«Ho bisogno di silenzio!». Quante volte lo abbiamo gridato in una giornata caotica… Momenti in cui il silenzio ci manca come l’ossigeno ai polmoni e ci sembra la cura più efficace contro tensione e stress. Eppure, se la sola prospettiva di una spazio muto può farci sentir meglio in quei frangenti, nel silenzio assoluto non resisteremmo per più di pochi secondi. Accade nelle camere anecoiche (cioè «senza eco»): ne esistono diverse nel mondo, utilizzate dalle aziende a scopi sperimentali. Stanze totalmente insonorizzate: più di una sala d’incisione o di una cabina di doppiaggio (se siete entrati in uno di questi luoghi avrete avvertito subito una straniante sensazione di peso nelle orecchie). Qui il 99,99% dei rumori sono eliminati: vari strati di pannelli fonoassorbenti e tecnologie all’avanguardia divorano i suoni e ne annullano la riflessione sulle pareti. Chiusa la porta si diventa l’unico «rumore»: il cuore pompa, le articolazioni scricchiolano, i liquidi gorgogliano. Il vero e proprio «silenzio assordante» dal quale, nella maggioranza dei casi, si scappa in preda a claustrofobia, nausea, panico, allucinazioni uditive. Che silenzio è allora quello che invochiamo? Non il silenzio assoluto, ma relativo: il silenzio curante.
«La ringrazio per avermi ascoltato, mi basta sapere che ha letto, perché già aver scritto queste cose mi ha aiutato a chiarirle e averne meno paura». Molte delle lettere che ricevo terminano così, a riprova del fatto che confidarsi è conversare con se stessi prima che con un altro. «E prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue parole, prima di proferirle»: ricorderete nel capitolo finale dei Promessi Sposi questa descrizione di ciò che Renzo Tramaglino ha imparato dopo tante peripezie. Il ragazzo ingenuo e impulsivo, dedito a mettersi sempre nei guai, ora «sa ascoltarsi»: è la meta del suo viaggio di formazione. Ciò vale anche per noi, ma oggi questa capacità è minacciata proprio dalla mancanza di silenzio «relazionale». Quel silenzio che si traduce nella capacità interiore di trovare la propria voce separandola da «Le voci del mondo», titolo del bellissimo e malinconico libro di Robert Schneider, in cui il protagonista ha un orecchio «totale», che gli permette di distinguere persino i battiti del cuore altrui e così anche quelli della donna che amerà. Per ritrovare l’udito provate a girare senza auricolari prestando l’orecchio al mondo: all’inizio sarete frastornati da ciò che la musica copriva, ma poi comincerete a «sentire». Dopo qualche giorno ricorderete meglio cose e persone, perché avrete semplicemente ascoltato il rumore della vita attivando l’ippocampo, la parte del cervello adibita a emozioni, memoria e percezione spaziale. Sono molti gli studi a mostrare che, per essere più perspicaci, basta un’ora di silenzio al giorno. Perché? Iniziate con mezz’ora, privi di strumenti, prestando ora l’udito ai suoni di dentro. All’inizio vi sentirete in mezzo a una folla di voci strepitanti che sembrano le più urgenti da ascoltare, ma se avrete pazienza entrerete dove scaturisce la vostra voce autentica: la stanza del silenzio. È proprio in questa stanza interiore che impariamo a distinguere e ordinare le voci del mondo e trovare la nostra. Non si tratta di un monologo intro-spettivo, parola che significa sguardo interiore, come specchiarsi (riflettere appunto), ma di un vero e proprio dialogo: «conversazione interiore». Con chi?
La stanza del silenzio permette a quello che potremmo chiamare «io del proprio io» di ascoltare tutte le voci che riceviamo e vogliono imporsi come fossero la nostra, per capire se sono compatibili con la nostra felicità. Alcune persone non si capisce chi siano, che cosa stia loro a cuore, perché la loro conversazione interiore è bloccata o in balia di mille voci. A un dialogo interiore frammentario corrisponde una persona disorientata, incapace di prendere decisioni e darsi obiettivi, come accade spesso agli adolescenti. Una buona conversazione interiore invece alterna ai silenzi di apertura, con i quali accogliamo cose e persone (l’attenzione), quelli di chiusura, con i quali mettiamo in dialogo ciò che abbiamo ascoltato con la nostra voce (il raccoglimento). Per questo la prima cosa che Socrate insegnava ai suoi allievi era tacere, per riuscire ad ascoltare il daimon, la voce interiore che guida l’uomo alla felicità, detta infatti eudaimonia. Se per esempio un ragazzo ha poca autostima perché è sempre stato scoraggiato dalla voce degli adulti di riferimento, potrà farla tacere grazie alla sua conversazione interiore, riconoscendo nel «tu» che gli è stato dato un’identità falsa, per potersene liberare. La maturazione è una tensione tra l’io pre-sociale, la nostra voce, e i tu che ci vengono «attribuiti» dalle voci degli altri. Noi siamo sempre «di più» rispetto a ciò che ci dicono di essere, sempre liberi di prendere una decisione su ciò che è vero e giusto per la nostra vita. Entrare in quello che Amleto chiama «il cuore del cuore» però non è facile, per questo l’antichissimo gesto del tacere mostra l’indice sulla bocca, per impedire alla parola di rendere inutili le orecchie: «abbiamo due orecchie e una bocca, per ascoltare il doppio di quanto parliamo», diceva un filosofo greco. L’arte di tacere non è arte del vuoto, ma un vero e proprio filtro delle voci del mondo.
