Un uomo seduto su una spiaggia fissa il mare, le sue spalle possenti sussultano come quelle di un bambino: è in lacrime. I suoi occhi sempre accesi sono ora offuscati. Così compare per la prima volta, nel poema a lui dedicato, Ulisse. L’eroe è spezzato dalla «mancanza»: «passava la dolce vita piangendo il ritorno». È a Ogigia, isola sperduta e paradisiaca, dove è naufragato di ritorno da Troia. Qui lo trattiene da sette anni la dea Calipso, che gli ha promesso l’immortalità se rimarrà con lei. Ulisse ha tutto, benessere e devozione, eppure la «mancanza» non gli dà pace. Calipso gli dice la verità: «Se tu sapessi quanti dolori ti è destino patire prima di giungere in patria,/qui resteresti con me…/e saresti immortale, benché tu voglia vedere/tua moglie, che ogni giorno desideri./Eppure mi vanto di non essere inferiore a lei». Ma la risposta di Ulisse è netta: «Lo so bene anche io/che Penelope/a vederla è inferiore a te per beltà e statura:/lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia./Ma anche così desidero e voglio ogni giorno/giungere a casa e vedere il dì del ritorno». Il ritorno è salvezza. E per noi?
Nostos: è questa la parola con cui l’eroe indica il ritorno. Se ne servì un medico nel XVII secolo per descrivere la sofferenza che spingeva i soldati svizzeri a disertare dopo aver ascoltato i canti della propria terra lontana. Unì a nostos la parola per indicare il dolore, algos, coniando così un termine che indicava il dolore del ritorno: nostalgia. Attribuire questo sentimento a Ulisse rischia però di essere fuorviante. Egli, infatti, non rimpiange la patria mentre è in guerra, come i soldati svizzeri, ma si sente privato della sua dimensione eroica: sarà proprio il ritorno a Itaca che farà di lui un eroe e lo renderà immortale, benché a Ogigia una certa «immortalità» gli sia messa a disposizione, indisturbatamente e senza sforzi. Ulisse vuole uscire dal «dolce isolamento» di Ogigia, per raggiungere l’isola in cui c’è la vita vera: quella mortale. La scelta della mortalità è la vera scelta eroica, perché Ulisse vuole raggiungere l’immortalità attraverso la mortalità, abbraccia la rischiosa fragilità della vita, perché proprio il limite, accettato e scelto consapevolmente, lo rende «eroe», parola che originariamente significava semplicemente «uomo». Penelope non è bella come Calipso ed è più avanti negli anni, ma Ulisse ha scelto lei. Itaca è povera rispetto all’incantevole Ogigia, ma Ulisse ha scelto Itaca. Quello di Ulisse è un vero e proprio «ritorno al futuro», perché Penelope, Itaca e tutto il resto, diventano immortali proprio perché l’eroe lotta per loro. Ulisse è l’eroe del «ritorno», una parola antichissima che viene dal lavoro dell’artigiano al «torno» (oggi tornio): egli imprimeva un moto rotatorio al piatto su cui era posto l’oggetto da fare. L’aggiunta del ri- indica ripetizione, ma non dell’uguale: chi lavora al tornio, a ogni giro, perfeziona l’opera. È la stessa logica del termine ricerca: «circa» vuol dire (per l’appunto) «intorno», ricercare è continuare a girare intorno a qualcosa per scovarne con sempre maggior precisione la verità. La «mancanza» di Itaca non è regressiva, ma progressiva: Itaca non è già fatta, ma da fare, è un progetto. La fedeltà dell’eroe è ciò che rende Itaca Itaca e Ulisse Ulisse. Per avere l’immortalità egli non sceglie la vita breve ma gloriosa nel ricordo altrui, come Achille, o la dolce infinita longevità con Calipso, ma sceglie un’arrischiata vita mortale. Non c’è futuro senza fedeltà alla mortalità.
Così si comprende perché le promesse di «futuro felice», le «futorologie» (ideologie di futuro), spesso siano solo utopie, magari violente: non emerge futuro se non a partire da un’azione accrescitiva del pre-sente (letteralmente: la vita che ho di fronte) e non dall’imposizione di una formula alla realtà. Solo la manutenzione del presente forma il futuro, perché l’esistenza fiorisce grazie all’affermazione del possibile, che poi non è altro che amare. «Ritornare» è porre la materia della vita sul tornio e perfezionarla con impegno creativo. Ogni giorno (un giro di 24 ore) la madre ritorna al piccolo, il marito alla moglie, il pittore alla tela, il giardiniere al seme: gli artigiani del presente esigono da se stessi, i futurologi dagli altri, i primi servono, i secondi impongono.
