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«Non voglio la luna. Rivoglio la Terra, Susan e i miei figli»

C’è qualcosa di meravigliosamente poetico nel racconto brutale di Frank Borman. Il nocchiero dell’Apollo 8, che arrivato in orbita iniziò a bramare il cielo in una stanza

Appena messo piede a terra, in casa sua, non gli è neppure balenato per il cervello di raccontare alla sua famiglia com’era la luna. «Io ero lassù perché c’era la Guerra fredda. Volevo partecipare a questa avventura americana con un solo obiettivo: battere i dannati russi». C’è qualcosa di meravigliosamente onesto e poetico nel racconto brutale rilasciato dal novantenne Frank Borman a This American Life. Ex pilota dell’aeronautica militare in pensione, ingegnere aeronautico, collaudatore e astronauta della Nasa, Borman è il celebre comandante di Apollo 8, il nocchiero della prima nave spaziale dotata di equipaggio ad aver lasciato l’orbita terrestre, a raggiungere la luna, a orbitare attorno a essa e tornare indietro sulla Terra.

 

LA VIGILIA DI NATALE. Era il 21 dicembre 1968 quando Borman insieme a James Lovell e William Anders venne sparato in cielo: mentre orbitava attorno alla luna, gli americani lo ascoltarono in diretta leggere i versetti della Genesi: era la vigilia di Natale, «E Dio disse: “Le acque sotto il cielo siano radunate in un unico luogo, e appaia l’asciutto”. E così fu. E Dio chiamò la terra arida Terra; e il radunarsi delle acque lo chiamò Mari: e Dio vide che era buono”», recitava Borman. «E dall’equipaggio di Apollo 8, chiudiamo con buona notte, buona fortuna, un buon Natale – e Dio benedica tutti voi, tutti voi sulla buona Terra». Già la buona terra gli mancava.

«GRAZIE APOLLO, HAI SALVATO IL 1968». Quando fecero ritorno, schiantandosi nell’Oceano Pacifico settentrionale, il 27 dicembre di quell’anno, i tre astronauti finirono sulla copertina del Times come “Uomini dell’anno”. «Grazie Apollo, hai salvato il 1968» fu il testo di un telegramma ricevuto da Borman dopo la missione. Eppure a cinquant’anni da quegli eventi, oggi che il 2018 segna la data iniziale di una nuova corsa allo spazio globale, oggi che dal business dei viaggi privati alla conquista di Marte, dal mercato dei satelliti alla colonizzazione dei pianeti, dal sogno di una specie “multiplanetaria” alla brama di dominare il mondo, i “perché vogliamo volare” nello spazio non mancano, oggi questo anziano astronauta a chi gli chiede se avesse avuto rammarichi per aver abbandonato il lavoro subito dopo la missione, quando avrebbe potuto diventare uno dei primi uomini a camminare sulla luna, risponde schiettamente: «No. Perché? Non significava molto per me».

«UN MANTO DEVASTATO DAI CRATERI». Parlando dell’assenza di gravità commenta: «Forse è stato interessante i primi trenta secondi», poi lì, chiuso nella capsula, «tutto è diventato scontato». La luna era un manto devastato dai crateri delle meteore, «totalmente desolante», «uno spazio morto», non esisteva alcun colore, «solo tristi sfumature di grigio». È proprio lì, in quel limbo silenzioso e inospitale che ipnotizzava i compagni, che Borman aveva iniziato davvero a volere, a “desiderare la luna”, la sua luna, cioè la Terra, «è stata l’unica cosa che mi abbia commosso. Guardare indietro, vederla sopra la luna, minuscola, saperla abitata dai miei figli vivi, la mia famiglia viva in carne e ossa, è stato l’apice di tutto quello che abbia mai provato», il suo punto di fuga nei lunghi giorni in purgatorio.

LA CIOTOLA DEL CANE PIENA. «Amo la mia famiglia, la amo più di ogni altra cosa al mondo», ha detto Borman, «amo mia moglie Susan», malata di Alzheimer a cui l’ex nocchiero dell’Apollo dedica oggi ogni giorno della sua vita e che allora lo vide partire con i suoi figli piccoli, sul missile («quel fragore spaventoso: non dove essere stato bello per loro immaginare che il padre fosse là dentro»). Tornato, riuscì solo a spiegare loro quanto gli fossero mancati, chiedere come andasse la scuola, chiedere perché la ciotola del cane fosse ancora colma di cibo, «siamo tornati subito al nocciolo delle cose».

UN CUORE CARO, UN CUORE UMANO. E c’è qualcosa di meravigliosamente onesto e poetico nel desiderio di questo strano Caligola della terraferma, che proprio come l’imperatore di Camus nelle notti senza sonno (i sonniferi lassù non funzionavano) sembra avere incontrato nel chiarore dolce e splendido delle stelle il destino («non puoi immaginare che aria idiota che ha. E monotona» dice Caligola), e avere davvero iniziato a bramare il cielo: quello che alberga da sempre in una stanza, nello scampolo di un cuore caro, un cuore umano.

Fonte: Tempi.it

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