La conversazione interiore non è l’eco del pensiero, come mostra il parlare ad alta voce per affrontare situazioni difficili quando siamo soli. Nel mondo greco si pensava che tra le orecchie e l’anima ci fosse un canale diretto, in ebraico la parola orecchio significa, per estensione, mente/cuore, a sottolineare che è nell’ascolto che nascono pensiero e azione. Per esempio «sento» di aver trattato male qualcuno e non riesco a convivere con il me che lo ha fatto, così decido di chiedere scusa all’offeso e anche la convivenza con me stesso ritrova pace. La conversazione interiore è lo spazio in cui diventiamo autonomi, dove ripariamo i conflitti, dove possiamo accogliere il male, il dolore, la tristezza, la paura, scoprendo che siamo noi a viverli e possiamo sempre decidere cosa farne. Educare è rafforzare questo «io» che sta oltre tutte le voci e resta capace di libertà, di entusiasmo, di gioia. Nella vita quotidiana ci sono oasi per la conversazione interiore. Per esempio gli amici veri, che sanno portarci nella stanza del silenzio quando ci aiutano a dire a noi stessi ciò che non riusciamo a dirci da soli. Poi c’è la lettura, che avvia il dialogo tra le voci di autori/personaggi e la nostra, tanto che a volte ci sentiamo capiti: facciamo le «orecchie» alle pagine che ci «ascoltano» di più. C’è la preghiera, dialogo interiore nel quale l’io scopre la presenza continua di un tu amante «più intimo a me di me stesso», come scrisse Agostino di Dio nel suo capolavoro di conversazione interiore che sono le Confessioni. C’è la notte, troppo spesso ritagliata o trasformata in giorno da luci e voci, necessaria invece al vitale silenzio del corpo che è il sonno e la sua conversazione fatta di sogni. Senza silenzio perdiamo l’equilibrio, che nel corpo è affidato proprio all’orecchio: stiamo in piedi grazie al cosiddetto labirinto, che, danneggiato, provoca le vertigini e la nausea della labirintite.
Gli indiani Dakota dedicano particolare attenzione all’educazione al silenzio, abituando i bambini a sedere tacendo, perché scoprano ciò che sembra non esserci: loro stessi. Sin da piccoli sono educati a iniziare un discorso con un prolungato silenzio a differenza del nostro febbrile alza-mano, cioè «chi parla prima è bravo». Per loro il silenzio di fronte al dolore o alla meraviglia è più consono del lamento o della parola. Per questa tribù le persone incapaci di tacere sono immature. Chi non tace non si apre al «mistero», parola che in origine indicava qualcosa di segreto o straordinario che obbliga a chiudere la bocca. Perché? Perché è il momento in cui ricevere la vita traboccante da ciò che si ha di fronte. Il volto della persona amata è «mistero»: si può guardare a oltranza senza dover dire nulla. Davanti a un capolavoro o un panorama si rimane ammutoliti: si dice infatti «mozzafiato». Invece noi veniamo educati più che a ricevere ad afferrare e risolvere, più che a lasciar essere le cose a obbligarle a essere come vogliamo. A scuola nelle interrogazioni bisogna rispondere subito, nei temi più scrivi più sai. Le parole intasano l’ora e il silenzio non è una risorsa didattica (dovrebbe esserlo dato l’effetto che ha sull’intelligenza). E a casa esiste il silenzio? Quello che porta a interrogarsi sulla propria felicità e senza il quale è impossibile incontrare il proprio destino e la propria libertà. Nel mondo ebraico il padrone forava il lobo al servo per segnalare, con o senza anello, una condizione definitiva: doveva ascoltare solo lui. Schiavo è chi ha l’orecchio interiore prigioniero delle voci «tiranne». Il silenzio che invochiamo è quello della liberante conversazione interiore: notte, letture, amici, preghiera… sono «silenziatori» quotidiani che ci restituiscono la pace che cerchiamo.
«Assurdo» viene da surdus (sordo), assurda è la vita di chi non ascolta e non si ascolta più. Il letto da rifare oggi è educarsi ed educare alla conversazione interiore grazie al silenzio, anche in mezzo al caos. Siamo di fronte all’alternativa di perderci nel labirinto delle voci dispotiche che vogliono dominarci o uscirne quando vogliamo riconquistando la libertà perduta.
Fonte: Corriere.it