«Quindi potresti non tornare?». Il figlio di Neil Armstrong fissa il padre, facendogli proprio la domanda che rimbalza da mesi nella testa dell’astronauta. «Esatto», risponde serio e distaccato, senza edulcorare la verità, da uomo a uomo, più che da padre a figlio, alla vigilia del viaggio che lo porterà a posare, primo nella storia, un’orma umana sulla Luna, con l’undicesima missione del programma Apollo. Il piccolo, orgoglioso, gli stringe la mano, come aveva visto fare nelle occasioni ufficiali. C’è qualcosa di asciuttamente epico in questa scena di First Man, il film che racconta il lungo viaggio di Armstrong verso il fatidico 20 luglio 1969. La posta in gioco non è solo la lotta per la supremazia, in piena guerra fredda, tra Russi e Americani, e neanche il superamento della frontiera delle scoperte scientifiche. C’è il dramma di un padre che, persa la figlia di due anni per un tumore, intraprende un viaggio decisivo verso l’ignoto: per lui la Luna è una porta chiusa come il dolore. Il nostro fedele satellite è sempre stato l’interlocutore di domande su cui continuiamo a interrogarci: «Dimmi, o luna: a che vale/al pastor la sua vita,/dimmi: ove tende/questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?», si chiede infatti il pastore errante di Leopardi. Domande che tornano nel film di Chazelle, capace di intrecciare con maestria lo slancio folle dell’esploratore con la coraggiosa curiosità scientifica di quegli anni, entrambi però sotto lo scacco della fragilità dell’uomo, che anche sulla Luna porta con sé il pesante fardello dell’esistenza. I crateri lunari assomigliano alle cicatrici dell’uomo, i suoi rilievi ai «cumuli di cose» che gli uomini smarriscono sulla Terra, come Ariosto aveva immaginato. La Luna, torcia discreta nella notte oscura dei terrestri, ci ricorda che siamo esseri «mancanti»: una perenne tensione verso l’infinito incastrata in una vita e in un mondo finiti. Per cercare risposta a una delle domande più frequenti che ricevo dai ragazzi: «che senso ha la vita?», è proprio sulla Luna che sono dovuto sbarcare anche io.
La prima lezione che la Luna mi ha dato è che la vita è un compimento mai del tutto acquisito. Nella sua fase crescente la Luna ci ricorda che la fragilità è vitale: niente nasce già fatto, ma la nascita inaugura un paziente viaggio verso la pienezza. La perfezione (parola che significa compiutezza e non assenza di difetti) non è pero terrena, perché il desiderio umano è infinito mentre la vita è finita. Oggi l’essere «mancanti» spesso viene preso per essere «mancati», falliti: la nostra costitutiva fragilità, invece di essere accettata come inizio di quella ricerca e di quell’impegno che riempiono di senso la vita, viene vissuta come colpa da rimuovere. L’io insoddisfatto cerca di eliminare la sua incompletezza con le prestazioni: deve dimostrare che il suo esser nato ha un senso, quando è proprio il suo esser nato che gli conferisce un senso, cioè una direzione verso il compimento di un io che non c’è mai stato prima. La vita è tendere non pretendere: è proprio la mancanza che porta a evolversi, creare, amare di più. Che cosa ti manca?
La seconda lezione che la Luna mi ha regalato è che anche nella mutevolezza c’è stabilità. Un tempo il calendario era dettato dai mesi lunari: in 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 3 secondi la Luna, con incantevole regolarità, compie il suo giro attorno alla Terra. La realtà, nella sua molteplicità e mutevolezza, si regge su una stabilità che ci protegge, e che infatti definiamo in «leggi». Anche a noi a volte capita di perdere il filo della trama della vita: ci sfugge o si aggroviglia. Ma quale «legge» ci dà senso e ci permette di dire «questo sono io», sempre e comunque, anche quando ci perdiamo? La memoria. Le cose che sono lì conservate regolano la vita: la memoria ci garantisce continuità e novità, perché solo la consistenza del passato consente di agire per il futuro nel presente. Solo l’accettazione degli eventi negativi e la gratitudine per le cose belle può trasformare il destino in una destinazione. Spesso ci illudiamo di aver bisogno di una rivoluzione per ricominciare, ma il futuro sta dietro e dentro di noi: le piante crescono potando i rami non tagliando le radici, anzi nutrendole. I ragazzi smarriti sono quelli senza radici, senza maestri che li radicano alla vita. Chiedete loro: chi sono i tuoi maestri? E saprete il loro futuro.
