) sono concetti tra loro eterogenei. Ora, l’essere è infinito; e tra l’essere infinito e l’ente finito c’è la stessa distanza che troviamo tra essere e non-essere: una differenza massima, assoluta, infinita.
Questa irriducibilità è ciò che della modernità va custodito perennemente. E custodito dalle riduzioni che la modernità stessa ne ha tentato dal suo interno, e dalle quali sono nati tentativi progressivi di un suo superamento: la riduzione empiristica, quella dell’illuminismo, il riduzionismo ontico di Carnap, il riduzionismo scientista, la posizione di Hilbert, per il qualei l’infinito non abita né l’esperienza né la razionalità (cfr. Sull’infinito, 1927) è sintetica di una autocensura della modernità sulla propria figura emblematica. Ma anche l’impostazione idealistica del rapporto tra finito e infinito si può considerare riduttiva. In Hegel la realtà determinata ha una “qualità”, è positivamente “qualcosa” (Etwas) di determinato. Ma, proprio per questo, essa è anche negazione. Infatti, per potersi rapportare a sé come identica con sé, la realtà determinata deve essere negazione dell’altro da sé (o “negazione della negazione” – come Hegel si esprime). Riconoscere che l’essere determinato ha un altro da sé esprime che l’alterità è inerente ad ogni realtà determinata. Non solo, ma questo aver relazione con l’altro che lo limita, è per l’ente finito l’occasione per uscire dal proprio limite, e diventare, appunto, altro da sé. Secondo Hegel, il perire del finito è il culmine della destinazione di questo. Il risultato di questo risolvimento (Aufhebung) dell’autocontraddittorietà del finito, non è il non essere assoluto, bensì l’infinito: cioè, una forma più progredita (o più concreta) dell’Assoluto. L’infinito affermativo, di cui parla Hegel, è invece una relazione, non estrinseca, bensì intrinseca, tra finito e infinito. Ciò significa che essi non si danno come già autonomamente costituiti l’uno indipendentemente dall’altro, ma piuttosto come reciprocamente essenziali. Più precisamente, l’infinito hegeliano è il divenire, è come un fuoco, che si alimenta dei finiti, come della legna che, consumandosi, gli dà vita. L’idealismo hegeliano è, in fondo, la teoria – organicistica – della reciprocità di infinito e finito, per cui il secondo non può stare senza il primo, e neppure il primo senza il secondo; e, con ciò, esso si oppone alla metafisica classica, che invece nega il secondo verso dell’implicazione (per tenere ferma piuttosto la trascendenza dell’Assoluto).
L’impostazione creazionistica del rapporto tra finito e infinito è l’unica impostazione metafisica che salvi, non solo la intelligibilità immediata di entrambi, ma che salvi anche la loro intelligibilità ultima o razionalità. Infatti, l’impianto creazionistico, non solo non rinnega il fattore costitutivo dell’intelligenza (l’essere infinito), ma ne rivela anzi la consistenza concreta. La verità creazionistica è l’unico quadro interale che salva l’intelligenza, in quanto non ne rinnega – né esplicitamente né implicitamente – l’orizzonte, ed evita così alla ragione le ben note ritirate strategiche, in cui il risentimento si organizza in riduzionismo. Analogamente salva il desiderio, in quanto gli riconosce come sussistente un oggetto appropriato, non riducendolo al finito: lasciando la vicenda storica al lavoro e alla speranza, fuori dalle equivoche sovradeterminazioni dell’utopismo e del nuovismo. L’impostazione creazionistica vieta totalizzazioni quantitative del rapporto tra finito e infinito.
Ma tale impostazione metafisica salva anche la dignità del finito (realiter extra Deum), che è tutto ciò che si può essere non essendo l’originario. Il finito non è né un modo né una degradazione dell’infinito. È contingente – certo -, ex nihilo, ma sorretto da limiti che lo strutturano nella sua autonomia, e autonoma capacità di progresso (biologico e storico), cui la contingenza offre l’atmosfera.
