Dobbiamo sapere che dire la verità è possibile e che dobbiamo fare tutti gli sforzi per farlo. Dobbiamo riprendere la nostra motivazione a dire le cose come stanno e a verificare ciò che gli altri dicono. Non è inutile, non è impossibile. È anzi qualcosa di basilare: è la base di ogni nostra interazione con gli altri esseri umani.
Si parla tanto, di questi tempi, di fake news. Se ne attribuisce la responsabilità al web e alla sua potenza nel far circolare informazioni e notizie senza che ci sia il tempo di verificarle adeguatamente. In più si sta diffondendo l’idea che una verifica, propriamente, non è necessaria. “Fatti” e “fattoidi”, notizie vere e discorsi verosimili, ma comunque falsi, finiscono per essere posti sullo stesso piano. Se accettiamo questa situazione ci troviamo a vivere, in maniera più o meno rassegnata, nell’epoca della cosiddetta “post-verità”.
Approfondiamo questa situazione. Non si tratta solo di trovare i modi per stabilire la verità riguardo a una notizia, per riconoscerla come tale (come notizia, cioè, e non come “bufala”). La questione ha radici più profonde. Essa riguarda la motivazione che possiamo avere nel cercare la verità. Ovvero, nel rapportarci in un certo modo alle cose che sono: prendendole sul serio, cercando di capire e di condividere ciò che sappiamo.
Sembra infatti che da tempo, ormai, questa motivazione – si potrebbe dire: questa “passione” per la verità – sia venuta a cadere. Alcuni alla verità ritengono di poter rinunciare: e tutto, così, si trasforma in narrazione (il cosiddetto “storytelling”, dove conta solo l’abilità nel raccontare). Altri sostengono che l’unico modo per conoscere le cose è quello dipendente dalla particolare prospettiva da cui uno le conosce: e che dunque, banalmente, un mondo condiviso è solo il frutto o dell’imporsi di una prospettiva sulle altre.
Se le cose stanno così, non sorprende che le fake news siano considerate qualcosa di certamente spiacevole, ma di fatto inevitabile. E, allora, cresce l’indifferenza nei confronti delle cose a cui abbiamo accesso, dal momento che possono essere allo stesso modo sia vere che false, a seconda di come le si guarda. Aumenta inoltre, e soprattutto, il disinteresse nei confronti delle persone che ne parlano, visto che esse sono portatrici di punti di vista tutti validi e tutti da porre sullo stesso piano.
Ne consegue che crediamo a tutto e a nulla, e che l’unica cosa che ci scuote, ormai, è solo qualche emozione.
Si verifica, infine, una situazione paradossale, su cui di rado si riflette.
Domandiamoci: che ne è della stessa nozione di “fake news” e dell’accusa rivolta a qualcuno si disseminare notizie false, sulla base di qualche suo interesse?
Molto spesso quest’accusa è fatta per motivi ideologici, non già perché si vuole ripristinare un rapporto vero con le cose. A chi rimprovero di dire il falso non chiedo, cioè, di darmi le prove del fatto che sta dicendo, invece, il vero, non discuto, non entro nel merito. Semplicemente riprendo uno slogan, taccio l’interlocutore di diffondere fake news: lui o qualcuno degli abili comunicatori a lui collegati.
Non credo sia difficile, considerando il dibattito pubblico al quale giornalmente assistiamo, trovare esempi in proposito. Ma ciò che ci scordiamo di chiedere, accontentandoci di assistere al ping pong di affermazioni e smentite, è invece qualcos’altro.
È semplicemente questo: è vera o è falsa l’accusa, rivolta a chi fa questo gioco, di dire il falso? È vero o è un fake il rimprovero di diffondere fake news?
Per porre seriamente questa domanda, tuttavia, dobbiamo recuperare
interesse per la verità.
Dobbiamo sapere che dire la verità è possibile e che dobbiamo fare tutti gli sforzi per farlo. Dobbiamo riprendere la nostra motivazione a dire le cose come stanno e a verificare ciò che gli altri dicono. Non è inutile, non è impossibile. È anzi qualcosa di basilare: è la base di ogni nostra interazione con gli altri esseri umani.
Fonte: Adriano FABBRI | AgenSir.it