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“Le donne nelle chiese stiano zitte”. San Paolo misogino? Per nulla, è vero il contrario

San Paolo sulle donne. L’eminente biblista Romano Penna commenta il fatidico passo della Lettera ai Corinzi in cui Paolo invita le donne a tacere durante l’assemblea. Ma poco prima aveva approvato che le donne profetizzassero nell’assemblea e ha sempre lodato il loro ruolo nella comunità, come interpretare l’apparente contraddizione?

 

“Le donne nelle chiese stiano zitte (…) È indecente infatti per una donna parlare nell’assemblea”. Questa breve frase della Prima Lettera ai Corinzi, «è stata spesso un cavallo di battaglia dentro e fuori la Chiesa per dimostrare l’antifemminismo di Paolo». A scriverlo è l’eminente biblista italiano Romano Penna, conosciuto e apprezzato a livello internazionale per il suo studio neotestamentario e, in particolare, sul Corpus paolinum, attualmente professore Emerito presso la Pontificia Università Lateranense.

Solo un paio di mesi fa ci eravamo nuovamente occupati dell’apostolo San Paolo e dell’accusa spesso a lui rivolta di essere stato un incorreggibile misogino. Davamo invece conto della smentita a questa tesi da parte di una decina di teologhe femministe che hanno dato una lettura completamente diversa delle lettere paoline (ma anche dell’Antico e del Nuovo Testamento, in generale). Domenica scorsa è sceso in campo “un pezzo da novanta”, sempre sulla stessa tematica, per l’appunto il biblista italiano Romano Penna.

Concentrandosi sull’enunciazione citata inizialmente, Penna ha giustamente premesso che vi sono molti studiosi che ritengono che parole non appartengano al testo originale della lettera «ma siano state inserite posteriormente nel corso della tradizione manoscritta come una glossa». I dubbi sull’autenticità sono molti, infatti, in quanto «il Paolo storico documenta un tutt’altro modo di vedere le cose. Ciò che fa problema semmai è l’aperto contrasto con il fatto che l’apostolo dà assolutamente per scontato che le donne possano intervenire liberamente in pubblico, senza porre loro alcuna museruola, come denota l’uso del verbo profetèuein impiegato a loro riguardo esattamente come per l’uomo». Il biblista si riferisce ad un altro passo, sempre nella Prima Lettera ai Corinzi, in cui Paolo scrive: «Ogni uomo che prega o profetizza un capo coperto, fa disonore al suo capo; ma ogni donna che prega o profetizza senz’avere il capo coperto da un velo, fa disonore al suo capo, perché è lo stesso che se fosse rasa» (1 Corinzi 11, 4-5).

Così, nella Lettera ai Corinzi per San Paolo è scontato e approvato che le donne profetizzino in chiesa, le esorta però (assieme agli uomini) a porsi un velo o copricapo solo e durante le assemblee liturgiche. Tuttavia, poche righe sotto, compare l’invito (ammesso che sia autentico) alle donne a “stare zitte” in chiesa. E’ una contraddizione apparente, infatti -ha spiegato Penna-, «le parole di Paolo possono valere come semplice e banale ammonizione alle donne corinzie a non parlottare durante l’assemblea liturgica. Alternativamente, visto che poco prima a proposito di chiunque parla come glossolalo, cioè senza farsi capire, Paolo ha stabilito che abbia un interprete (14, 28: “Ma se non ha un interprete, stia zitto nella chiesa”), si può pensare che l’apostolo proibisca alle donne di parlare soltanto come glossolale, dato che in 11, 5 egli dava per scontato che potessero parlare apertamente come profetesse, cioè in modo da farsi capire a edificazione della comunità».

A rendere ragione a questa interpretazione è il fatto che nelle altre lettere paoline «è ampiamente documentata la partecipazione attiva di donne, addirittura menzionate singolarmente per nome, nell’esercizio di un impegno che riguarda sia la fondazione di chiese sia i ministeri al loro interno». Romano Penna si spinge a conteggiare le persone lodate da Paolo per il loro impegno evangelico in rapporto alla comunità e, scorrendo la lista di nomi, rileva 7 donne (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Giulia) e 5 uomini (Aquila, Andronico, Urbano, Apelle, Rufo). «Ebbene, a livello di statistica», ha concluso il biblista italiano, «dobbiamo constatare che le donne impegnate per l’Evangelo superano gli uomini. Basterebbe questa secca pagina epistolare per smentire quanti hanno scritto di un supposto antifemminismo di Paolo».

Così, nelle chiese paoline, le donne impegnate attivamente in ruoli di prestigio sono molte e vengono lodate da Paolo (altro che “state zitte!”). Addirittura, ha concluso Penna, «si può ritenere che le donne esercitassero delle funzioni tali che non ebbero neanche al tempo di Gesù, a parte una loro significativa presenza alla croce e al sepolcro vuoto. Infatti, di una loro responsabilità ecclesiale si può parlare solo nel periodo successivo alla Pasqua e specificamente appunto nelle Chiese paoline, dato che non abbiamo notizia di donne attive nelle Chiese giudeo-cristiane». Fu proprio Paolo, infatti, a stabilire che tra i battezzati in Cristo «non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù» (Gal 3, 27-28), annullando così «tutte le differenze o meglio le contrapposizioni: culturali, sociali, e persino sessuali». D’altra parte, in Israele si era fondata una pretesa superiorità dell’uomo sulla donna, come si legge in Flavio Giuseppe: “La donna, come dice la Legge, è in ogni cosa inferiore all’uomo” (Contro Apione 2, 201). In quell’occasione, ha proseguito il biblista Penna, «San Paolo non richiama soltanto l’uguaglianza davanti a Dio del “maschio” e della “femmina”, bensì e soprattutto quella di una parità di funzioni a livello comunitario».

La “rivoluzione femminile” di Paolo fu davvero sconvolgente nella cultura de I° secolo, tanto che un Padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, commentando la Lettera ai Romani (in particolare Rm 16,5), scrisse: «Di nuovo Paolo esalta e addita a esempio una donna, e di nuovo noi uomini siamo sommersi dalla vergogna! O meglio, non solo siamo sommersi dalla vergogna, ma siamo anche onorati. Siamo onorati, infatti, perché abbiamo con noi donne del genere; ma siamo sommersi dalla vergogna, perché siamo molto indietro al loro confronto» (Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani 31, 1, PG 60, 667)Una dichiarazione che oggi chiameremmo “femminista”.

Fonte: Uccronline.it

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