Il cristianesimo, ridotto oggi a pratica esangue o sentimentalismo privato, aveva donato qualcosa di assolutamente nuovo e vitale al mondo antico: la persona. Cristo è il Figlio del Padre, la sua identità divina non è individuale ma relazionale, è un figlio, cioè il suo modo di essere Dio e uomo è essere figlio: la condizione umana trova pienezza e compimento nel ricevere la vita, non nel «procurarsela», nell’accoglierla, non nel «produrla». Un figlio amato non ha paura di vivere, anche quando è debole, fallisce, cade, perché riceve tutto dal padre che dà la vita: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» dice infatti Cristo. L’individuo invece ha paura, perché è un orfano, solo contro tutti deve lottare per essere accettato e potersi poi accettare. L’individuo deve generarsi da solo, la persona è generata dalle relazioni. Ma gli individui non esistono, esistono figli perché in relazione con genitori; esistono amici perché in relazione con amici; esistono mariti e mogli perché in relazione con il coniuge; esistono discenti perché in relazione con docenti… L’io, grazie alle relazioni sane, è donato al mondo e a se stesso, non deve auto-promuoversi né meritarsi di vivere, è già «abbastanza»: quindi dalla qualità di queste relazioni nel tempo dipende il suo fiorire. Se però esse sono improntate solo al risultato l’io si sente sempre in-adeguato e in-soddisfatto, perché è voluto (bene) solo se all’altezza, il tu non è accolto così com’è, ma solo così come deve essere, secondo certe aspettative e certi standard. Invece la persona è già all’altezza, e per questo, nel singolo compito, può riuscire o fallire, senza paura che venga meno la sua esistenza e consistenza. La persona non si deve «realizzare», è già «reale» anche se incompiuta, e la sua incompiutezza non è una colpa, ma una energia interna attivata dalle relazioni, per diventare «più» reali. Grazie all’amore la persona riceve se stessa in «dono» ed è rinnovata nel «per-dono», il suo essere riposa nell’amore, invece l’individuo deve porre e imporre se stesso, non riposa mai.
Dobbiamo invertire, in famiglia e a scuola, la priorità della prestazione sulla presenza, ristabilendo il primato di quest’ultima. Vedo genitori, soprattutto mamme, angosciati dall’iscrizione alla prima elementare più di quanto si preoccupino di curare l’armonia tra intelligenza e affettività dei propri bambini. Si punta tutto sulle competenze, dimenticando che la persona è armonia sinfonica delle componenti vitali: spirito, intelligenza, volontà, corpo. Le domande dopo scuola (se non durante con messaggi invasivi) sono: com’è andata? Sei stato interrogato? Che voto hai preso? Che compiti devi fare? Nel parlare dei figli chiedono se sono bravi, non se sono felici, che cosa fanno, non chi sono. Il risultato è tutto. I figli, non riuscendo a sostenere la pressione, implodono o esplodono, o comunque interiorizzano che «essere non è esserci, ma riuscire». Basterebbe cominciare a sostituire le domande di prima: come stai? Avete giocato? Che cosa avete scoperto di bello? Con chi hai fatto amicizia? Come sta la maestra? Curando la persona inseriamo i bambini in una miniera di relazioni sane che pian piano faranno il diamante. Il principio personale mette l’io al centro di relazioni che conferiscono identità e si occupa di curarle, mentre quello del risultato spinge a soddisfare gli obiettivi. Gli adolescenti, loro malgrado, finiscono con il mettere in atto proprio l’individualismo a cui sono stati indirizzati, abbiamo detto loro per anni: funziona, concorri, realizzati… anziché ti voglio bene così come sei, vai bene anche quando non funzioni, pensando che dire queste cose fosse pericoloso per la loro «realizzazione» e inadeguato per un mondo in cui merita di vivere solo il più adatto.
Il letto da rifare oggi è allora scrivere il proprio nome al centro di un foglio bianco e collegarlo a tutte le relazioni significative che lo rendono un tu personale, e scoprire grazie a quali collegamenti il nome brilla a prescindere dai risultati, o è in ombra perché prigioniero della morsa degli standard e delle aspettative. Dopo si può fare lo stesso con i nomi delle persone che sono emersi e dipendono dalla relazione con noi, chiedendosi se li amiamo perché ci sono o per ciò che ci aspettiamo e vogliamo da loro. Avremo davanti agli occhi il disegno della nostra «realizzazione» vera (gioia) o presunta (insoddisfazione). Penso ai miei alunni che faranno la maturità, e mi rendo conto che in questi anni si sono «realizzati» di più, come studenti e come persone, solo quando sono riuscito a mettere i loro volti prima dei loro voti. E sui voti non ho mai fatto sconti…
Fonte: Corriere.it