Sgombero subito il campo da questioni retoriche: Alex Zanardi, per me, è un eroe. Mi piace da impazzire. Lo ammiro per il suo modo di stare al mondo. È una forza della natura: lo ascolti e ti convinci che tutto sia possibile, realizzabile, ti insegna come la tenacia possa diventare un tratto del proprio carattere allenabile, come i bicipiti o gli addominali. È un esempio per milioni di persone, e non solo per coloro che hanno avuto un incidente. Anzi. Il suo essere atleta è motivo di ispirazione soprattutto per tutti coloro che, fra noi, hanno avuto come unico dramma quello di essere cascati nelle sabbie mobili delle nostre zone di confort.
La storia di Alex Zanardi è nota, ma è sempre meglio ricordarne qualche passaggio fondamentale. Classe 1966, pilota automobilistico per tanti anni (vanta anche 44 Gran Premi disputati in Formula1) il 15 settembre 2001, sul circuito del Lausitzring, in Germania, in una gara del campionato Cart, viene coinvolto in un terrificante incidente. Entrambi i suoi arti inferiori vengono tranciati di netto. Perde una quantità inaudita di sangue, riceve l’estrema unzione lì in pista (la leggenda, che è solo tale, dice con l’olio del motore della sua autovettura) dal cappellano al seguito della corsa. Viene caricato senza troppe speranze su un elicottero e trasportato a Berlino. Dopo sei settimane è già fuori dall’ospedale, ma è un trentacinquenne pilota senza gambe che qualcuno sosteneva, già prima dell’incidente, essere sulla via del tramonto. Ci sarebbero tutte le condizioni per lasciarsi andare alla disperazione. Tuttavia, secondo il principio per il quale capiamo quanto siamo forti solo quando essere forti è l’unica opzione che ci rimane, Zanardi scopre qualcosa di se stesso che forse neanche lui immaginava. Dice, ripensando a quei giorni: «Mi ritrovavo a pensare più alla metà che era rimasta che a quella che non c’era più». Incomincia così, con una scelta di fondo sulle priorità, la sua personalissima strada verso quello che (ripeto senza timore di retorica) è il miglior esempio di eroismo sportivo che io conosca. Ritorna all’automobilismo e nel 2003 con un gesto simbolico straordinario, si presenta al Lausitzring per percorrere gli ultimi tredici giri di pista che gli erano rimasti da fare, il giorno dell’incidente. Li fa a una velocità che gli varrebbe la quinta posizione assoluta se fosse stato iscritto a quel campionato, ma ormai l’automobilismo non gli basta più.
Alex si avvicina al mondo del paraciclismo e con la sua handbike, vince le Maratone di New York e di Roma battendo record su record. Ai Giochi Paralimpici di Londra, a 46 anni, vince due ori e un argento, dichiarando: «Ho imparato dalla vita che tutto, anche quello che siamo costretti ad affrontare, può essere trasformato in una passione». Chi lo ascolta, ed è abituato a ripetersi lamentosamente che è impossibile far diventare passione magari proprio quel lavoro che non si è scelto e che annoia così tanto, inizia a vacillare. Ai Giochi di Rio, Alex si ripete. Altri due ori e un argento. Tuttavia, se avete compreso il tipo con cui abbiamo a che fare, anche questo non gli basta più.
Al ritorno da Rio, Alex spegne cinquanta candeline. Fermarsi? Non esattamente. Si appassiona all’Ironman, la prova sportiva più dura immaginabile: si nuota per 3.800 metri, si corre in bicicletta per 180 chilometri e infine si corrono i 42.125 metri della Maratona. Tutto di seguito. Alex si allena per restare sotto le 9 ore nell’Ironman più affascinante del mondo: quello che si disputa a Kona, alle isole Hawaii. Non ci riesce, per pochi minuti. Fermarsi? Non esattamente. A Barcellona, un anno dopo, riesce nell’impresa: 8 ore 58 minuti e 59 secondi. Fermarsi? Non esattamente. Alex si allena sempre di più fino a domenica scorsa, a Cervia. Nel suo ennesimo Ironman, spinto da un’energia che a questo punto sembra inesauribile, batte il suo record. Di oltre mezz’ora.
Fermarsi? No Alex, non fermarti più. Qualunque cosa tu faccia, promettiamo che non ci interesserà più guardare il cronometro, ma tu non fermarti. Che sia con un gesto fisico o intellettuale, non privarci di questo incredibile regalo che stai facendo a tutti noi. In mezzo a tanti pseudo-atleti che vivono di atteggiamenti, di esagerazioni, di isterismi tu continua a ispirarci e a dimostrarci che a rendere grande un uomo non è il numero degli arti che ha a disposizione, il numero di centimetri che salta o di secondi in cui percorre una distanza, ma, piuttosto, la grandezza del muscolo che gli batte dentro al petto.
Fonte: Mauro Berruto | Avvenire.it