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Alessandro D’AVENIA – 18. Musica per alieni

«Sono la mamma di una tredicenne che ha quasi finito la terza media. Da un anno a questa parte ho assistito alla sua trasformazione, con la meraviglia di chi guarda sbocciare un fiore. A scuola è bravissima e ha acquisito autonomia piena. La seguo nell’ombra e intervengo solo se lo chiede. Però sono iniziate anche le ribellioni, le discussioni infinite, le porte in faccia appena le si vieta qualcosa, in camera sua si può accedere solo con il permesso (che io chiedo sempre). Si chiude lì con la sua musica nelle orecchie, le amiche sono il suo mondo e noi ci troviamo spesso a combattere con la troppa libertà concessa dai loro genitori e diventiamo così i nemici. È come giocare costantemente al tiro alla fune. Per fortuna i giorni non sono tutti uguali, a volte è tranquilla e cerco di sfruttare l’attimo per «comunicare», lanciare messaggi, come quelli nello spazio in cerca di risposta dagli extraterrestri. Vorrei la chiave per entrare in contatto, per farle capire che i genitori non sono i suoi nemici, ma coloro su cui lei potrà sempre contare. D.».

Cara D., grazie per la sua lettera accorata e precisa nel delineare il lavoro faticoso che state facendo con vostra figlia. Gli alieni esistono, anche io come lei li vedo tutti i giorni, sotto mentite spoglie di adolescenti. Tralascio le cause psico-fisiche della trasformazione, perché le ho descritte qualche «letto» fa, raccontando che l’adolescenza non è una malattia, ma vorrei sfruttare la similitudine da lei scelta: l’extraterrestre con cui non si sa come comunicare.

Preferisco la parola alieno, perché l’extraterrestre è lontano dal nostro mondo, mentre sua figlia è inserita nel normale processo di crescita e fioritura che caratterizza i ragazzi di questa Terra. La parola «alieno» era usata in latino per indicare, come aggettivo: «chi o cosa appartiene a un altro», come sostantivo: «lo straniero». Sua figlia sta manifestando, in piena coerenza con la sua crescita e con l’educazione che le avete dato, di essere dotata di libertà, di non appartenervi ma di essere a voi affidata, con la conseguente, dolorosa ma normale sensazione che sia straniera (in questa fase lo è per se stessa prima che per voi). Dimenticate la bambina che si comportava in perfetta continuità con i vostri principi, quasi fosse una vostra estensione, accoglietela in casa come un UFO, come la prima volta che l’avete abbracciata appena nata. Vostra figlia è la sintesi del DNA materiale e spirituale che le avete trasmesso, ma rinnovato in modo inatteso. Il nuovo è sempre accompagnato da sconcerto: vostra figlia è assolutamente inedita, una sorpresa mai vista prima sulla faccia della Terra. É un’aliena che usa una lingua incomprensibile, che non imparerete se continuerete a parlare, oltre quella porta, alla bambina di un tempo.

Anche la porta di cui parla è una metafora utile. Quando vanno a Roma a visitare i Fori chiedo agli studenti perché si chiamano così. Rispondono immancabilmente: «perché sono pieni di buchi». Dopo una risata spiego loro che foris era la porta, e che quindi i Fori erano le porte di ingresso a spazi specifici della città. Poi aggiungo che anche noi usiamo quella parola tutti i giorni, quando diciamo «fuori», che dalla stessa radice indica proprio chi o cosa sta sulla porta di casa, provenendo dall’esterno. Quello che sta facendo vostra figlia è finalmente creare una casa nella casa, uno spazio interiore di cui la porta è il confine fisico e simbolico, e ha la maniglia solo all’interno. Questo spazio si chiama «intimità», parola oggi purtroppo in disuso nel suo significato originario (antico superlativo di «intus»: dentro): la parte più profonda di sé, il dentro più dentro. Si tratta di un luogo in cui noi conversiamo con noi stessi, maturiamo la capacità di leggere dentro (intus legere, da cui intelligenza) noi stessi e le cose che cadono sotto i nostri occhi o accadono nella nostra vita, per poterne giudicare il valore. Che quella porta rimanga chiusa è un bene, perché oltre quella porta si sta ampliando la casa nella casa, l’anima di vostra figlia, la sua intimità, cioè il luogo da cui lei si possiede, per poi poter esplorare con coraggio il mondo. È bene chiedere permesso, non forzare lo spazio sacro, non frugare a sproposito nell’anima dei figli, ma aspettare (anche se costa pazienza e lacrime, senza mai smettere di esercitare la vostra autorità) che siano loro ad accogliere «in camera» ciò che viene da «fuori». Al suo essere «aliena» corrisponde il vostro esser divenuti «forestieri», parola che viene dalla stessa radice di foris e indica ciò che è oltre la porta. Un tempo oltre la porta di casa c’era infatti la foresta, per eccellenza lo spazio caotico e pericoloso da cui vengono appunto i forestieri. Si bussa, e ci si sente dire «chi è?», per valutare se chi arriva può ricevere ospitalità o no, se è amico o nemico. Sulle prime il forestiero è percepito come pericolo, anche se si tratta di mamma e papà, che devono vestire i panni e le parole giuste per poter essere ammessi nell’intimità. Una per una, vostra figlia, dovrà vagliare le cose che le avete insegnato per vedere se può farle sue, se sono vere o meno, se servono a vivere meglio o no: per lei tutto ciò che davate per scontato è diventato forestiero, in particolare i limiti che ponete, di cui ha un bisogno estremo, anche se ve li fa pagare con dazi salati al confine della sua stanza. Sta cercando di riappropriarsi di ciò che le avete trasmesso, ma a un altro livello: quello di chi deve acquisire la libertà personale necessaria a uscire (varcare l’uscio) di casa e affrontare la foresta della vita, scegliendo cosa è indispensabile per «sopra-vivere», cioè vivere fuori, oltre le mura domestiche. Per questo bisogna che i vostri principi siano scossi da altri forestieri, le amiche: siete così costretti a giustificare la ragionevolezza di ciò che le date e dite, e a non accontentarvi del «si fa così e basta». Vi sta chiedendo di trasformarvi con lei, ma senza diventare come lei, cioè rimanendo adulti.