L’uomo, in quanto è partecipe dell’infinito, è un Io (Pascal). L’Io è originariamente oltre sé, presso l’orizzonte infinito, ma è costantemente proclive a fare di sé il centro totalizzante dell’orizzonte. Pascal (136 Ch.): “L’Io è ingiusto in sé, in quanto si fa centro di tutto”.
La considerazione dell’orizzonte dell’infinito trascendentale tiene il desiderio nella sua referenza appropriata. Ma tale referenza è sopportabile solo a patto che la speranza la sostenga. Se viene meno la speranza, resta l’apertura, ma viene riempita dalla “lussuria” del finito o dalla idolatria del nuovo). “Il desiderio dell’uomo è infinito” (come portata); ma esso deve trovare dei beni adeguati che lo facciano passare dalla potenza all’atto. Se non che, niente di reale nel mondo – né niente di immaginario (che si forma sulla base dell’esperienza) – può soddisfare radicalmente il desiderio. Il cristianesimo gli ha offerto un oggetto infinito sussistente, ma conseguibile in pienezza solo fuori della storia, a evitare illusioni utopistiche, dà ragione di questa dislocazione, e dà di questo oggetto una visione coerente, non antropomorfica e quindi non contraddittoria.
È seguito l’intervento di Francesco Botturi su “Modernità e secolarizzazione”. Botturi ha sottolineato la pluriformità della secolarizzazione, grande processo storico caratterizzato da una pluralità di forme che si sviluppano a partire dalla crisi della coscienza europea alla fine del XVII secolo e che giungono oggi a determinare una crisi generalizzata dell’universale antropologico. Di essa l’esistenza storica cristiana deve prendere criticamente coscienza e ad essa deve rispondere attivamente, con un rinnovato senso della singolarità cristiana. La crisi della coscienza europea del secolo XVII ha costituto un irreversibile passaggio a una seconda fase della modernità, in cui gli elementi di discontinuità rispetto alla tradizione dell’umanesimo cristiano hanno prevalso rispetto a quelli di continuità. Tre possono essere considerati gli ambiti più significativi per l’emergenza della crisi. Innanzitutto quello religioso, ove la frattura aperta dal protestantesimo, con il tragico corollario delle cd guerre di religione veniva a lacerare l’unità vitale della civiltà europea. A livello etico-antropologico le risultanze etnologiche del Nuovo Mondo americano o degli antichissimi mondi dell’Egitto, dell’India, della Cina, testimoniavano di un pluralismo culturale a livello della storia mondiale che veniva a sconvolgere il quadro acquisito e cristianizzato dell’antropologia. Da una parte, costumi barbari in contraddizione con l’universale legge naturale e sconvolgenti con la loro antichità le cronologie bibliche, letteralisticamente interpretate. Infine, in ambito strettamente intellettuale, la crisi dell’unità del sapere, cioè delle sue forme fondamentali, nessuna delle quali capace di offrire un principio di sintesi: di fronte al compito di una nuova armonia epistemologica.
Insieme questi tre elementi ebbero il potere di dare un colpo decisivo alla credibilità dell’umanesimo cristiano: lo scandalo della divisione religiosa e della differenza culturale induceva una sfiducia a riguardo delle ragioni di credibilità e delle risorse culturali della fede tradizionale. Per la prima volta, veniva meno nel pensiero e nell’ethos europei la concordia sulla premessa dell’umanesimo cristiano. Se la fede non costituisce più il riferimento comune, si impone il compito storico di reperire altre vie e altre garanzie di universalità. La crisi dell’umanesimo cristiano esige la ricerca e l’invenzione di nuove sintesi culturali e operative, in cui gli uomini possano convergere, comunicare e progettare la loro storia al di qua, se non contro o al di là, della fede cristiana. Il processo secolarizzante non si avvia in termini di alternativa polemica al cristianesimo, bensì in termini di de-legittimazione del cristianesimo quale “anima” della civiltà europea e radice di quella moderna. Il fatto storico delle sorgenti cristiane della cultura europea e anche moderna non può essere negato, ma viene appunto delegittimato, quanto alla sua pretesa di proseguire nel suo ruolo di principio ispiratore. Delegittimazione che pone il gigantesco problema di che cosa rilegittimare dell’umanesimo europeo e come. Questo costituisce l’oggettivo “dramma” interno alla cultura “laica” contemporanea.
