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La dipendenza da videogiochi è una malattia: l’Oms e le reazioni al “gaming disorder”

Non smette di far discutere l’inclusione ufficiale, seppur in bozza, della dipendenza da videogiochi nella nuova Classificazione Internazionale delle malattie. E sarebbe strano il contrario, dato che si parla della forma di intrattenimento più diffusa (nel mondo a spanne si censiscono 2 miliardi di gamer) e in costante crescita economica (siamo oltre i 110 miliardi di fatturato). Un’attività che come poche altre crea spesso una spaccatura generazionale, nelle famiglie ma non solo. Fatto sta che da lunedì il “Gaming disorder” è una malattia ufficiale riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che già aveva anticipato la novità nei mesi scorsi. La cosiddetta International Classification of Diseases nella sua versione 11, la prima peraltro in versione digitale in modo da poter essere consultata in ogni parte del mondo, entrerà in vigore dal prossimo maggio e segnala tra le nuove patologie la dipendenza da videogiochi nel capitolo delle malattie mentali, dove si riscontra tra chi ne è afflitto «una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti che prendono il sopravvento sugli altri interessi della vita». Tre i criteri decisivi nella decisione, con un meccanismo descritto che richiama dipendenze simili a quelle date dalle droghe, e basate sul concetto di “ricompensa”. Sul New York Times, lo psichiatra Petro Levounis esplicita il paragone spiegando come segue pazienti “che soffrono di una dipendenza da Candy Crush Saga che sono sostanzialmente simili alle persone che arrivano con un disturbo da cocaina”.

In Italia il settore vale 1,5 miliardi di euro, il triplo del cinema, e interessa 18 milioni di italiani, due terzi dei quali tra i 25 e i 54 anni. Un tema dunque che non riguarda solo gli adolescenti, «anche se i videogame sono la loro forma di intrattenimento principe». Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, psicoterapeuta presidente della Fondazione Minotauro che si occupa delle tematiche del cosiddetto “ritiro sociale”. «Questa attenzione posta dall’Oms è importante perché ci porta a indagare su un fenomeno, quello dei videogiochi, talmente diffuso da non poter più essere trascurato. Ma che non deve neanche essere demonizzato”. La questione sul tavolo è la possibile confusione tra quello che è un sintomo – il ragazzo chiuso in un mondo digitale – e l’effettiva causa di questo disagio. Se dunque l’abuso da giochi elettronici è un pericolo da non sottovalutare (qui una nostra inchiesta dentro l’ambulatorio specializzato del Policlinico di Roma), soprattutto in un periodo della vita così delicato come quello dell’adolescenza, non è corretto considerare il mezzo come causa del disagio. “La riflessione deve essere ampia e senza preconcetti, perché è anche vero che spesso i giochi e la Rete, le chat, possono essere viste come una prima forma di cura“. Pratiche cioè di socializzazione digitale che significano un’apertura verso il mondo esterno invece che una chiusura verso questo.

Inevitabilmente più dura è la presa di posizione dell’industria dei videogiochi nei confronti delle scelte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Italia è stata l’Associazione editori e sviluppatori videogiochi italiani (Aesvi) ha rilasciare un commento: “Ci rammarichiamo di constatare che la dipendenza da videogiochi è ancora presente nell’ultima versione della classificazione ICD-11 nonostante la significativa opposizione da parte della comunità medica e scientifica”, chi parla è Thalita Malagò, direttore di Aesvi. “Ci auguriamo che l’OMS decida di riconsiderare il volume crescente di dati a sua disposizione prima della versione finale della classificazione

Fonte: Corriere.it

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