La mattina di Natale aspettavo che i primi raggi di luce filtrassero nella mia stanza, vigile come una sentinella nel buio screziato dall’intermittenza delle luci dell’albero che si insinuavano per tutta la casa. Poi in silenzio uscivo dal letto e mi acquattavo nel soggiorno a fissare i regali, che aspettavo da settimane e di cui avevo immaginato il contenuto celato dalle forme dei pacchi e dalla carta colorata. A poco a poco arrivavano fratelli e sorelle, tutti ancora in pigiama, fino a che la presenza di papà e mamma dava il via alla febbrile distruzione degli involucri: ogni regalo era accompagnato da un coro di «oooooh». La luce usciva da ogni cosa, dalle carte dorate e dai volti: la luce potente di ciò che basta per essere pienamente felici. Al contrario del buio freddo che ho sentito penetrare tra le fessure del cappotto e raggiungere il cuore, qualche giorno fa, camminando per le strade della città in cui abito. Le luci non accarezzavano, ma sferzavano gli occhi: più che l’annuncio del Natale, erano il promemoria degli «inesorabili» acquisti. Come mai un gesto così bello si è saldato all’ansia? E soprattutto: che cosa significa, davvero, «scambiarsi» i regali a Natale?
L’antica radice della parola «dono» indicava l’istituzione di relazioni vantaggiose. Secondo i principi dell’economia classica un bene ha due valori: a) d’uso (soddisfa dei bisogni), b) di scambio (procura altri beni). Il dono aggiunge un terzo valore, il valore di legame: un bene donato crea legami nuovi, oltre a rafforzare quelli esistenti. Gli antropologi, osservando le società tradizionali, hanno scoperto che proprio attraverso i doni gli uomini creano e stabiliscono relazioni sociali, perché essi generano la necessità del contraccambio: chi dona si attende infatti un contro-dono. Che differenza c’è allora tra donare-contraccambiare e uno scambio mercantile? La libertà: non è richiesta un’immediata estinzione del debito. Infatti l’obbligo di restituire il dono è morale (non contrattuale): non ci sono modi e tempi rigidi o sanzionabili, ma solo fiducia. Ma perché si contraccambia o ci si sente obbligati a farlo? Ciò che si dona, ha spiegato Marcel Mauss, nel suo magistrale Saggio sul dono, acquisisce un’anima, prolungamento di chi dona: lo spirito nell’oggetto cerca quindi di tornare al luogo d’origine, il donante, alimentando una positiva spirale di riconoscenza. Il contro-dono, potendo avvenire con scadenze non codificate, trasforma il tempo in legame. Lo scambio mercantile si basa invece sull’abolizione immediata del debito (prendo le mele e pago), eliminando subito l’asimmetria e la relazione con l’altro. Pensate invece al debito che avete verso i vostri genitori (la vita): è inestinguibile e, proprio questa asimmetria, crea una relazione unica, che impegna tutto il tempo della vita. In una coppia o tra amici il donare è una variabile continua, costante e necessaria: quando si smette di donare, una relazione finisce. Infatti due fidanzati che si lasciano, restituiscono i doni ricevuti o li buttano via, perché l’oggetto non è solo un ricordo doloroso, ma è di fatto la relazione stessa. Il dono instaura uno squilibrio positivo, che crea e tiene vivo il legame, «garantisce» la relazione tra chi dona e chi riceve: donando impegniamo il tempo nostro e altrui perché vogliamo che la relazione (amicizia, amore, lavoro) continui. Il dono è sempre una richiesta di fedeltà, in cui però l’impegno (parola che ricorda appunto il «dare in pegno») a restituire è a scelta dell’altro, il dono «vincola» e «libera» al tempo stesso. A Natale il triangolo di donare, ricevere, contraccambiare, è un tutt’uno (chi dona riceve, chi riceve dona) a significare qualcosa di più: vogliamo «donare per donare». Lo «scambio di doni» mostra e celebra la relazione stessa. Per capire il perché bisogna fare un salto nel passato.
Tra il 17 e il 23 dicembre i Romani celebravano la loro festa principale: i Saturnali, in onore del dio dell’età dell’oro. Il progressivo prevalere della luce sulle tenebre, dopo il solstizio di inverno che cade in quei giorni, segnalava la rinascita lenta ma costante che avrebbe portato le spighe a maturazione. Si banchettava, ci si mascherava come nel nostro carnevale, ci si scambiava i doni e si azzeravano le differenze sociali: i padroni servivano e i servi comandavano. Il cristianesimo, con l’evento che divide la storia in due segmenti, la nascita del Dio-Bambino, assume l’aspetto cosmico della tradizione antica, ma la rinnova totalmente: la luce non è solo quella del Sole, ma di Dio che viene sulla Terra ad abitare in mezzo al buio degli uomini. Se Dio nasce, tutti meritano di nascere: il «Natale», appunto.