Per questo mi piace anche l’immagine del tiro alla fune, che raffinerei mantenendo l’idea di legame che contiene, e tralasciando il contrasto tra chi vince e chi perde, in base alla forza. L’adolescente vive le relazioni come uno yo-yo, si avvicina e si allontana, ma non vuole assolutamente che il filo si spezzi. A volte ha bisogno di prossimità e diventa disponibile a un abbraccio, a volte vuole stare lontano e persino l’innocuo «cosa hai fatto oggi a scuola?» (che io personalmente sostituirei con un: «come ti senti oggi?») è un’offesa. Ma nell’uno e nell’altro caso l’adolescente mette alla prova la continuità e stabilità della relazione nei terremoti a cui è sottoposto. Lo yo-yo relazionale fa impazzire chi educa, chiamato a capire di volta in volta quale sia la giusta distanza: è faticoso e comporta errori, per i quali c’è sempre la parola più elastica di tutte: «scusa», seguita da un «pensavo di aiutarti, non ho scelto il modo migliore, ma ci ho provato». A volte la giusta distanza, cara D., è il silenzio, altre una battuta che sdrammatizza, un no fermo, un rimprovero senza ferire, una carezza, una lettera (una di quelle scritte a mano, che vostra figlia leggerà e rileggerà chiusa in camera quando avrà bisogno di voi, ma non riuscirà ad ammetterlo). Educare non è una scienza, ma un’arte pro-creativa da affinare ogni giorno con ogni alieno. E quando mi chiede quale sia la chiave, rispondo che non lo so: è da inventare di continuo, perché gli adolescenti cambiano ogni giorno la serratura della porta d’accesso alla loro intimità.

Nel 1977 la sonda spaziale Voyager fu lanciata per esplorare Giove e Saturno, e poi uscire dal sistema solare, oltre il quale sta viaggiando a miliardi di chilometri: è l’oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra. Un comitato di astronomi decise di dotare la sonda di un disco d’oro sul quale è inciso il meglio della musica del pianeta, nel caso in cui una vita aliena intercettasse e decodificasse l’aureo vinile. Gli alieni allora potrebbero gustare un’ora di musica terrestre, per saper chi siamo: la musica è lingua universale (sua figlia l’ascolta ossessivamente per capire se stessa, ed è utile conoscere che musica ascolta per capire lei). Nel disco di Voyager all’armonia di Bach e alla forza di Beethoven si alternano Luis Armstrong con Melancholy Blues e Chuck Berry con Johnny B. Goode, ai canti popolari di culture diverse segue la musica di uccelli, onde, piogge, venti, vulcani, treni, macchine, per chiudere con i saluti in 55 lingue. Amo quello in latino che può tornarle utile per chiedere permesso sulla soglia della camera: «Salve, chiunque voi siate, vi vogliamo bene e portiamo la pace attraverso gli spazi stellari».

Il letto da rifare oggi è, cara D., lanciare il vostro Voyager, l’esempio personale di vita che date a vostra figlia, per colmare — a colpi di coerenza — qualsiasi distanza, e dotarlo poi, nella forma che inventerete (lettera, chiacchierata, passeggiata, nota vocale…), del disco d’oro: il meglio che avete da dirle. L’aliena accoglierà la sonda-esempio nel suo spazio, e poi ascolterà il vostro messaggio musicale. E, quando vorrà e potrà, superati i miliardi di chilometri che la separano da voi, vi contatterà per dire grazie. Non vi scoraggiate, va tutto bene, datele il tempo che le serve, perché, anche se sembra lontana, lei è già in viaggio.

Fonte: Corriere.it

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