Gli atteggiamenti moderni nei confronti del cristianesimo fanno corpo con la vicenda storica della secolarizzazione e documentano come questa sia parte integrante della modernità. Il primo atteggiamento è quello della riduzione privatistica della fede, incentrata sulla duplice idea della soggettività privata della fede e della confessionalità pubblica della religione. Nasce qui il paradigma di una fede rilevante nel contesto dell’esistenza, ma senza relazione significativa con la verità del mondo, e di una religione quale momento pratico del conformismo sociale, subordinato al potere pubblico: la religione ha il compito di inculcare lo spirito di obbedienza e di garantire l’ordine pubblico. Si creano così le condizioni per una preventiva estraneità alla fede dell’opera della ragione.
Tre possono essere considerati gli atteggiamenti successivi, nei confronti dell’umanesimo cristiano e della sua universalità.
Ad un estremo si possono collocare l’opposizione frontale all’umanesimo cristiano rappresentata dall’ateismo libertino e dal materialismo illuminista. All’altro estremo, la tradizione empiristica e pragmatista della modernità, che compie una revisione radicale dello stesso concetto di universalità. La mentalità empiristica rappresenta nel moderno l’ipotesi della possibilità del convenire e del convivere umani a prescindere dal riconoscimento di un comunanza universalistica originaria, che si è espressa e si esprime, a livello socio-politico, nell’idea liberale della procedura democratica. Un terzo atteggiamento si prefigge la ricomprensione della religione e del cristianesimo come parti della più vasta totalità razionale. Esso presenta due forme. La prima forma consiste nella identificazione del contenuto essenziale del cristianesimo con un insegnamento etico. La seconda è la posizione idealista e in particolare hegeliana. In essa il cristianesimo è la forma mitico-religiosa per eccellenza della coscienza metafisica dell’umanità, cioè espressione mitologica dell’identità metafisica dell’umano e del divino e allegoria della piena autorivelazione dell’Uomo-Dio. Il cristianesimo, che ha dato al mondo il senso dello Spirito, in quanto religione ne è solo la coscienza mitologica, in cui ciò che è proprio della vita del Soggetto spirituale è ancora attribuito a fatti empirici oggettivi, come avviene nelle forme rituali, istituzionali, ecclesiastiche della fede cristiana, in particolare cattolica. Per questo l’essenza del cristianesimo va ripresa e superata, cioè demitizzata. La secolarizzazione idealista costituisce il raggiungimento del perfetto contrario dell’umanesimo cristiano. In quanto sottopone il significato della fede a una misura esterna e superiore, rovescia il senso della signoria di Cristo: tutto ciò che è di Cristo e della sua Chiesa viene attribuito alla Ragione e al suo divenire storico come Spirito.
Ma la ricomprensione metafisica del cristianesimo apre con logica facilità all’ateismo: se il cristianesimo, e in generale la religione, non sono che un momento della coscienza di sé da parte dell’umanità, al culmine della sua autocoscienza critica, nella sua piena auto-manifestazione, l’uomo si scopre solo con se stesso. La via è così aperta all’ateismo costruttivo, che nelle sue varie forme vedrà ormai nella religione un momento, forse inevitabile (Feuerbach), ma comunque patologico (Marx), della vita umana, sintomo certo di problemi irrisolti da parte della soggettività individuale e sociale. D’altra parte l’ateismo sistematico ottocentesco innesca una spirale che conduce a una seria autocritica dell’intera antropologia moderna. Se non vi è Assoluto, anche il potente soggetto (individuale o collettivo) della prassi mondana è finito e fallibile: l’ateismo giunto a piena consapevolezza di sé non è prometeico. L’anima più profonda dell’ateismo moderno sta nel depotenziare il senso della trasformazione umana della realtà, in quanto impotente a perseguire una totalità di senso o di valore, ma capace solo di esercitare un potere che non può più invocare alcuna giustificazione, che non dipende più da alcuna finalità. È questo il contenuto dell’intuizione profonda di Nietzsche sull’essenza del nichilismo compiuto. L’esito nichilista della secolarizzazione pone l’uomo di fronte a un vertiginoso vuoto di universalità culturalmente riconosciuta e criticamente fondata. La parabola secolarizzante ha posto e deposto, istituito e superato l’intero ordine degli universali scientifici, giuridici, etici, politici, così che, al termine della parabola moderna, l’uomo europeo (e con lui l’occidentale) si trova in una indigenza di universalità, più grave di quella del suo inizio.