La parola «futuro» richiede immaginazione e non violenza, deriva infatti da una forma latina del verbo essere che indicava semplicemente «ciò che sta per essere». Ma sta per essere, cioè raggiungere la sua pienezza, solo ciò che al presente contiene tale premessa: il seme è la premessa del frutto, il lavoro dell’uomo la sua promessa. Le futorologie non amano ciò che sta per essere, non hanno rispetto del tempo, non si mettono al servizio della vita presente e fragile, preferiscono imporre il dover essere. Ma il futuro smette di aprirsi se non è conseguenza della cura di ciò che è già dato. Il futuro è fedeltà al presente, perché la vita non evolve a salti e rivoluzioni, ma a passi lenti e a spirale, cioè a ritorni. Itaca è il «futuro anteriore» di Ulisse, perché è sì alle sue spalle, ma è tutta da fare, è una premessa che richiede una promessa di fedeltà. A cosa? Alla mortalità. Ulisse «fa» Itaca perché all’immortale Calipso preferisce la mortale Penelope. Ulisse «fa» Itaca perché agli sterili agi di Ogigia preferisce dare un’eredità al figlio Telemaco. Ulisse «fa» Itaca perché a una vita senza legami preferisce l’anziano padre Laerte. Ulisse «fa» Itaca perché «ritorna», la sua «nostalgia» non serve a imporre un passato morto, ma a portare a compimento un presente ancora fragile e incerto: torna infatti da mendicante e non da re. Ritornare è portare a compimento: la fedeltà è il «tornio» che perfeziona la vita e noi gli artigiani del presente. Dante inventò il verbo «infuturarsi», riferendosi proprio alla vita umana che si allunga quando l’azione nasce dalla fedeltà al bene da fare qui e ora: un seme s’infutura grazie al lavoro ben fatto del giardiniere, uno studente grazie a quello dell’insegnante… La fedeltà non è, come si crede, la rigida e noiosa permanenza in un ruolo, ma è il laborioso entusiasmo di chi accoglie la vita, continuando a perfezionarla creativamente. «Fedele» infatti viene da una radice che indica il «legame»: chi è schiavo subisce vincoli soffocanti, chi è fedele sviluppa legami liberanti con le persone e le cose presenti nelle sue 24 ore.
Nella mia scena preferita di 8 e ½ di Fellini, Guido (Marcello Mastroianni), un regista che deve girare un film ma è in crisi, chiacchiera in una notte quasi mistica con Claudia (Cardinale), scelta da lui come protagonista. Guido, ragionando sulla trama, in realta le parla di sé stesso: «Tu saresti capace di essere fedele a una cosa, a una cosa sola e farne la ragione della tua vita? Una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto, proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Ne saresti capace?». Lei: «E tu ne saresti capace?». E lui, fingendo di riferirsi al protagonista del film, risponde: «No, questo tipo vuole arraffare tutto, non sa rinunciare a niente…». Allora lei lo inchioda: «Un tipo cosi, che non vuol bene a nessuno, non fa mica tanta pena. È colpa sua. Che cosa pretende dagli altri? Incontra la ragazza che lo può far rinascere, ma la rifiuta». Lui: «Perché non ci crede più». Lei: «Perché non sa voler bene». Claudia mette a nudo la crisi di Guido: non ha futuro perché ha smesso di essere fedele alla vita, servirla. Non ha nessuno a cui ritornare, si è ridotto ad arraffare tutto: non sa più amare. La consistenza del futuro di un uomo dipende da quanto sa amare (a chi o cosa sei fedele?), tutto il resto passa, come scriveva Ezra Pound: «Cio che sai amare rimane, il resto e scoria/Cio che tu sai amare non sarà strappato da te/Cio che tu sai amare è il tuo vero retaggio», versi che ho riscoperto grazie al bel libro di Alessandro Rivali, dedicato al poeta e non a caso intitolato Ho cercato di scrivere paradiso.
Le futorologie impongono la loro idea di bene con la forza, l’artigiano del futuro invece rende servizio alla vita così com’è, fragile, sporca, possibile, difettosa: mortale. Ulisse è un eroe perché si mette al servizio di Penelope, sceglie ciò che è mortale e lo rende immortale con la sua fedeltà: per questo ci affascina. C’è un eroismo del quotidiano alla nostra portata, che apre il futuro, e consiste nel curare i legami con cosa e chi ci viene affidato, accrescendone la vita, come possiamo. Come il Guido di Fellini aspiriamo a una fedeltà tale da rendere infinito ciò che amiamo, ma essendo finiti quello che possiamo provare a fare è «infuturare» la vita: abbracciare la nostra e altrui mortalità per scoprire che è aperta verso un «per sempre» per il quale le forze umane però non bastano. Ricorderete tutti che Ulisse, alla fine del viaggio, si fa riconoscere da Penelope parlandole del loro letto costruito sulla radice di un albero, solo loro due sanno questo segreto. Questo è il letto da rifare oggi, costruire Itaca attorno al suo centro, una radice che, fedelmente lavorata, diventa, per l’appunto, letto, legami, casa, isola, ritorno, poema: solo così la nostalgia che ci coglie quando siamo soli, con lacrime evidenti o trattenute, potrà segnalarci che siamo diventati infedeli alla vita. È ora di ritornare al futuro: amare
Fonte: Corriere.it