Più di duecento occhi di bambini puntati su di me aspettavano che rivelassi loro come si scrive una storia, quaderno e penna impugnati come armi. Dovevo tenere una lezione alle quinte elementari della scuola dove insegno, in occasione del concorso di narrativa che coinvolge tutte le classi, dalle elementari alle superiori. Come innescare il desiderio di scrivere un racconto sulle «radici», tema di quest’anno? Ogni scrittura comincia dalla meraviglia, per provocare la quale serve fare quelli che chiamo «esercizi di rispetto». Rispetto viene dal latino re-spicere: guardare più volte (avere ri-guardo), con attenzione; il contrario è dispetto, da de-spicere, guardare dall’alto in basso, disprezzare. Lo sguardo non è mai neutro: o «rispetta» o «dispetta». Nel primo caso genera «in-contro», la vita personale viene arricchita da ciò che accoglie, lo sguardo diventa l’interruttore che accende le cose che così si e ci illuminano. Nel secondo caso c’è solo «scontro», urto fugace di vite: sia le cose sia noi rimaniamo al buio, indifferenti. Ho invitato i bambini al silenzio, condizione del rispetto (niente può «venire alla luce» senza avere prima un grembo), per ri-cordare (mettere nel cuore) tutte le radici che conoscevano, e poi descriverle con precisione, perché, come scrive Dostoevskij: «La realtà ha una profondità tale che non si trova neanche in Shakespeare, basterebbe avere gli occhi e la forza di penetrare fino in fondo l’avvenimento». Occhi e profondità: sguardo e coraggio di andare «fino in fondo».
Nei bambini, ancorati alla vita-tutta-intera, gli occhi sono ancora capaci di rispetto e quindi di illuminare le cose perché «avvengano» (vengano a noi): «le radici sono una rete», «alcune si mangiano», «puzzano», «non si vedono», «sono forti», «si fanno strada sempre», «danno vita»… Per ogni «scoperta» ipotizzavamo una storia ispirata al «punto di vista» di ogni bambino. Adesso l’immaginazione, attivata dall’incontro con la realtà, doveva portare a termine la ricerca, con la scrittura: la meraviglia ha due momenti, uno di ricezione, concepisce, e uno di azione, partorisce. Oggi però incontrare cose e persone è difficile, non tocchiamo più direttamente la stoffa della natura o la carne delle persone, il silenzio, il corpo, i cinque sensi sono quasi spariti. Percepiamo l’ambiente, da amb-ire: andare intorno, senza andarci, ma attraverso uno schermo che (lo dice la parola) ci protegge dalle cose e dalle persone che contattiamo. La ricerca «We are social 2019» ha rilevato che in Italia passiamo 6 ore al giorno in rete, 2 sui social, 3 con la tv (broadcast, streaming, on-demand). La nostra vista, e quindi la nostra vita, è dispersa, come urla Nada in una recente canzone (ed efficace video): «Dove sono i tuoi occhi?».
La riconquista degli occhi smarriti è sfida educativa prioritaria per noi adulti e, solo dopo, per bambini e ragazzi.
Ma che cosa comporta «rispettare», avere occhi, per qualcosa? Suscitare la vita che ha da donare. Non basta imbattersi (letteralmente «scontrarsi») in qualcosa o qualcuno, anonimo meccanismo di azione e reazione. Per incontrare occorre invece accogliere volontariamente cose e persone, lasciarsi sedurre dalle loro particolarità; cioè, perché ci sia incontro, bisogna impegnare la propria libertà e il proprio tempo, cioè quell’attenzione che il poeta Paul Celan definiva «la preghiera spontanea dell’anima» e, senza la quale, smettiamo, prima, di meravigliarci, e poi, di amare. Sì, di amare. Incontrare qualcosa o qualcuno infatti spinge a prendere posizione nei suoi confronti: una volta percepita la vita unica che ha dentro, non possiamo rimanere in-differenti (chi appunto non coglie le differenze). Prendere posizione è l’inizio dell’amore per l’altro, ci sentiamo «toccati» dal suo valore e il nostro cuore «si apre». Questo non è garantito con ciò che è dietro uno schermo: non è incontro, ma una preparazione («virtuale» non vuol dire falso o irreale, ma potenziale), che può portare a un incontro vero e proprio. L’incontro avviene solo nello spazio-tempo del rispetto: siamo, qui e ora, un tu e un io e io non mi aspetto nulla da quella cosa o persona, ma ne amo la semplice presenza. In rete non cerchiamo l’altro da noi, ma l’altro per noi, per divertirci e rilassarci; l’incontro invece è cogliere l’unicità corposa della presenza, proprio perché non ci aspettiamo nulla, come accade ai poeti: si allontanano da sé per ritrovarsi nello stupore per l’altro. Non impongono se stessi ma servono la vita che tutti diamo per scontata, la guardano da amanti ed essa corrisponde: dalle creature del Cantico di Francesco alla Ginestra di Leopardi. Dimenticano se stessi e si ritrovano accresciuti dalla vita a cui si sono aperti. Il rispetto è sguardo poetico, non possiede ma riceve, fa un passo indietro per avere più orizzonte: Cézanne si faceva bastare una mela per svelare il mondo intero. Vivere è l’arte di riceversi da quel che incontriamo, mettendo in gioco la nostra vita, il contrario del giocare con la vita altrui, cercando nello «specchio-schermo» la nostra immagine proiettata su tutte le superfici che contattiamo.
I nemici dell’incontro sono quindi Abitudine, Indifferenza, Pienezza di sé, Pregiudizio, Comodità, che spengono la vista e quindi la vita. Senza cambio di centro di gravità, che è il rispetto, non incontriamo nulla. Entriamo in «connessione» con milioni di cose, ma di nessuna «sentiamo» la vita: tocchiamo (lo schermo è touch) senza essere toccati, e la nostra vita interiore, apparentemente gravida, è soltanto gonfia. Una cultura senza «rispetto» è fatta di anonimi in lotta fra loro per farsi un nome più grande. L’incontro invece ci permette di ricevere quel nome: «Quando tu mi hai scelto/- fu l’amore che scelse -/sono emerso dal grande anonimato/di tutti, del nulla», come scrive Pedro Salinas. Dare il nome è entrare in relazione con le cose e amarle: dirle bene è bene-dirle, dirle male è male-dirle, come sanno bene i poeti, e tutti coloro che non scappano dalla realtà.
Ne ho avuto conferma recentemente da un 14enne milanese. La sua classe è andata in viaggio in Sicilia e, avendo letto il mio Ciò che inferno non è, una delle tappe sarebbe stata nel problematico quartiere palermitano di Brancaccio. Erano preparati a non ridurla a una «visita» ma una «vista», cambio di sguardo. Così è stato durante «l’incontro» con i bambini del quartiere, tanto che il ragazzo ha voluto raccontare a un insegnate che cosa gli era accaduto fissandone uno: «Gli occhi mi si sono fermati su quell’anima: l’espressione sicura lo faceva sembrare più grande di me, ma lo sguardo non osava incrociare il mio, aveva timore. Nonostante l’espressione adulta, provava vergogna nel guardarmi negli occhi. Nelle pupille non riuscivo a vedere i sogni di un bambino. Io e lui due persone uguali, ma una fortunata e l’altra non abbastanza. Mi è passato per la testa il pensiero di lui che partiva con i miei compagni al posto mio ed io rimanevo lì a Brancaccio. Il suo ricordo andrà sparendo dai miei pensieri presi da inutili cose? Ho visto il fiore che cresce nella pietra, la luce che si fa strada nel silenzio, la vita che i bambini cercano. Ho capito che l’uomo può essere crudele privando qualcuno della vita, ma anche buono salvando la vita di qualcuno dedicando la propria». È la descrizione di un incontro che lascerà il segno nella memoria perché, quando si affronta la realtà si esce dall’in-differenza, si cresce e si diventa vivi. L’incontro è un cambio di sguardo in cui l’io diventa tu e il tu io: i legami tra le cose e le persone, prima nascosti, diventano evidenti, e in quanto legami «sentiti» ci impegnano, se vogliamo, a difendere e accrescere la vita accolta. L’indifferenza dei ragazzi per lo studio (o altro) riflette il mancato «incontro» con autori e scoperte, incontro che accade solo se siamo noi adulti i primi testimoni dell’accrescimento di vita ricevuto da quegli autori e quelle scoperte. La vita si contagia con la vita, non bastano i programmi e le regole. Solo chi sente la vita ne scopre le incrollabili radici d’amore, e vuole proteggerle e coltivarle in sé e negli altri. È un esercizio che imparo nel fare con calma l’appello mattutino: incontro o mi scontro con i volti? (Confesso però che se non ricevessi su di me questo sguardo, da Dio, familiari e amici, non potrei mai accordarlo ad altri).
Per liberare l’ego dalla prigione del «dispetto» e del «disamore», il letto da rifare oggi è proporsi almeno un «esercizio di rispetto» al giorno, fissando l’attenzione su una «vita» (anche la nostra) che abbiamo sotto gli occhi per incontrarla, fino a sentire il peso luminoso della sua unicità per poi difenderla e accrescerla. Basta chiedere a chi abbiamo vicino ogni giorno quale sia la sua gioia o il suo dolore più grande; prendersi cura di una pianta; chiedere «come stai» e ascoltare la risposta senza interrompere; leggere una poesia; pregare; camminare senza cellulare e senza meta se non tutto ciò che incontriamo; toccare la corteccia di un albero; osservare un volto durante una chiacchierata, tenendo spento il telefono…Rispetto: fare un passo indietro, prestare attenzione, nel silenzio aprirsi, per ricevere la presenza corposa di cose e persone, senza scappare per paura di lasciarsi ferire. Potrebbe allora accadere un incontro. Persino un amore. Dove sono i tuoi occhi?
Fonte: Corriere.it