Lorefice: il cristiano è chiamato a incidere nella società riscattandola dal male
«Il Papa è felice di venire a Palermo. Porrà un altro snodo dell’itinerario che sta disegnando nella Chiesa italiana, dalle Alpi alla Sicilia, da Mazzolari a Puglisi, passando da don Milani, don Zeno, don Tonino Bello; una richiesta forte di Vangelo, con tutto quello che comporta. A noi il compito di recepire tutta la grazia umana e spirituale contenuta in questa visita apostolica». L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, offre la sua lettura dell’arrivo domani di papa Francesco «come pellegrino sui luoghi del martirio di don Pino Puglisi, un testimone che ha effuso il suo sangue in nome di Cristo in questa amata e martoriata Sicilia». Ma restituisce anche un personale ricordo del sacerdote ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, conosciuto alla fine degli anni Ottanta al Centro regionale vocazioni che don Pino guidava.
Che cosa la colpì di padre Puglisi?
Il sorriso che attraversa tutta la sua vita, come si vede dalle fotografie, che è dolcezza e tenerezza. Questo fu il primo impatto, quando Agostina Ajello (collaboratrice di don Puglisi al Centro regionale vocazioni, ndr) mi presentò a lui alla Perla Jonica, durante un convegno, come nuovo direttore del centro diocesano vocazioni di Noto. Avevo 26 anni. Fino al 1990 abbiamo avuto modo di ritrovarci per tanti incontri periodici e lui mi ha offerto sempre la sua amicizia con sobrietà. Mi porto dentro l’autenticità di un uomo capace di fare diventare la sua umanità sacramento di Cristo, quindi un vero prete. Perché un prete si vede dalla sua umanità, se uno è mite e semplice, assomiglia a Gesù il buon pastore.
Che cosa significò per lei l’assassinio di don Pino?
Quando seppi che avevano ucciso un sacerdote a Palermo, non pensai minimamente che potesse trattarsi di don Pino, anche se lui ci aveva detto, lasciando il Centro regionale vocazioni, che il cardinale Salvatore Pappalardo lo aveva inviato a Brancaccio, in una parrocchia “molto esigente”. Poi provai un grande sgomento, ma contemporaneamente è come se fosse venuta fuori in tutta la sua chiarezza la struttura di un uomo che è capace della mitezza evangelica, quella che rende un inerme audace nella testimonianza, fino a sapere offrire la vita. Quel “me l’aspettavo” pronunciato al suo assassino è significativo, come Gesù che, dice il Vangelo, a un certo punto indurì il suo volto e si diresse verso Gerusalemme, pur consapevole dell’ostilità da parte del potere religioso e di quello politico’.
Che cosa dice don Puglisi, 25 anni dopo, a questa Chiesa e a questa terra?
Le città degli uomini e le comunità cristiane hanno bisogno di uomini e donne che abbiano un primo ingrediente essenziale, un’umanità bella, serena, che sa affrontare le varie fasi della crescita. Don Pino in questo era motivato dal Vangelo che prima di essere un codice di norme è una persona, Gesù di Nazaret. La città ha sempre più bisogno di cristiani che abbiano una relazione vera con Gesù, che siano stati fecondati dal Vangelo. Se ricordiamo don Pino, è essenzialmente per questo. Gli ultimi anni della sua vita lo vediamo presente a Brancaccio, ma la sua grandezza è l’esito di tutta una vita, un cammino progressivo, un lavorio vero, sincero, audace, con una coerenza interiore della Parola rispetto ai gesti e ai fatti. Penso che la cifra che sintetizza il suo messaggio è educatore, nel senso più bello del termine, la gioia di avere scoperto il senso della vita e condividerlo con gli altri. La vita è essenzialmente relazione. Se falliamo la relazione, falliamo la vita. Oggi siamo chiamati a tessere relazioni con tutti, perché ognuno possa esprimere al meglio le potenzialità dell’identità che porta.
La sua morte dimostra che chi mette in pratica il Vangelo dà fastidio a chi ha altre leggi e regole a cui attenersi, come la mafia. Quale peso ha la coerenza delle proprie azioni per un cristiano?
Il cristiano, se segue Gesù, non può che essere colui che sta nel mondo riscattandolo dal male, dall’ingiustizia. Non è don Pino che ha una sensibilità sociale. La ricaduta sociale del Vangelo è insita al Vangelo stesso. Don Pino ha conosciuto il ’68 e, forse aiutato dal Concilio, ha capito che la storia è un’altra pagina di Vangelo che bisogna ascoltare. Chi segue la via di Gesù non è mai neutrale. Quando quest’anno, nel discorso alla città in occasione del Festino di santa Rosalia, ho detto “Io non posso restare in silenzio” (davanti all’urgenza dell’accoglienza di chi attraversa il Mediterraneo, ndr), mi è arrivata una bella lettera di un giovane. «Io sono ateo – scriveva – ma tu sei vescovo e devi annunciare il Vangelo». Il Vangelo non ci lascia mai neutrali. Si attira l’odio di chi vuole mantenere un potere sugli altri uomini. Don Pino è stato vero discepolo di Gesù, coerente con il suo Signore. Per questo la mafia lo ha temuto e lo ha ucciso, perché non c’è potere più grande di questo: quando il cristiano fa sul serio con il Vangelo, incide necessariamente nella città degli uomini.