Esseri che guardano il cielo. Venerdì notte milioni di persone in tutto il mondo hanno alzato gli occhi verso il prodigio naturale: l’arrossamento e l’eclissi della Luna. E le nostre colline, crinali, piazzole, campi, spiagge e luoghi oscuri si sono animati di gente con gli occhi verso l’alto.
Possiamo definire gli uomini del nostro tempo in tanti modi: confusi, globalizzati, migranti, meticci, scettici, impauriti. Oppure, come fan sociologi e economisti, dividerli in ricchi, poveri o così così. O come fanno certe religioni in fedeli e infedeli, in devoti e no. Ma forse la descrizione migliore di quel che siamo è quella vista l’altra sera: esseri che guardano il cielo.
Nella stessa postura umana, eretta e con un’incredibile possibilità di movimenti del collo, gli antropologi e gli artisti hanno ravvisato, a differenze di altre specie animali, il segno di una disposizione a osservare il cielo, contemplare. E se giustamente il modello darwiniano può darci alcune risposte sullo sviluppo fisico, su queste tendenze dell’animo a commuoversi per qualcosa di grande gli scienziati possono dire poco. Noi esseri che guardiamo il cielo lo facciamo da sempre. Lo si fa per scrutare le stelle durante un viaggio, sperduti su alture o tra le onde del mare.
Siamo esseri strani, a volte abbiamo guardato in cielo la direzione del volo degli uccelli per interpretare auspici e previsioni su ogni tipo di cose, guerre o fenomeni atmosferici. Oppure abbiamo guardato il cielo (lo faremo ancora tra pochi giorni) per sorprendere il segno di una stella cadente come invito a esprimere i desideri profondi e segreti del cuore.
Abbiamo, per millenni e ancora oggi, guardato il cielo cercando configurazioni astrali che dessero ragione di certe caratteristiche ai nuovi nati, a seconda della posizione al momento della nascita. Abbiamo guardato al cielo prima di tirare un rigore importante, o prima di entrare a sentire il responso di un esame o di un’analisi ospedaliera. Alziamo gli occhi al cielo quando con un figlio non sappiamo più da che parte prenderlo. E come l’antico salmista a volte alziamo gli occhi al cielo con una domanda che spacca il cuore dinanzi alle prove della vita: «Da dove mi verrà l’aiuto?».
Forse tra i milioni di persone che venerdì sera tra telescopi portatili, macchine fotografiche, birre, sbaciucchiamenti, battute e improvvisate lezioni di astronomia, hanno osservato il prodigio a testa in su, non molti pensavano ai versi di Leopardi – «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ silenziosa luna»… – o di altri poeti. Eppure questa strana domanda, apparentemente bizzarra perché chiede una risposta a un essere definendolo silenzioso, segna la nostra mente. Ed è dentro la curiosità che fa alzare gli occhi, per quanto confusamente.
Infatti non è certo una curiosità di natura scientifica che ha mosso ieri le folle. Ma il desiderio di assistere a una grande scena, il cui potere ci sovrasta e ci fa sentire parte di un luogo misterioso, vastissimo, potente. In cui abitare umanamente, cioè con curiosità umile e con domande vive, profonde. Domande che fanno alzare gli occhi al cielo. Come quella espressa dal grande poeta italiano, certe domande sembrano “assurde”, ma sono reali, presenti, e premono nella vita. Forse più che assurde sono inevitabili, radicate nel nostro essere, che risulterebbe infatti incomprensibile se non le considerasse.
Sì, saremmo del tutto incomprensibili se non alzassimo più gli occhi al cielo, come a una patria misteriosa da cui arrivano segni, notizie alla nostra misteriosa vita.
Fonte: Davide Rondoni | Avvenire.it