La Luna poi ci racconta anche che la bellezza è inscindibile dalle ombre: non stanca il nostro sguardo perché cresce e decresce a seconda dell’ombra terrestre sulla sua superficie. Sembra sempre diversa, ma in realtà è sempre lì, intera. Ci sono giorni in cui l’ombra offusca i volti delle persone a cui vogliamo bene e non le riconosciamo più, e rende opache le nostre relazioni, stanche e ripetitive. È una costante delle relazioni significative: eppure l’altro è ancora intatto e da raggiungere con una nuova missione, rinnovando lo sguardo che l’abitudine ha accecato. Noi smettiamo di vedere quando ostacoliamo la luce che cose e persone meritano, siamo noi stessi a far loro ombra, come la Terra con la Luna. Ma proprio grazie alle ombre impariamo a rinnovare i gesti, a ri-conoscere e ri-trovare cose e persone. Quando una relazione — d’amore, d’amicizia, educativa — si adombra è per richiamarci a guardare l’altro con più attenzione, a chiederci di cosa abbia bisogno, a ostacolare meno la luce con le nostre ingombranti aspettative. L’ombra non è la morte della relazione ma la sfida lanciata dall’amore proprio perché si rinnovi.
La quarta lezione è che la Luna, per quanto appaia mutevole, in realtà ci rivolge sempre la stessa faccia, con gli stessi crateri e rilievi, perché il suo moto di rivoluzione e di rotazione sono sincroni: un giro su se stessa dura lo stesso tempo di un giro completo intorno alla Terra. Della sua bellezza noi conosciamo solo una faccia, e per questo poeti e registi le attribuiscono un volto. Ma una parte resta sempre inafferrabile. Quando ci assestiamo su pregiudizi e false convinzioni, la vita si incarica di porre domande a cui non avremmo mai pensato di dover rispondere. A furia di guardare sempre la stessa faccia della vita, ne dimentichiamo il lato fatto di tutto ciò che non abbiamo pre-visto, ricordandoci che la vita è sempre più grande dei nostri schemi, del nostro limitato punto di vista, legato all’adesso, al «tra cinque minuti». Allora dobbiamo affidarci allo sguardo di chi ha indagato la faccia invisibile, il mistero della vita, per lo più i poeti: quando li avete letti l’ultima volta?
Italo Calvino, uno degli autori più «lunari» della nostra letteratura, proprio a difesa delle prime spedizioni, scriveva sulle colonne di questo giornale nel 1967: «Chi ama la luna non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più». La Luna con la sua bellezza discreta apre in noi lo spazio dell’interrogarsi su ciò che ci supera, su ciò che ci manca, sull’ordine e il caos delle cose, sull’incompletezza e sulle ombre della vita. Tutte quelle domande a cui a volte rinunciamo perché troppo impegnative. Eppure è proprio il non vivere le domande che rende impossibili le risposte. L’esplosione di informazioni da cui siamo bombardati spesso opprime la vita invece di renderla più vivibile, ostacola le domande sul senso della vita stessa. I bambini e i ragazzi di oggi hanno uno zaino talmente pieno di cose, che non riescono, non dico a muoversi, ma neanche più a domandare: che devo farci? Dove devo andare? Perché mi date l’ennesimo oggetto senza mostrarmi il progetto? Il progetto non è un accumulo di pezzi, così come un corpo non è la somma degli organi, ma un tutto reso vivo da un principio unificante: l’anima. Il principio unificante della vita è la verità. Nel mondo ebraico la si nominava usando la radice che indicava «l’appoggio che non viene meno». Quello di cui siamo mancanti è l’appoggio che non viene meno, grazie al quale possiamo affrontare qualsiasi «come» della vita, perché abbiamo il «perché». «Anima», «Dio», «Verità», non sono parole fuori moda: se non le sappiamo definire è perché sono parole «prime», sono loro che definiscono noi, come mostra l’addensarsi delle nostre domande su di esse.
Il letto da rifare oggi è «lunare»: procuratevi il vostro Apollo 11 e risalite la gravità della vostra esistenza, accettandone fallimenti, errori, difetti. Allunate anche voi nel celebre Mare della Tranquillità, come fecero Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Affrontate il silenzio, per scoprire che cosa veramente guida le vostre azioni e insoddisfazioni. Da soli, tra crateri e oceani, passeggiate sulla Luna e lasciatele amplificare le vostre domande silenziose ma ineludibili. Che cosa sto facendo? Che senso ha la mia vita? Che cosa veramente mi manca? Qual è la mia destinazione? Perché sono nato? Poi tornate sulla Terra e avrete nei vostri passi la leggerezza, non superficialità, di chi conosce meglio la meta. Cominciate stasera, spegnete cellulare e tv per mezz’ora, alzate lo sguardo e interrogate la Luna con il pastore errante: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,/silenziosa luna?».