Nel pomeriggio Giacomo Samek Lodovici è intervenuto sul tema “Dal liberalismo al libertarismo”. Ha premesso che oggigiorno quasi tutti, anche quando professano concezioni molto diverse, si definiscono “liberali” e anche per questo motivo è difficile dare una definizione del liberalismo. Quella più ovvia configura una prospettiva filosofico-politica che valorizza particolarmente la libertà contro i soprusi dei governi e che si suole far risalire perlomeno a John Locke (1632-1704).
I liberali nella storia hanno lottato, spesso meritoriamente anche se non sempre, cosicché bisogna essere estremamente grati ad alcuni di loro per alcune delle battaglie che hanno condotto per varie tipologie di libertà, per esempio:
– libertà personali (libertà di iniziativa, di pensiero, di espressione, di associazione, di religione, ecc.);
– libertà civili (la sottomissione anche dell’autorità politica alla legge, l’uguaglianza di ciascuno di fronte alla legge ed ai giudici, il suffragio universale e segreto, ecc.);
– libertà fiscali ed economiche (per esempio libertà di intrapresa e di commercio senza tassazioni elevate e senza dazi doganali);
– libertà domestiche (delle donne rispetto agli uomini, dei figli rispetto a genitori-padroni che li consideravano come cose);
– libertà delle minoranze;
– libertà internazionali (contro la soggezione di alcuni Stati ad altri).
Dunque di solito per “liberalismo” si intende una prospettiva filosofico-politica che valorizza la libertà e protegge la proprietà privata e che afferma che lo Stato deve evitare il più possibile di intervenire (con vincoli legislativi e burocratici, con regolamentazioni varie, con tasse elevate, ecc.) nelle iniziative e nella vita dei singoli, deve adottare il criterio del laissez faire nella sfera economica, deve limitarsi a trovare delle leggi-regole per l’interazione sociale e deve vigilare sul rispetto, da parte di ognuno, della vita altrui, della libertà di ciascuno, della proprietà privata (come detto) e dei contratti (come detto, Locke parla di diritti naturali alla vita, alla libertà, alla proprietà e a difendere questi diritti). Però, già in Locke (per esempio in uno scritto del 1677 e in uno di circa dieci anni dopo) comincia ad emergere il concetto di diritto alla felicità. Tale concezione comincia a far balenare anche un’idea del dovere dello Stato di erogare la felicità. In sostanza, come ha scritto J. Ellul, inizialmente, «quando nella società liberale si accordava ad un uomo una libertà, essa era concepita come un diritto all’azione: l’individuo era chiamato ad agire (…). La società gliene accordava la possibilità. Il compito della società era di non impedirlo e di non ostacolarlo».
