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Alessandro D’AVENIA – 41. Oroscopo 2019

«Nel 2019 finalmente metterai in atto trasformazioni che finora non eri riuscito ad affrontare». Così recita, per il mio segno, uno degli oroscopi in voga, retaggio di riti secondo cui il primo giorno dell’anno ne predice l’intero corso. Anticamente, alla nascita di un bambino, si osservava (skopeo) il tempo (hora) per cogliere l’influsso celeste sul suo futuro: astri e dis-astri. L’oroscopo è uno degli ingredienti del rito del Capodanno, segno del nostro essere fatti fondamentalmente di «speranza». L’uomo infatti vive in un’originale e feconda tensione: sa di essere ma sa anche che il suo essere è precario e ha bisogno di affermarsi, perché alla fine c’è l’abisso della morte. Esser nati non basta, la vita non è compiuta ma è da fare. Per questo il dna di ogni nostra fibra è la speranza, parola la cui radice indica appunto «tendere». Abbiamo bisogno che il nostro io sia confermato nel suo essere qui, che qualcuno gli dica sempre «è bello che tu ci sia»: questo cerca la speranza, tensione tra la gioia di essere emersi dal nulla e la paura di precipitare nel nulla.

Questa tensione della speranza emerge dal mito greco secondo cui Zeus, per punire Prometeo, ladro del fuoco degli dei dato agli uomini, fa modellare da Efesto una bellissima donna a cui tutti gli dei donano una qualità. Pandora, «colei che ha tutti i doni» o «ha doni da tutti», viene così portata a Epimeteo, fratello tardo di Prometeo che lo mette in guardia dai doni di Zeus. Epimeteo lo ignora, la sposa e la porta in casa. Il piano di Zeus mira, racconta Esiodo, a impedire agli uomini di procurarsi con facilità il bios, il sostentamento della vita. Infatti Zeus ha dato in dote a Pandora un vaso, di quelli per il grano, da non aprire. La donna non resiste alla curiosità e dal vaso escono tutti mali che l’uomo subisce per procurarsi da vivere. Pandora riesce a chiudere il vaso nel quale rimane solo un male: «elpis». La parola va intesa come tensione del futuro: o negativa (paura/illusione), come in questo caso, o positiva (speranza/progetto). L’uomo deve procurarsi il bios, la vita, se non vuole precipitare nel nulla, ma se nel vaso è rimasta la «paura/illusione» del futuro, sulla terra c’è ancora il coraggio di lottare per compiere la vita. Il «da-fare» è lo spazio della speranza e del progetto: essere in tensione creativa rende in-tensa la vita. L’uomo può riempire il vaso di ciò che gli dà vita, con fatica e dolore, se non è paralizzato dalla paura o dalle illusioni, e anzi assume la sua condizione come sfida feconda: è vivo perché spera, il disperato infatti smette di agire. Sperare non è ottimismo, ma vivere con realismo la vita come risposta creativa a una chiamata al compimento: vivere è dono ma è anche compito, non a caso la radice di elpis ha generato in latino sia voluptas (piacere) sia velle (volere).

Il Capodanno ritualizza questa umanissima speranza. Furono i Romani nel II sec. a.C. a stabilire che il primo gennaio desse il via a un nuovo ciclo delle stagioni (anno forse viene da anulus, anello: il tempo che si ripete). Gennaio era il mese dedicato a Giano, il dio dalla doppia faccia, una che guarda al passato e una al futuro: ci si vestiva infatti con un capo vecchio, uno nuovo e qualcosa di rosso, speranza di raccolti fertili; ci si cibava di cose piccole come frutta secca (oggi le lenticchie) come augurio di abbondanti guadagni; ci si scambiava un vaso di miele, con datteri e fichi secchi, per augurare un anno dolce. I fichi erano detti «strenae» (da cui le nostre strenne natalizie) perché portati su foglie di alloro del bosco sacro alla dea Strenia, augurio di fortuna. Si faceva l’oroscopo per prevedere l’intera annata, e il bisogno di rinnovamento era inscenato con l’espulsione dalla città di un vecchio coperto di pelli che rappresentava l’anno passato: oggi si buttano oggetti vecchi e si sparano botti, retaggio della credenza secondo cui gli spiriti malvagi sono spaventati dai rumori improvvisi. Brindare con un vino «spumante» era augurio di fertilità, così come danze e salti che, più erano alti, più garantivano fecondità, come oggi i fuochi d’artificio. Eliminare il male e rinnovare lo slancio verso il futuro rappresentano la tensione feconda del desiderio umano. A Capodanno infatti ritualizziamo la speranza, per rinnovare la vita.

