Dalla Nigeria all’Italia. La storia d’amore di una coppia sfuggita all’intolleranza religiosa
Il 20 giugno si celebra in tutto il mondo la “Giornata Mondiale del Rifugiato”, appuntamento annuale voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, culmine della Campagna globale #WithRefugees lanciata dall’Unhcr (Agenzia Onu per i Rifugiati) per dare visibilità alle espressioni di solidarietà verso queste persone, amplificare la voce di chi accoglie e rafforzare l’incontro tra le comunità locali e i migranti.
Secondo l’agenzia Onu, il numero di persone costrette a fuggire nel mondo a causa di guerre, violenze e persecuzioni ha raggiunto – per il quinto anno consecutivo – un nuovo triste record. Nel rapporto annuale Global Trends, l’Unhcr ha stimato infatti che a fine 2017 le persone costrette alla fuga sono state ben 68,5 milioni.
In Italia, il tema immigrazione è al centro da mesi di un confronto serrato – se non proprio uno scontro – tra nuovo governo, ong, partiti e Ue. Emblematico il caso Aquarius, la nave da ricerca e soccorso con a bordo 629 persone (tra cui 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinta) a cui è stato negato il pos – il porto di sbarco sicuro – in Italia. L’imbarcazione della ong internazionale Sos Méditerranée (MsF) è poi approdata a Valencia, in Spagna.
La testimonianza
Dietro ogni volto c’è una storia da raccontare, ma anche tanti pregiudizi che solo la conoscenza delle reali vicissitudini vissute dai rifugiati può sfatare. Questa è la testimonianza di un giovane nigeriano di famiglia musulmana che – come un moderno Romeo scespiriano – è dovuto scappare dal suo Paese dopo le minacce di morte fattegli dai familiari per aver sposato una connazionale cristiana.
“Vivevo con la mia famiglia trasferitasi da Kaduna State in Benin City dove sono nato – racconta il giovane, che è voluto rimanere anonimo -. Mio padre aveva due mogli, mia madre era la seconda. La convivenza era difficile perché la prima moglie ci odiava e ci maltrattava sia per quanto riguardava il cibo sia per il vestiario. Inoltre, non potei continuare gli studi perché quella donna fece di tutto per far sì che mio padre non spendesse neanche più un soldo per me. Mia madre, invece, pur di assicurarmi la frequenza alla scuola primaria e secondaria, complessivamente 12 anni, è stata più volte maltrattata da lui. Obbligato ad abbandonare gli studi, ho deciso di imparare un lavoro: il riparatore di generatori. Mia madre invece ha divorziato e attualmente non vive più con mio padre a causa delle continue angherie e violenze in famiglia.
“Nel 2015 ho conosciuto la mia compagna a Benin City, grande città della Nigeria. Faceva la parrucchiera e proveniva da una famiglia trasferitasi dal Delta State. I suoi genitori non ebbero problemi ad accettarmi ed erano contenti di darci il loro sostegno per il futuro. Ma nella mia famiglia mio padre si oppose decisamente perchè la mia compagna è cristiana mentre io sono musulmano“.
“Finché sono vivo io – mi minacciò – tu non potrai, non dovrai e non ti permetterò mai di sposare una cristiana o una qualunque donna di un’altra religione; saresti il disonore e la vergogna di questa famiglia. “Io ero molto spaventato e così, sperando che si convincesse a lasciarci sposare, gli rivelai che aspettavamo un figlio, che io la amavo e che volevo diventare il padre del nostro bambino e costruirmi con lei una mia famiglia“.
“Ma mentre gli parlavo, mio padre ebbe un attacco di cuore, forse per la rabbia e anche perchè soffriva di pressione alta. Cadde a terra e l’altra moglie di mio padre (non mia madre) cominciò a gridare che l’avevo ucciso e chiamò immediatamente mio zio. Una volta in ospedale, la mia matrigna andava dicendo che avevo fatto qualche magia e che lo avevo avvelenato“.
“Mio padre guarì, ma mio zio e la prima moglie vennero da me e cominciarono a minacciarmi apertamente di morte: ‘Ecco quello che succede a mettersi insieme a certe persone! – dicevano -. Sappiamo bene di che razza è fatta questa gente. Certa gente non deve nascere più, non deve venire al mondo!. Io e mia moglie avevamo molta paura: sapevamo che non erano minacce a vuoto perchè mio zio e i suoi figli erano degli adepti e dei membri dell’Eye (una associazione criminale di matrice estremista) e non avrebbero esitato a ucciderci, anche per questioni ereditarie. Infatti, mia sorella si era sposata nel 2009 e quindi faceva parte di un’altra famiglia, ma io restavo l’altro figlio col quale spartire l’eredità una volta morto mio padre”.