Poi, però, come già comincia a balenare in Locke, nonché per influsso del socialismo e dell’utilitarismo «l’idea di libertà si è trasformata in un diritto a delle prestazioni», svolte dallo Stato, che deve dare soddisfazione ai desideri del singolo. Di qui prende le mosse un liberalismo che mira alla massimizzazione della libertà anche a costo di coinvolgere direttamente lo Stato. Il minimo comun denominatore di non poche versioni odierne del liberalismo è, allora, molto probabilmente, proprio il fine di realizzare la massima estensione della libertà nel mondo, massima in termini di bilancio complessivo, se del caso anche restringendo quella di alcuni al fine di aumentare quella globale sulla faccia della terra. Prefiggendosi la massimizzazione della libertà, il liberalismo si è sempre più declinato come libertarismo. Dal diritto all’azione si è passati al diritto alla prestazione, erogata dallo Stato, che dunque ha il dovere di erogare delle prestazioni. Abbiamo visto che è emerso un concetto di diritto del singolo alla felicità e dunque un correlato dovere dello Stato di promuovere la felicità dei singoli: lo Stato ha il dovere di erogare la felicità e di rimuovere l’infelicità.
Ora, per influsso del sensismo, dell’edonismo, e dell’utilitarismo, la felicità coincide col benessere e col piacere, l’infelicità coincide col dolore o già con l’incapacità di provare piacere. Emerge dunque un concetto di qualità della vita che scaccia il concetto di dignità della vita. Così nel caso del piccolo Alfie la felicità-benessere del bambino consiste in una vita connotata dal maggior numero di piaceri fisici e dal minor numero possibile di dolori fisici.
Se i medici ritengono che Alfie non possa esercitare la libertà e, peggio ancora, non possa provare benessere, il suo diritto alla vita non vige più e Alfie deve morire: è nel suo best interest, che lo Stato ha il dovere di promuovere nei confronti di Alfie.
L’antropologia che sta alla base della prospettiva liberale, specialmente nella sua declinazione libertaria, consiste, molto spesso, nell’individualismo possessivo, che rovescia la prospettiva non solo aristotelica, ma anche del primo Umanesimo, ed asserisce che l’essere umano è fondamentalmente individualista e utilitario, dichiarandosi fortemente scettico circa il possesso, da parte dell’uomo, di una capacità relazionale non strumentale. L’individualismo ritiene l’uomo del tutto incapace di volere davvero il bene dell’altro senza tornaconto, incapace di altruismo e di vero amore, afferma che quando un soggetto cerca il bene dell’altro lo fa sempre e soltanto per un tornaconto personale, cioè è solo apparentemente altruista: quindi l’altro è considerato solo una minaccia e/o una fonte di utilità, oppure risulta indifferente. Per questo le relazioni interpersonali devono essere rigidamente tutelate da un contratto, sul cui rispetto vigila lo Stato.
L’identificazione tra il bene della libertà e l’esercizio della scelta porta alla giustificazione di qualunque scelta per il solo fatto di essere libera e produce una sorta di bulimia, in cui la libertà ambisce a consumare la maggior quantità possibile di esperienze e di cose; come auspica del resto l’attuale economia di mercato, che è appunto consumistica ed alimenta a suo vantaggio la concezione libertaria. La libertà include anzitutto l’autopossesso, la capacità di governare se stessi rispetto al piacere, alle pulsioni, ai desideri, ecc. Ora, il libertarismo radicale promuove il soddisfacimento di quasi tutti i desideri, impulsi, ecc. e l’uomo che li asseconda continuamente ne diventa succube e quasi schiavo, come già notavano Socrate, Platone e Aristotele. Diventa sempre meno libero: perciò il liberalismo libertario finisce per contraddire il suo fine di accrescere la libertà. Per esempio liberalizzare l’aborto significa azzerare gli innumerevoli atti di libertà che il bambino che sarebbe nato avrebbe compiuto nella sua vita (purché capace di intendere e volere). Si può ribattere che se la popolazione cresce siamo meno liberi e più poveri. Ma non è così: l’esistenza di molti esseri umani non toglie libertà e sviluppo, anzi è una risorsa per aumentarli, perché la vera risorsa è l’uomo, che continuamente scopre nuovi giacimenti di materie prime, che inventa nuovi modi di utilizzare la materia nuovi modi di sfruttare e coltivare gli spazi.
Fonte: Rodolfo Casade | Tempi.it