A Natale celebriamo che l’uomo è fatto per nascere, non certo per morire. Ci scambiamo i regali per rinnovare le relazioni e ribadire reciprocamente: è bello che tu sia nato. Così anche noi ci riceviamo in dono gli uni gli altri: la relazione stessa diventa visibile. Il compleanno di Dio permette a tutti di festeggiare il proprio: nascere è il dono più grande che un uomo e una donna possano fare alla Terra. Il Natale è in questo senso il «Compleanno di tutti», per questo ci scambiamo i regali: per ringraziare il nostro e altrui «venire alla luce» al fine di amare ed essere amati per come siamo. Possiamo celebrare il Natale, solo se è Natale per noi: chi è felice e grato di essere nato, può essere felice e grato della nascita degli altri. Lo scambio dei doni è così il modo tutto umano per rendere visibile, in tutta la sua verità, lo stato delle nostre relazioni: stiamo veramente rinnovando i nostri affetti più cari e affermando la bellezza della nascita nostra e altrui?
«L’ansia da regalo» sembra invece segnalare una necessità opposta, che si riduce spesso al mettersi la coscienza a posto di fronte all’ennesimo standard: sottoporsi al rito e non far brutta figura. Ripiegati su noi stessi non celebriamo il cosmo e i suoi doni, ma noi stessi, obbedendo al comandamento consumistico: si fa così e basta. A volte infatti sono proprio quei regali ad assolverci dal senso di colpa per non aver donato proprio ciò che il dono impegna: il tempo. Non abbiamo dato il tempo che gli altri meritavano e crediamo così di «comprarlo», facendo un regalo. Ma così non magnifichiamo l’altro, semplicemente lo controlliamo o ci illudiamo di farlo, oltre a cercare di lenire il senso di colpa. Oggi, sempre di corsa, sosteniamo che le relazioni richiedano «tempo di qualità», forse perché non riusciamo a donarne in «quantità»: ma sotto una certa soglia di quantità non esiste qualità. La qualità, per esseri fatti di corpo (e quindi di tempo), è donare tempo: amare è dare e impegnare il proprio tempo. Il Natale rende possibile proprio questo: spendere tempo (prima che soldi) per e con gli altri, a tavola, in giochi, chiacchiere, doni. Ma c’è di più. La logica strettamente umana del dono è riassunta e superata proprio dalle parole del festeggiato («Christmas» significa festa di Cristo) nel vangelo di Luca: «Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? E se fate del bene a chi vi fa del bene, che merito ne avrete? E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi». Natale è quindi anche un invito ad andare oltre il contraccambio «garantito», arrivando a donare a chi non può ricambiare, non solo perché magari non ha mezzi, ma semplicemente perché non lo amiamo o non ci ama, così il dono diventa «per-dono»: un super-dono. In questo caso l’unico contraccambio possibile è la relazione stessa e la gratitudine, il dono afferma la pura volontà di (ri-)costruire una relazione e lasciarsi alle spalle ogni divisione e differenza, come fa il Padre donando il Figlio agli uomini: li ama senza aspettarsi nulla e desidera che loro facciano altrettanto tra loro, partecipando alla sua misericordia.
Il letto da rifare oggi è allora quello ispirato dal modo in cui nella nostra lingua si indicavano un tempo i doni: «presenti». «Fare un presente» diventa quindi regalare una presenza nuova, che a volte è semplicemente il farsi vivi con qualcuno che trascuriamo o ignoriamo da tempo o riannodare una relazione rovinata. Il dono è una presenza che ribadisce: «è bello che tu ci sia, comunque sia andata, eccomi qui a dirtelo». Donare non è acquistare la propria pace, ma rinnovare, per quanto possiamo, la propria presenza e quindi il proprio impegno nel tempo a venire. Natale è sì dare e ricevere presenti, ma al fine di renderci di nuovo «presenti» agli altri e rendere gli altri di nuovo «presenti» a noi. Natale in fondo è per tutti, credenti o no, un aggettivo che significa «appartenente alla nascita», e quindi fare regali non è «fare acquisti», ma «fare luce»: venire noi alla luce e dare gli altri alla luce. La luce, che torna a vincere lentamente sulle tenebre del cosmo e rinnova i campi e la tavola degli uomini, chiede a noi di fare altrettanto nelle relazioni. Quest’anno non fate regali, scambiatevi doni, perché non sia la festa degli acquisti, ma dei «presenti». Solo così i ricordi dell’infanzia non saranno parte di un passato nostalgico o di una tradizione sentimentale, ma la vita vera a cui tutti aspiriamo.
Fonte: Corriere.it