Quando comincio il mio lavoro con una nuova classe chiedo ai ragazzi di compilare un questionario con domande che aiutino a esplorare la propria storia in un abbozzo di biografia: e questo perché ci si possiede davvero solo nella riflessione e nel racconto. Chiedo per esempio la loro paura più grande, il motto che li rappresenta, la persona che ammirano di più o cercano di imitare, il film/canzone/libro/serie-tv preferiti… e poi una delle richieste più difficili: definirsi con tre aggettivi. Di anno in anno ripropongo lo stesso questionario, così da farmi un’idea dello sviluppo dei ragazzi che, grazie alla continuità didattica, ho la fortuna di seguire per cinque anni. Alla fine del percorso ho così una «radiografia interiore» di ognuno di loro. Ho notato che, con il passare degli anni, la presentazione di sé si «purifica» e si riducono gli elementi effimeri e le maschere. Ma, giustamente, nessuno di noi scrive nella propria bio da social ciò che ci rende fragili: la nostra paura più grande, il dolore che ci ha cambiati, il fallimento che ci ha atterrati, la solitudine che ci afferra alla gola. Per questo poi ricevo tante lettere private di persone che, pur avendo profili sgargianti, mi dicono di non sapere con chi confidarsi. La rappresentazione dell’ego, nei contesti digitali o reali, ci mantiene nei canoni di una sincerità promozionale, ma raramente del tutto autentica. Se la vita però non coincide con il racconto che ne facciamo, che cosa diventa? Che significa essere autentici?
La vita è il racconto che ne facciamo, non abbiamo altro modo di definirci: la parola «io» richiede una narrazione, perché la nostra identità è una storia con un protagonista in cerca del suo autore. Ma raccontandola possiamo anche mentire a noi stessi e agli altri: «tu te la racconti» diciamo infatti a chi falsa la realtà. Come fare a raggiungere la verità del racconto su noi stessi senza perderci nelle maschere che indossiamo sulla scena sociale? Dobbiamo cogliere che cosa è veramente autentico nella nostra vita e farvi aderire il racconto, preoccupandoci meno di «salvare la faccia(ta)». Dentro la vita «naturale» con i suoi ritmi e i suoi tempi determinati dalla biologia, c’è una vita che si solleva su quella biologica anche se le appartiene, potremmo chiamarla: vita «ulteriore». La nostra biografia riguarda per lo più questa vita, non si identifica cioè con la nostra biologia, anche se non può prescinderne. La nostra bio-grafia supera la nostra crono-grafia: raccontarsi è selezionare le scene, non elencare i minuti dalla nascita a oggi. È cinema non un servizio di cronaca.
Per questo propongo ai miei studenti alcuni esercizi di scrittura auto-biografica, per provare a contattare l’io autentico attraverso la narrazione. Mi presento come un famoso editore che ha deciso di pubblicare la loro biografia, ma voglio che mi diano in pochi minuti l’indice del libro. Devono quindi stilare i capitoli della loro vita dando a ciascuno di essi un titolo e poi inventarne uno per l’opera intera. Si buttano a capofitto sul foglio e scoprono di aver vissuto pochissimo o moltissimo, a prescindere dalla loro età. Dopo chiedo a ciascuno di leggere ad alta voce i titoli dei capitoli e se vogliono di entrare un po’ più nel dettaglio. L’attenzione di tutti si attiva, perché quando la vita nuda emerge è sempre interessante e crea empatia tra chi racconta e chi ascolta. Per essere accettati non c’è sempre bisogno di una vita straordinaria, come a volte siamo portati a credere. «Originale» può voler dire semplicemente «fedele all’origine», non solo «eccentrico» (letteralmente «fuori dal centro»). Kierkegaard, a questo proposito, ha scritto parole decisive: «Il vero uomo straordinario è il vero uomo comune. Quanto più l’individuo sa realizzare nella sua vita ciò che è comune al genere umano, tanto più egli sarà straordinario. Quanto meno di quest’universale egli sa cogliere in sé, tanto più sarà imperfetto, e dunque sarà certo straordinario, ma non in senso buono…», anzi, in quanto eccezione, entrerà in conflitto con l’esistenza, il personaggio soffocherà la persona e le maschere provocheranno al volto dolori laceranti. Ogni storia umana è invece originale nella misura in cui vive e realizza l’universale. E che cosa è l’universale, che cosa è comune a tutti e può fare della nostra una vita ordinariamente straordinaria?
