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Alessandro D’AVENIA – 46. Captorix

Il suo lavoro è ripetitivo e inutile, l’amore un divertimento sessuale vuoto, il tempo una catena di montaggio del consumo: a 46 anni non ha ragioni né per vivere né per morire. L’unica speranza per Florent-Claude Labrouste è il Captorix, una pillola che lo protegge dalla depressione e garantisce un apatico benessere. Il farmaco, attutendo le emozioni, è in grado di disattivare il desiderio di felicità e quindi di prevenire l’angoscia dell’insoddisfazione. È la descrizione del protagonista di Serotonina, ultimo romanzo di Michel Houellebecq. Patologo compiaciuto del disincanto occidentale, rovista sadicamente e in modo spesso ripugnante nel cadavere dell’uomo contemporaneo. Ma se è vero che il desiderio infinito di felicità, risolto in infinito consumo, alla prova dei fatti è morte in vita, proviamo ad andare oltre la disperata ma utile intuizione del libro. L’uomo moderno ha posto il suo principio vitale nel «risultato»: la felicità sta nella produzione di se stesso e del mondo e l’io, (iper)teso verso qualcosa che deve sempre arrivare, è sospeso nel vuoto angosciante dell’auto-realizzazione. L’eroe dell’epopea del risultato è l’in-dividuo (traduzione di a-tomo: ciò che non può essere diviso): non avendo significato in sé deve produrlo, essere «abbastanza» per procurarsi un io, per «realizzarsi», diciamo, tradendo il fatto che altrimenti pensiamo di essere «irreali». Questo meccanismo genera un io perennemente in-soddisfatto, negazione di «satis-facere»: fare abbastanza. L’io resta sempre al di qua dell’abbastanza necessario a raggiungere gli standard imposti dalla cultura per essere considerati «reali», cioè vivi. Il Captorix è la cura al continuo naufragio del desiderio infinito di felicità, disattivare l’infinito a favore delle procedure è l’unico modo di non disperarsi: «Non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo… trasformando la vita in una serie di formalità, aiuta a vivere, o almeno a non morire».

Oggi educhiamo, spesso inconsapevolmente, a questo individualismo insoddisfatto. Vedo bambini spinti a correre l’uno contro l’altro, a con-correre, anziché stare nel gioco della vita in squadra. Vengono caricati di ansia per i compiti e di una competitività eccessiva nelle attività extrascolastiche, in cui a trionfare sono i genitori più che i figli, usati come trofei. I crescenti disturbi di attenzione mi sembrano ribellioni alla morsa del risultato: per essere felice «devi funzionare». Lo stesso accade a molti adolescenti che, nell’età della scoperta della propria unicità da portare nel mondo, rivolgono la loro energia, privata delle radici dell’accettarsi così come si è, contro se stessi: il suicidio è la seconda causa di morte sotto i 20 anni e preoccupa la crescita esponenziale di disturbi psichici, oltre al consumo di alcool e sostanze, non da ultima l’eroina, divenuta accessibile ai giovanissimi nella versione «gialla», facilmente reperibile a poco prezzo. La logica del risultato come senso ha un esito tragico sulle vite, o si lotta fino a sfinirsi o ci si ritira, già sfiniti, come scrive Houellebecq: «La morte finisce per imporsi, il processo di disfacimento è più rapido per quelli che non hanno mai fatto parte del mondo, non hanno mai ipotizzato di vivere, né di amare, né di essere amati; quelli che hanno sempre saputo che la vita non era alla loro portata».

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