Lo showman: “La risata uno stile di vita. Viviamo in un mondo che non ha più poesia”
Non mi definisco un attore, ma un artista“. Pippo Franco (alla nascita Francesco Pippo) tiene a precisarlo mentre racconta gli albori di una carriera in cui puoi trovare di tutto: musica, cinema, televisione e teatro. La passione mai sopita è, però, quella per il cabaret, cui ha dedicato la gran parte della sua vita come volto di punta della compagnia del Bagaglino. Oggi, forte di oltre 5 decenni d’esperienza fuori e dietro le quinte del mondo dello spettacolo, può guardare con la giusta dose di saggezza ed equilibrio le nuove leve della comicità italiana.
Quando ha capito che nella vita avrebbe fatto l’attore?
“Attraverso vari passaggi. Dopo il liceo artistico ho iniziato a fare il pittore e, contemporaneamente, il musicista in un gruppo da me formato. Le prime cambiali le ho pagate così… Per alcuni anni ho fatto il disegnatore di fumetti poi il cantautore. Scrivevo pezzi fuori dalle righe, spiritosi.. Questo mi ha permesso di iniziare con il cabaret, prima a Milano e poi a Roma. E’ stato a quel punto che la parola ha preso il sopravvento sulla canzone”.
Tanti mestieri diversi che, però, hanno contribuito alla sua formazione…
“Esattamente. Sono stati, in un certo senso, un compendio dello stesso mestiere: quello del capire in sintesi, dell’esprimersi. L’umorismo, poi, mi appartiene da sempre. C’era quand’ero bambino anche se ha preso piede in età adulta”.
Di molti attori comici si dice che avessero un carattere speculare rispetto alla maschera che indossavano a teatro o sul set. E per lei? La risata è solo un lavoro o anche uno stile di vita?
“La risata non può essere un lavoro. Quello artistico è mestiere che ti appartiene, è un modo di essere. E’ quello che hai dentro e che racconti. Non è come andare a lavorare in banca”.
Nel 1969, a 29 anni, ha una parte in “Nell’anno del Signore” di Magni. Lavora insieme a un cast stellare: Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno e Claudia Cardinale. Era intimorito?
“Direi emozionato. L’unica paura che potevo avere era quella di non essere preparato, ma siccome ho studiato sempre molto non ne avevo. Se fai questo lavoro vuol dire che hai delle cose da dire e da raccontare. Cose che, sei consapevole, possono piacere o meno. Per cui il timore è un sentimento che non può trovare spazio”.
E’ possibile che in futuro il nostro cinema possa tornare su quei livelli?
“No. Ma non ne faccio un discorso di qualità, è il mondo a essere cambiato”.
In che senso?
“Parliamo di film che sono stati prodotti in tempi in cui il Paese era poetico. Sono corsi e ricorsi storici, così come non tornerà la Grecia del V e del IV secolo, non tornerà il cinema dei Fellini, degli Antonioni, dei Totò e dei Petrolini. Lo stesso discorso si può fare per la musica e per la cultura: l’Italia in quegli anni era piena di gallerie d’arte che oggi non ci sono più. E’ cambiato il mondo ed è cambiato lo spirito dell’uomo, caduto nella trappola dei mercati internazionali e della globalizzazione. Si è destrutturato il senso dell’arte ed è cresciuto quello della convenienza, della moda e dell’esteriorità”.
Il Bagaglino ha rappresentato una parte importante della sua carriera. Dietro le quinte l’atmosfera com’era, vivevate tutto con la leggerezza che trasferivate sul palco o rigore e disciplina la facevano da padrone?
“La leggerezza era verità assoluta. Il clima che il pubblico vedeva in televisione e a teatro ero lo stesso che respiravamo noi dietro le quinte. C’era un accordo fra noi, di cui in qualità di conduttore mi ero fatto promotore, che seguiva un principio semplice: la risata di uno è oro per tutti. Non solo: eravamo consapevoli di far parte di un genere che noi stessi avevamo inventato e inaugurato, insieme con Castellacci e Pingitore, autori dello show. Era un’armonia rara nel mondo dei comici, che normalmente sono invidiosi l’uno dell’altro”.
Insomma vi divertivate anche voi…
“C’era divertimento e anche un po’ di sana disperazione (ride ndr), in particolare quando avevi solo 4 giorni per imparare a memoria 70 pagine, visto che l’umorismo è fatto di un’architettura rigorosamente scritta, intervallata da pochi momenti di improvvisazione”.
Avete fatto satira anche in momenti drammatici della storia del Paese, come Tangentopoli. Avvertivate un qualche tipo di responsabilità nei confronti del pubblico?
“No, perché non prendevamo posizione. Eravamo o contro o a favore di tutti. C’interessava smascherare le realtà, non solo politiche, del momento. Sapevamo, inoltre, che la nostra satira rientrava nei canoni di quel periodo: non dare soluzioni, ma sollevare il problema, caricaturizzando ciò che già di per sé era una caricatura e rendendolo accessibile a tutti”.
Le piacciono i comici e la satira di oggi o sente di appartenere a un altro tempo?
“Non mi sento un comico d’altri tempi, perché continuo ancora a fare satira, sia pur con una maturità diversa. Apprezzo quasi tutti i cabaret contemporanei, ma sono diversi da quelli che facevamo noi. Noi venivamo tutti dalla conoscenza della povertà e della fame. Un mondo sconosciuto ai comici giovani d’oggi, nati già col cellulare in mano”.
Tra i comici più apprezzati dal pubblico d’oggi c’è anche Virginia Raffaele. Lo sketch del grammofono portato in scena a Sanremo, che l’attrice conclude urlando per 5 volte il nome di Satana, ha fatto discutere. Lei cosa ne pensa?
“La Raffaele è fra le comiche più brave oggi in circolazione. Detto questo: nessun artista cattolica avrebbe mai fatto quello sketch, per cui credo sia atea…”
E’ una sua impressione o ne è certo?
“Mi pare evidente. Un cristiano sa di cosa parliamo….”
Negli ultimi anni ha più volte parlato del suo percorso di fede. Qualcuno ha usato il termine “conversione”…
“Non sono d’accordo, così sembra che in precedenza abbia svolto una vita scellerata. Io sono sempre stato ‘convertito’. E’ vero: il successo tende a portati lontano dal senso della fede, cioè dall’umiltà. Io, però, ho sempre cercato di destrutturare il mio ego, stando attento a non identificarmi col mio essere famoso. Per cui non sono arrivato alla conversione, ci sono sempre stato dentro”.
Cosa è cambiato allora?
“Mentre prima vivevo la fede personalmente, con la maturità ho avvertito il dovere di parlarne, nella speranza di essere utile agli altri”.
Fonte: Luca LA MANTIA | InTerris.it