“Spavenato, cercai un modo per fuggire dalla Nigeria salvando così la mia famiglia. Un conoscente, un nigerino, ci disse di andare con lui in Libia a lavorare. Io non sapevo niente riguardo alla Libia; mi parve, pertanto, un’ottima soluzione. Così, i primi giorni di novembre del 2015 pagammo il viaggio e insieme a lui attraversammo il deserto e arrivammo a Saba, in Libia. Ma appena arrivati i miliziani libici rapirono mia moglie e mi chiesero per lei un riscatto di 3mila dinari, circa 1.900 euro. In Libia infatti ci sono continuamente rapimenti, uccisioni di innocenti, ragazze vendute al racket della prostituzione, omicidi di cristiani e uomini trattati come schiavi. Dopo diversi giorni, riuscii a racimolare i soldi e lei venne liberata”.
“Per sopravvivere, io iniziai a lavorare in un cantiere. Mia moglie invece doveva restare sempre chiusa in casa, nonostante fosse incinta, perchè – essendo una donna sola e di colore – era troppo pericoloso per lei uscire. Era terrorizzata e traumatizzata. Forse proprio a causa della continua tensione, un giorno, mentre ero al lavoro, si è sentita male ed ha dovuto raggiungere l’ospedale da sola perchè non poteva chiamarmi: era vietato tenere un cellulare al cantiere. Ma al pronto soccorso, non appena videro che era africana, nonostante stesse male, la cacciarono via senza darle alcuna cura”.
“Il mio amico nigerino corse da me sul posto di lavoro a dirmi che non trovava più mia moglie. Io pregai il mio capo libico di accompagnarmi per cercarla. Infatti noi africani non potevamo girare da soli senza libici, altrimenti ci avrebbe arrestato la polizia o sequestrato qualche banda criminale. Dopo varie ricerche presso i vari ospedali, scoprimmo infatti che l’aveva presa la polizia e portata in prigione: eravamo arrivati troppo tardi. Il mio capo libico la cercò nei vari centri detentivi fino a quando non la trovò; lì contrattò per me il riscatto che pagai. E così riuscii a farla tornare a casa, ma inato lei aveva partorito in prigione, da sola, senza assistenza adeguata: era scioccata, distrutta da quell’inferno“.
“Per tali motivi decidemmo di lasciare la Libia. Aspettammo che il bambino fosse grande a sufficienza per affrontare il viaggio in mare e siamo arrivati in Italia nel maggio 2017. Ora convivo con la mia compagna e mio figlio in Italia, in una casa sicura dove il nostro bimbo può crescere serenamente. Io ho trovato un lavoro e ora possiamo pensare a costruirci un futuro sereno, dopo tanti anni di sofferenze. In Nigeria – conclude amaramente – non vorremmo più tornare perchè è un Paese violento e pericoloso“.
“Restiamo umani”
Ma anche in Italia c’è chi non considera l’arrivo di migranti e rifugiati un’invasione. Ne è un esempio l’iniziativa “Restiamo umani” organizzata a Reggio Calabria da una fitta rete di associazioni che operano da anni sul territorio.
L’evento apartitico che si svolge il 20 giugno ha come obiettivo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo che, quotidianamente, sono costretti a fuggire da guerra e violenza, lasciando i propri affetti e la propria casa. Le associazioni promotrici della manifestazione non sono solo quelle che si occupano di accoglienza, a testimonianza che il tema dei migranti è universale e coinvolge tutto il mondo civile.
Presenza in loco
Per rispondere in maniera concreta di fronte all’ingiustizia che investe le persone immigrate come il protagonista della testimonianza, la Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi ha attivato il Servizio Immigrazione che si fa promotore di iniziative e azioni concrete a favore di questi fratelli. Ma anche impegnandosi ad approfondire i meccanismi strutturali nazionali ed internazionali che ledono i diritti dei migranti e dei rifugiati, proponendo momenti di riflessione, formazione ed approfondimento sulle problematiche e emergenze internazionali mettendosi in rete con altri organismi nazionali ed internazionali, non-governativi e governativi.
Responsabile del servizio è Giovanni Fortugno che dal 2013 assicura una presenza continuativa durante gli sbarchi a Reggio Calabria, anche con il coinvolgimento di giovani volontari provenienti da altre regioni e monitoraggio della situazione dei minori migranti, per evitare traffici illeciti. Un atto concreto a favore degli ultimi che incarna il passo evangelico delle beatitudini: “Ero forestiero e mi avete ospitato”.
Fonte: Milena CASTIGLI | InTerris.it