Lezioni e contraddizioni della crisi finanziaria. Etica e regole a 10 anni dalla bancarotta della maggior banca d’affari americana
Il 15 settembre del 2008 Lehman Brothers, la quarta maggiore banca d’affari americana, dichiara bancarotta soffocata da 619 miliardi di dollari di debiti. La Federal Reserve e il governo americano hanno tentato di trovare altre banche disposte a salvarla ma nessuno interviene perché nessuno è più in grado di dare un valore alle decine di miliardi di dollari di derivati che Lehman ha nel suo bilancio. È il momento più drammatico della grande crisi finanziaria: il crollo di Lehman rende evidente quanto sia stata enorme la diffusione nei bilanci delle banche di titoli ‘sintetici’ in cui erano impacchettati debiti di tutti i tipi, compresi i mutui subprime, prestiti immobiliari concessi a chi normalmente non avrebbe avuto i requisiti per ottenere credito. La bancarotta di Lehman è l’inizio del contagio: il sistema bancario internazionale si blocca nella sfiducia generale, costringendo i governi tra Europa e Stati Uniti a intervenire per salvare le banche. Nel giro di poche mesi la crisi finanziaria diventerà crisi dell’economia reale.
A dieci anni dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008) è possibile provare a riflettere sull’eredità della crisi finanziaria. Un evento che è sicuramente tra i più rilevanti del nuovo secolo non soltanto per i suoi effetti materiali quanto, e soprattutto, per i profondi mutamenti che ha indotto a livello culturale, sociale e politico. Secondo le autorità morali ma anche alcuni esponenti della comunità finanziaria, la via d’uscita obbligata implicherebbe una conversione culturale che deve fare riferimento a principi etici per porre un freno agli eccessi della finanza. Il Governatore della Banca d’Inghilterra è stato netto al riguardo: «per sostenere la loro legittimità, i mercati debbono non solo essere efficaci ma anche giusti (…) la finanza deve essere creduta. In poche parole c’è bisogno di un senso di comunità». Il punto è capire lo spazio e il ruolo che può essere svolto dal richiamo all’etica nel mondo della finanza. La crisi finanziaria ci fornisce tre lezioni.
La prima riguarda il raggio d’azione del richiamo all’etica. Secondo un’interpretazione ben condivisa, l’economia e la finanza sarebbero strumenti di per sé buoni che sarebbero tramutati in dannosi a causa dell’interesse egoistico dell’uomo. In sostanza, la finanza potrebbe essere redenta mettendo un limite alla remunerazione dei manager delle banche e favorendo forme di intermediazione finanziaria che non perseguono in modo univoco la massimizzazione del profitto. La realtà dei mercati finanziari ci mostra come questa strada non sia sempre percorribile in quanto da un lato i vincoli sulla remunerazione sono stati, e possono essere, facilmente elusi e dall’altro forme di organizzazione della finanza improntate esclusivamente alla gratuità non riescono a rispondere in toto alle esigenze di sviluppo di un’economia sempre più complessa e globalizzata.
La crisi finanziaria ci porta una seconda lezione importante. La finanza non è una tecnica buona di per sé o semplicemente neutra. Anche presupponendo la natura egoistica dell’uomo, c’è una finanza buona e una cattiva e la prima è sostanzialmente una finanza ben costruita. Ci sono aspetti tecnici che determinano la bontà della finanza, la crisi finanziaria lo ha mostrato in modo chiaro. Ad esempio, la vendita di obbligazioni bancarie in Italia e la stipula dei mutui subprime negli Stati Uniti sono avvenute nel pieno rispetto della norma ma gli individui nei fatti non sono stati tutelati. Le banche hanno potuto esercitare le loro attività con un basso livello di capitale anche grazie ad una normativa che non era sufficientemente stringente e hanno finito per assumere rischi in eccesso anche grazie alla garanzia che la banca non sarebbe stata lasciata fallire dallo Stato. Le più recenti innovazioni sul fronte dell’ingegneria finanziaria non sono state funzionali a gestire meglio i rischi, e quindi a perseguire il benessere della società, quanto a permettere profitti elevati agli intermediari finanziari.
In tutti questi casi la radice ultima del problema non risiederebbe tanto nell’egoismo dell’essere umano quanto in una regolazione non efficace. Se questa è la lezione da apprendere dobbiamo domandarci se le autorità di regolazione, che hanno messo mano alle regole dopo la crisi finanziaria, hanno dato delle risposte adeguate. La risposta è affermativa solo in parte. Ad esempio, la normativa a tutela del risparmiatore appare ancora troppo timida, il basso livello di educazione finanziaria della popolazione non è una ‘colpa’ e richiede maggiori tutele. La stretta sul capitale delle banche è stata notevole, le banche sono adesso molto più capitalizzate rispetto a prima della crisi, ma il processo di concentrazione continua con la costruzione di intermediari sempre più grandi che assumono rischi elevati. L’impressione è che si sia andati in continuità rispetto al passato ponendo soltanto delle toppe alle falle individuate dalla crisi. Scelte più coraggiose, quali ad esempio la possibilità di porre un limite alla dimensione delle banche e individuare un insieme di servizi bancari minimi meritevole di garanzia, lasciando gli altri nelle mani di intermediari ben capitalizzati, non sono state perseguite.
Una finanza ben costruita sarebbe già un bel passo avanti. Questo non esclude un ruolo dell’etica che deve essere complementare a una buona regolazione. Qui veniamo alla terza lezione. La finanza deve essere ‘creduta’ e questo chiama in causa la fiducia reciproca che è il fondamento per un efficace funzionamento dei mercati. La fiducia va oltre la correttezza dei comportamenti intesa nel senso del rispetto della norma e chiama in causa l’etica e la coscienza del singolo. Troppo spesso in finanza si pensa che sia corretto tutto ciò che non viola la norma in modo esplicito. Questo atteggiamento non è l’unico possibile. Del resto anche nel mondo del diritto si fa riferimento a principi (piuttosto che a regole stringenti) quali ad esempio quello del buon padre di famiglia che va oltre la correttezza e l’onestà, riguardando l’equilibrio, l’onore, la fedeltà, la generosità. Principi alti che debbono trovare spazio anche in finanza e che potrebbero portare all’emergere di comportamenti più positivi sul fronte etico.
Non ci sono regole chiare per far sì che la finanza sia creduta, ci si deve affidare alla capacità di discernimento del singolo. Il punto cruciale è riconoscere che vi sono dei limiti, recuperare un senso della misura, che c’è un livello di profitto e di remunerazione dei managers “sufficiente”, superato il quale c’è uno spazio per la gratuità. Questo permetterebbe di mettere da parte i comportamenti più aggressivi aprendo a un trattamento equo degli investitori o delle generazioni future evitando loro, ad esempio, di dover sopportare il fardello dei salvataggi bancari. Questa prospettiva apre la strada al perseguimento del bene comune, una strada che per essere battuta abbisogna di puntelli sul fronte normativo. Questo è forse il vero collo di bottiglia per il richiamo all’etica in finanza: riuscire a dare un volto al senso di comunità e al perseguimento del bene comune, permeando di loro le regole della finanza. Non facciamoci comunque troppe illusioni: l’etica in finanza riguarda e riguarderà in futuro sempre di più le decisioni dei singoli e la loro coscienza. Purtroppo non esistono, o almeno io non sono in grado di individuarle, ricette miracolose.
Fonte: Emilio BARUCCI | Avvenire.it