I Millennials, ovvero i ventenni-trentenni italiani, non sono pienamente nativi digitali, perché pur essendo social, non sono nati con la rete e i social network. Sono stati iniziati al loro uso durante l’infanzia, prendendo in prestito la dotazione tecnologica domestica, ancora rudimentale, dei loro genitori, mostrando, tuttavia, sin da subito una spiccata disinvoltura, una modalità di approcciarsi più libera e meno preoccupata, dettata dalla curiosità per le possibilità nuove, ancora inesplorate, disponibili nelle loro mani. Con un click sulla tastiera era possibile connettersi con il mondo ed esplorarlo, da casa propria.
Quello della comunicazione digitale è uno degli ambiti in cui le differenze generazionali sono più evidenti. L’atteggiamento degli adulti nei confronti delle nuove tecnologie della comunicazione è sempre stato cauto, preoccupato e impacciato. Sono interstiziali, un po’ dentro e un po’ fuori, affaticati dal non riuscire a stare al passo con una tecnologia spietatamente incomprensibile, astrusa, dove prima devi provare a capire come funziona e poi applicarti a lungo, meglio se assistito dai giovani. Gli adulti – che in letteratura definiamo digital immigrants – possono scegliere di affrontare lo scoglio, cimentandosi nell’impresa con coraggio e impegno, riaggiornando la patente di guida, da analogica a digitale, oppure ripiegare e aggirare l’ostacolo, conservando la loro vecchia patente, con la quale continueranno ugualmente a guidare, tuttavia in un territorio fisico più circoscritto e limitato. Questa seconda opzione non è indolore, in quanto alimenta la frustrazione e priva della possibilità di essere con gli altri su scala più ampia, in tutti quei ‘nuovi-luoghi’, come direbbe l’antropologo Marc Augé, alcuni dei quali ibridi, a metà strada tra il reale e il virtuale, che si sono generati proprio grazie alla rete e ai social network. Il fatto di essere dentro/fuori ha implicazioni sul benessere personale e relazionale, oltre che economico delle persone.
Di qui, allora, da un lato, la preoccupazione di recuperare e includere gli adulti quanto più possibile, ma anche provare a capire che uso ne fanno le giovani generazioni, a partire dai Millennials. Perché, a ben vedere, il fatto che gli adulti siano un passo indietro rispetto ai giovani rispetto alla comunicazione digitale è un problema degli adulti che ricade sui giovani, i quali sono esposti a una quantità ampia di stimoli che non sempre sanno gestire in autonomia; incontrano alcune buone opportunità, ma anche molti rischi. I Millennials, lasciati soli nella rete e nei social network, che esperienze fanno? Questa domanda ha spinto l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo a scendere in campo con due azioni di ricerca specifiche. Alla fine del 2016 è stata realizzata una prima indagine su giovani e social network su un campione rappresentativo a livello nazionale di 2.182 intervistati nati tra il 1982 e il 1997. Successivamente, nel 2017 è stato realizzato l’approfondimento internazionale EU Young Online, dedicato all’ostilità in rete, su un campione di 5.000 giovani 18-35enni di cinque diversi Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito). Entrambi gli approfondimenti sono stati curati da chi scrive assieme a Fabio Introini e pubblicati rispettivamente nei Rapporti Giovani 2017 e 2018.
Il primo dato riguarda l’accesso. Nella generazione dei Millennials il problema non è il digital divide, ma eventualmente quello che abbiamo definito social divide. Oltre il 90% ha un account attivo su Facebook, circa il 60% su Instagram, circa il 40% su Twitter e poco più del 20% su Linkedin. I social network non sono tutti uguali, sono luoghi con identità definite, in cui sappiamo che cosa troveremo, che cosa è possibile fare e che cosa meno. I social come Facebook e Instagram, a cui possiamo aggiungere sicuramente WhatsApp e YouTube, sono quelli che piacciono maggiormente ai giovani, soprattutto alle femmine, in cui si possono condividere foto, quindi emozioni, esperienze, più che informazioni. I social come Linkedin e Twitter sono percepiti come spazi da grandi, forse troppo ‘seri’, in cui più che emozionarti e divertirti al massimo puoi informarti e informare i tuoi followers, in cui devi presentarti agli altri con un profilo professionale, che a questa età non può che essere ancora abbozzato.
L’uso ludico è quello che i Millennials preferiscono. I sono considerati luoghi in cui è bene esserci per non essere esclusi, anche dagli stessi amici che si incontrano già offline. Ma che luoghi sono? il 71,8% considera i social network come ambienti altamente inaffidabili, in cui le notizie che circolano possono essere sia vere sia fake news, e le persone sia reali che troll. Infatti, il 13% è stato trollato. Nelle rappresentazioni dei giovani, anche chi trolla è mosso da finalità ludiche: è un passatempo come un altro (dice il 63%), ma anche un modo per essere visibili (per il 73%). L’86,7% degli intervistati è ‘molto/abbastanza’ d’accordo nel ritenere che i social network non vanno presi troppo sul serio, così come l’80,9% afferma che sono uno spazio dove si comunica per divertirsi ed evadere. Il considerare i social luoghi inaffidabili, da un lato giustifica e rinforza un loro uso ludico, dall’altro ha reso i giovani più cauti: il 53,2% afferma che ‘spesso/sempre’ prima di condividere un contenuto verifica la fonte. Altri rischi, più seri, caratterizzano la rete e i social. Ad esempio, si può essere tenuti a distanza e presi di mira per la propria nazionalità, per la lingua, per il colore della pelle, ma anche per l’aspetto fisico e la religione. I giovani italiani, così come i coetanei europei intervistati, sono consapevoli che l’hate speech, ovvero l’odio in rete, ha conseguenze sulla vita reale delle persone offese e i loro sentimenti nei confronti delle possibili vittime sono la rabbia, il disprezzo, la vergogna e la tristezza. Non restano indifferenti.
La rappresentazione, diffusa tra i Millennials, dei social come luoghi inaffidabili e ludici, li porta a non considerarli seriamente come luoghi dell’impegno, della partecipazione e dell’auto-promozione. Ma, essendo spazi così popolati e popolari tra i giovani, non possono e non possiamo lasciare che siano abitati in questo modo. Di una cosa sono certa, non basta esserci, i social raggiungono il massimo delle loro potenzialità quando vengono abitati, quando si apprendono le logiche e le regole, quando li si usa per fare rete, per generare capitale sociale composito. Quest’ultimo si alimenta sia di rapporti con le persone che conosciamo e frequentiamo nella vita reale – le relazioni di prossimità, di comunità, che Mark Granovetter chiama ‘legami forti’ – sia di ‘legami deboli’, di connessioni con persone che non conosciamo direttamente, che magari abbiamo incontrato una volta nella vita, di cui vagamente ricordiamo l’esistenza, ma che nella logica del networking possono risultare fondamentali per la risoluzione di alcuni nostri problemi, come, non da ultimo, trovare lavoro.
Se vogliamo che sia una risorsa per i giovani, è necessario che imparino a costruire la propria rete online: allargata ma al contempo protetta, potenzialmente affidabile e collaborativa. Il 59% lo ha già capito, perché ritiene che sui social sia più facile ottenere informazioni e contatti per la ricerca del lavoro, mentre ancora solo il 4,9% considera che, se fatto opportunamente, il privato può essere un’arma in più anche per rendersi appetibili a datori di lavoro. Da questo punto di vista, l’uso dei social network, per i Millennials, è ancora ‘a mezzo servizio’. Di qui il social divide, non più legato all’accesso ma al tipo di presenza. Le differenze più significative, in termini di impatto positivo sui corsi di vita, le si riscontra proprio tra chi li usa bene e chi li usa per gioco. I social non sono un gioco, al massimo un gioco serio.
Fonte: Cristina Pasqualini* | Avvenire.it
*Docente di Sociologia all’Università Cattolica, fra gli autori del Rapporto Giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori.