«Cosa può insegnare Gesù a noi musulmani?»
— 7 Marzo 2019 — pubblicato da Redazione. —La storia inizia a Istanbul, diversi anni fa, quando Mustafa Akyol viene avvicinato da un missionario protestante che gli offre una copia del Vangelo. La leggenda metropolitana, molto diffusa allora nella città sul Bosforo, è che nel libro gli agenti della Cia avessero nascosto una banconota da cento dollari. «Aprendo il libro non trovai il denaro, ma qualcosa di più interessante». Akyol oggi è un importante intellettuale musulmano, molto stimato: editorialista del New York Times e membro del Cato institute, think tank liberal. Ha pubblicato nel 2017 un libro che sta facendo molto discutere oltreoceano, ma anche nel mondo islamico: The Islamic Jesus. Sottotitolo: “How the King of Jews Became a Prophet of the Muslim”, come il Re dei giudei è diventato un profeta dell’islam.
Invitato dalla Fondazione Oasis e dal Centro Culturale di Milano, Akyol ha accettato di presentare le tesi del suo libro e confrontarsi con il presidente di Oasis, il cardinale Angelo Scola. E il pensiero di Akyol è presto detto: la figura di Gesù e il suo modo di rapportarsi con la trazione ebraica, così come vengono presentati dalle fonti cristiane, sarebbero un aiuto importantissimo per uscire dalla crisi che sta attraversando l’islam contemporaneo. E il travaglio del mondo musulmano è, anche secondo Akyol, da ricondurre all’atteggiamento letteralista e legalistico nei confronti del Corano e della tradizione islamica.
Scola, dal canto suo, interviene dicendo di aver apprezzato molto dell’opera di Akyol il tentativo rileggere le idee di califfato e di sharia non più in senso politico, ma spirituale: «Il califfo è ciascun musulmano, che ha la responsabilità di vivere una vita profonda secondo gli insegnamenti del Profeta», riassume Scola: «E la sharia letta come “Regno di Dio che è in ciascuno”, puntando sull’interiorizzazione personale». Per il Cardinale questo approccio «dà speranza e porta ragioni a questa speranza, e mi auguro che anche noi possiamo facilitarne la diffusione per alimentare il dibattito».
Il cardinale Scola approfitta per entrare in quello che potrebbe sembrare un dettaglio, ma non lo è. E cioè la predilezione di Akyol per il cristianesimo di san Giacomo apostolo, che lui contrappone a quello di san Paolo. È l’immenso – e intricatissimo – tema della “giustificazione”, su cui per secoli si è litigato tra cattolici e protestanti. Che rapporto c’è tra fede e opere? La fede basta per essere salvati o occorre anche che le azioni siano “sintonizzate” a ciò che si crede? Sembra non c’entrare con il tema del libro di Akyol, ma in realtà è centrale: la nuova via segnata da Gesù rispetto alla legge ha proprio a che fare con questo punto. «La giustificazione non è qualcosa che viene da Gesù come una realtà puramente esterna», spiega Scola: «Ma viene da Gesù come una presenza appassionata che converte il mio cuore e la mia mente e urge ad agire diversamente. È questo il rapporto tra fede e opere».
Il Cardinale chiude l’incontro con la sottolineatura dell’importanza del dialogo interreligioso nella situazione di transizione globale: «Occorre un soggetto che si giochi in prima persona. Che sia testimone. Che si ponga nella vita di tutti i giorni come qualcuno che è toccato dall’avvenimento della presenza di Cristo, cercando, nonostante i propri limiti, di cambiare la propria vita e mostrare la bellezza, la bontà e la verità del proprio cammino». Scola torna all’esempio del priore di Tibhirine, Christian de Chergé, e del suo testamento spirituale: «La mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede».