Nel 2006 perse moglie, figlia e nipotino nella strage messa in atto dai vicini di casa, i coniugi Rosa e Olindo. Che ebbe la forza di perdonare
Da Carlo Castagna si andava per capire il perdono “impossibile”. Per anni ho visto folle riempire teatri, piazze e parrocchie per ascoltare il “nonno di Erba”, unico sopravvissuto all’omonima strage, e scoprire l’origine della sua forza. “Era famoso per aver perdonato gli assassini della sua famiglia”, battono in queste ore le agenzie dando la notizia della sua scomparsa, e così lo identificano con ciò che incarnava la sua stessa vita e lo rendeva diverso. Carlo Castagna a 75 anni era ormai stanco, ogni volta aveva la tentazione di declinare gli inviti, ma poi, obbediente alla Chiesa che sentiva madre e su cui poggiava ogni sua certezza, diceva ancora un sì e iniziava paziente il suo racconto.
“La sera dell’11 dicembre 2006 mi appisolai davanti alla tivù, attendendo che mia moglie Paola tornasse a casa. Sotto l’albero di Natale c’erano già i regali per il piccolo Youssef, il bimbo di mia figlia Raffaella…”. La banalità del male emergeva agghiacciante, se in una sera come tante, in una casa tranquilla e ricca di amore, l’inferno non ha bisogno di un perché per irrompere imprevedibile. Il racconto si spostava poi nel cortile di Raffaella, pioggia fina e gelida, luci blu di pompieri e polizia, il nastro bianco e rosso che delimita il luogo dell’orrore dal mondo dei vivi. “Non si avvicini, ci sono cinque sgozzati là dentro”, gli dice un carabiniere, ed è così che Carlo viene a sapere. E’ vero, nella casa di sua figlia giacciono da due ore, sgozzati, sua moglie Paola, Raffaella, Youssef, due anni, rimasto adagiato in verticale sul divano con le braccia aperte, come un piccolo crocefisso. E poi la vicina accorsa per aiutarli, Valeria Cherubini, mentre suo marito Mario Frigerio, che ha visto in faccia gli assassini, sopravvivrà per miracolo.
Ed è in quel momento che o impazzisci o ti accade qualcosa che ti salva. “Ero un uomo annientato, tremavo come una foglia, non capivo: chi erano tutti quei morti?” (e qui li contava sulle dita, monche per un incidente di lavoro, lui che imprenditore nei mobili di lusso non smetteva di lavorare il legno come un umile falegname). Poi affrontava il suo mistero, quello che la gente voleva sapere: “Da solo non sarei mai stato capace di pronunciare quel perdono, ma ho sentito sul capo la mano del Padre buono che infondeva in me una consolazione inspiegabile. Certamente Paola, Raffi e Yousi, che da due ore erano già nell’abbraccio del buon Dio, avevano interceduto per me”.
Scioccava il pubblico, Castagna, per la ferma semplicità con cui dimostrava che nel giusto era lui, che i diversi eravamo tutti noi. Uomo estremamente logico, quasi matematico, ci prendeva in contropiede: “Perché vi meravigliate se un cristiano perdona chi lo ha perseguitato? Gesù ci ha detto di amare il nemico, lo stupore sarebbe se alla prova dei fatti il cristiano si vendicasse”. E citava, con devozione filiale, le parole degli amici sacerdoti che frequentava quotidianamente, ma ancor più quelle di “mamma Lidia”, sua suocera, uno scricciolo di vecchietta dagli occhi blu che il giorno della strage trovò il coraggio per entrambi: “Carlo, dobbiamo pregare per gli assassini, altrimenti non potremmo più recitare il Padre Nostro dove dice …come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
La logica, dunque. Il Vangelo vissuto nella carne. Ma si restava lo stesso interdetti, perché un conto è il dire e altro è il praticare. Credenti e non credenti, da lui si voleva strappare il segreto di quel sì pronunciato nel momento del dolore estremo, quando l’odio non avrebbe sorpreso nessuno, ma il perdono sì. E Carlo ancora raccontava che “il fieno in cascina” – come lo chiamava nel suo gergo colorito di lombardo operoso – lo aveva messo per anni insieme alla sua Paola, quando ogni giorno recitavano i salmi e allo Spirito Santo chiedevano “la forza del perdono”, senza ancora sapere che ne avrebbero avuto bisogno.
Non gli servì conoscere il nome degli assassini, li perdonò chiunque fossero, prima ancora che venissero scoperti. E quando Olindo e Rosa confessarono, non cambiò nulla in lui, nonostante la crudeltà ulteriore dei futili motivi. Ed ecco di nuovo il suo lucido pensiero: “I miei cari sono accanto a me nello spirito e prima o poi torneremo tutti insieme. Ma io prego per il signor Olindo e la signora Rosa (così continuava a chiamarli) perché loro possono ancora salvarsi e chiedere perdono, non a me, ma al Padre buono”.
Se ciò fosse accaduto avrebbero pianto insieme come fratelli che si ritrovano, perché – citava sant’Agostino – “Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva”. E’ morto prima lui e, conoscendolo, sta pregando più intensamente, insieme a quel tutt’uno indissolubile che erano i suoi cari, al punto che nei messaggi al cellulare si firmava sempre CarloPaolaRaffiYousi, una parola sola. Non l’ho mai sentito usare accenti di odio per i colpevoli: si vergognava, anzi (e lo ammetteva in pubblico), per quell’unica volta che durante un’udienza, vedendoli ridere tra loro, sibilò la parola “assassini”. Il suo pensiero su di loro lo ha messo in apertura al libro sul “Perdono di Erba”, anche questo scritto in obbedienza a un sacerdote: “La disgrazia non è patire; la disgrazia è il far del male” (Manzoni).
Non per questo confondeva la giustizia divina con quella degli uomini, sapeva che la seconda deve fare il suo corso e vedeva nel carcere la giusta forma di afflizione, forse di redenzione, da scontare fino in fondo. La casa dell’orrore l’ha ceduta alla Caritas: oggi è un tetto per famiglie bisognose.
Fonte: Lucia BELLASPIGA | Avvenire.it