I ragazzi si stupiscono quando sostengo che il loro regista interiore, la memoria, avrà sicuramente suddiviso i capitoli della loro biografia in tre tempi intrecciati: i momenti in cui hanno profondamente amato e sono stati amati, quelli in cui hanno sofferto, quelli in cui hanno fatto scelte e scoperte decisive. Sparisce quindi quasi tutto ciò che riguarda la rappresentazione funzionale al consenso sociale, al ruolo, ed emerge ciò che definisce il segreto della persona e quindi del racconto: l’amore dato e ricevuto; il male subito o compiuto; le scelte e scoperte che hanno impegnato la libertà. Insomma sembra che la vita autentica sia una trilogia: di amore, quanto posso dirmi amato e capace di amare; di dolore, quanto so accettare e affrontare paure, fallimenti, ostacoli, senza rimuoverli ma trasformandoli in occasioni; di esplorazione e impegno, per cosa e chi vale la pena vivere. Queste tre forze aprono il guscio del cosiddetto «tempo orizzontale» degli orologi e vi fanno germogliare il «tempo verticale»: la vita ulteriore o autentica. Questa è la vita che sta dentro la vita, la biografia che emerge dalla biologia, il retroscena che non si fa inghiottire dalla scena: le maschere cadono e si va in scena a viso scoperto. L’autenticità non è la presunta e faticosissima eccezionalità che cerchiamo di dimostrare attraverso la chiassosa «affermazione ed espressione di sé». Quanta arte è in-significante perché è segno che indirizza all’ego, al «personaggio», e non rivela la «persona», ciò che si ha in comune con gli altri. Dante inaugurava il poema così: «Nel mezzo del cammino di “nostra” vita, mi ritrovai»: il suo viaggio riguarda tutti. I veri artisti, e fra questi annovero insegnanti ed educatori, sono funzionari di ciò che è umano nell’uomo e non dell’ego, del potere, delle ideologie. La nostra vera biografia ci apre e accomuna agli altri, ce li fa scoprire amici nelle ferite, nelle scelte, nel bisogno di amore, come se fossero nostri. A renderci straordinari è ciò che abbiamo in comune e cerchiamo, come possiamo, di coltivare in noi e negli altri. Tutto il resto non basta a «fare una vita». Solo la vita autentica «fa» la vita: la persona vive e cresce quando ama ed è amata, quando soffre e non fugge, quando cerca e sceglie di impegnarsi per ciò che ha valore. Nell’uomo autentico persona e personaggio coincidono: i ruoli che vorrà assumere arricchiranno la sua vita, non la disintegreranno. Egli li interpreterà con naturalezza, senza esserne inghiottito o doversene disintossicare, perché sa essere fedele a se stesso, non è ipocrita, la parola che in greco indicava proprio l’attore.
Il letto da rifare oggi è scrivere i capitoli della propria biografia e darle un titolo. Se la nostra vita ha smesso di essere straordinaria, è perché abbiamo cominciato a mentire a noi stessi e a raccontarla come si aspettano gli altri. Abbiamo smarrito l’io autentico, vivo ed empatico, inseguendo l’io promozionale, non a caso definito «cool», cioè freddo e distante. Ma a volte basta una penna e un po’ di silenzio per spezzare il gelo delle maschere e ritrovare il coraggio, il calore e la bellezza della vita nuda.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it