Da tempo ai riti di speranza del Capodanno ne ho aggiunto uno: guardare «La vita è meravigliosa» di Frank Capra, nel quale George Bailey, caduto in disgrazia, sta per buttarsi in un fiume da un ponte, proprio la notte di Natale. Viene però salvato da Clarence, un goffo angelo in cerca di promozione. Nel dialogo che segue George si lamenta della sua vita fino a esclamare: «Vorrei non essere mai nato!». L’angelo esaudisce la sua richiesta senza dirglielo, così George, camminando per la città, vede le conseguenze della sua assenza nel mondo: il fratello è morto, il suo datore di lavoro è diventato un ubriacone, sua moglie è rimasta sola, la città è più violenta… Il mondo senza George è andato avanti ugualmente, ma in peggio. Così egli scopre di essere stato un dono, proprio perché nella sua vita non si è mai tirato indietro, nonostante rinunce e fallimenti. Tutto il male che vede lo porta a sperare di nuovo e a chiedere a Dio: «Fammi vivere!». La sua disperazione era mancanza di prospettiva sulla vita nella sua completezza, vita che gli ha ribadito: «è bello che tu esista». Guardo il film a Capodanno come esame personale e mi chiedo: se io non fossi nato, quest’anno appena trascorso come sarebbe stato? Che cosa ho combinato di bene o di male? Sono stato un dono o un danno? Le risposte mi aiutano a trovare il coraggio per riparare, rilanciare e/o inaugurare progetti, relazioni, sogni… insomma per rinnovare la speranza e quindi la vita da mettere nel vaso di Pandora.

La speranza cerca ciò che rende la vita nuova, perché il nuovo rende vivibile la vita quotidiana. Nella cultura di oggi il nuovo viene identificato con il progresso, che spesso è però solo un’illusione di novità, perché è veramente nuovo solo ciò che a ogni incontro realmente ci rinnova. Speriamo nell’uscita di nuovi prodotti e modelli di oggetti ma si rovinano sempre. Speriamo in politici che rinnovino il mondo, ma rimaniamo delusi dalle nostre stesse aspettative. Speriamo nell’accumulo di cose e nella rapidità nell’ottenerle, ma proprio questo rallenta la nostra capacità di impegno, di rischio, di attesa. Speriamo di trovare conferma al nostro io precario a colpi di like e di successi, ma la solitudine rimane uguale, anzi si approfondisce. Chi ha sperimentato felicità nelle relazioni e nel lavoro (le voci di ogni seducente oroscopo) sa che non è il progresso di per sé a rinnovare la vita, ma l’amore che mettiamo e riceviamo nell’incontro reale con gli altri e il mondo. Il progresso di ciascuno di noi non è fuori, ma nel compimento della vita, nostra e altrui, al quale tecnologia, politica, economia possono contribuire solo se non vengono scambiate per la vita stessa, che sta solo dove viene realmente e costantemente rinnovata: nell’amore.

Propongo quindi quattro esercizi di speranza che rinnovano la vita.
1) L’esercizio del desiderio: imparare ad attendere. Io imparo a sperare nei miei alunni, non pretendendo effetti predeterminati, ma cogliendo e sostenendo l’unicità di ciascuno. 2) L’esercizio quotidiano della bellezza che, se è manifestazione di un compimento, spinge a fare altrettanto: «senza bellezza non ci sarebbe nulla da fare al mondo» (Dostoevskij). Imparo a sperare guardando le stelle o un quadro di Vermeer: «Finchè la donna del Rijksmuseum/nel silenzio dipinto/giorno dopo giorno versa/il latte dalla brocca nella scodella,/il Mondo non merita/la fine del mondo» (Szymborska). 3) L’esercizio quotidiano dell’azione seria e costante: lavorare bene e al servizio degli altri, per quanto sia faticoso e non sempre redditizio. Imparo a sperare se ogni giorno scrivo una pagina, che mi vada o no. 4) L’esercizio della consolazione: impegnarsi a non lasciare solo chi è nel dolore. Imparo a sperare dedicando tempo a chi con la mia presenza torna a sperare proprio in mezzo alla sua solitudine. Essendo innamorato di Dio ho poi la fortuna di ricevere il dono di una speranza che non viene meno, qualsiasi cosa accada, perché so che il compimento della mia vita non è nelle mie mani: se faccio e vedo il male so che il male non ha l’ultima parola, né in me né fuori di me. C’è sempre qualcuno per il quale è bello che io sia nato: questo mi dà energia e coraggio inesauribili per impegnarmi, ma senza pretendere troppo dai miei limiti: la salutare tensione e distensione del cuore innamorato.

Il letto da rifare oggi allora è stilare due liste: che cosa abbiamo portato di buono e cosa di cattivo nel mondo nel 2018. Come sarebbe andata se non ci fossimo stati? Leggetele con calma: ecco il vostro oroscopo del 2019. Riparate, per quanto possibile, le cose rovinate (male-fatte, male-dette, male-andate); sviluppate con coraggio quelle iniziate o andate bene, e ringraziate chi vi ha contribuito.
Il progresso umano è nel cuore, nello sguardo, nelle mani, impegnati coraggiosamente a vivere ogni giorno dell’anno come un Capodanno: questo dà senso a brindisi e botti. Anno nuovo, vita nuova? No, il contrario. Vita nuova, anno nuovo.

Auguri!

Fonte: Corriere.it

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