«Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle operazioni mie, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e mezzo, io non me n’avvedo, se non rarissime volte: se io vi diletto o vi benefico, non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle cose, o non fo quelle azioni, per dilettarvi o giovarvi. E se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei». Così la Natura risponde al protagonista del famoso dialogo leopardiano, l’Islandese che ha cercato in tutti i modi una felicità che sembra incompatibile con una vita ferita dalla fragilità, dagli altri e dalla realtà. Egli, scoperta la propria irrilevanza e l’indifferenza della Natura, sferra l’ultima domanda: «Dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o giova questa vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?». La Natura tace e l’Islandese in attesa della risposta muore: o divorato da due leoni affamati che sopravvivono qualche ora grazie al misero pasto; o essiccato da un vento equatoriale, che lo ricopre di sabbia e lo trasforma in una mummia conservata in un museo europeo…
Per Leopardi la Natura è un fatale meccanismo indifferente e necessario di cui l’uomo è, suo malgrado, l’unico frammento consapevole e autocosciente. Sapendo di esistere egli va oltre la Natura, la trascende, la supera: è più che naturale, è sopra-naturale. Così diventa un ricercatore di senso ma, alla domanda: «Se tutto deve morire a che serve vivere?», la Natura non sa rispondere. Leopardi sa che l’uomo è vivo proprio se non rinuncia a questa domanda da cui ha origine la creatività umana: con la cultura infatti l’uomo cerca di affrancarsi dalla corsa dell’entropia verso l’abisso e di contrastare la fine di tutte le cose. Non a caso i gesti con cui è iniziata la novità umana sono stati scheggiare la pietra, seppellire i morti, dipingere le grotte: con la cultura l’uomo, faber e sapiens, realizza la vita autenticamente umana in dialogo con la Natura, che riceve come dono e come compito.
Sono migliaia gli adolescenti scesi in piazza in quello che è stato considerato uno dei più sorprendenti fenomeni di massa dal ‘68: il #fridayforfuture. Adolescenti di fatto perfettamente integrati nella fede del Progresso e nei ritmi di produzione di cui godono il benessere e gli strumenti, si sono riversati in tutte le città occidentali spinti dal richiamo di una sedicenne svedese: Greta Thunberg. Vogliono forse vivere in campagna o tornare al mondo senza cellulari, televisori, motorini, computer, frigoriferi, aerei? Dubito. Non rinunceranno ai trionfi della Tecnica, ma credo abbiano nostalgia dell’armonia perduta tra Natura e Uomo. Naturalmente il sogno della sedicenne è stato subito – come ormai capita sistematicamente – da un lato strumentalizzato, dall’altro reso oggetto di feroci critiche. C’è chi la santifica facendone la profetessa di una vecchia religione in cui la Natura è il Bene e l’uomo il Male, le offre pulpiti e premi impensabili per la sua età, e un libro in uscita in tante lingue; c’è chi la ritiene il fantoccio di un complotto globale o la «gallina dalle uova d’oro» di genitori avidi. Di fatto, è un iconico capro espiatorio delle ideologie degli adulti, abbattuta da alcuni e divinizzata da altri, per aggregare le loro forze esangui e disperse. Ma al di là delle strumentalizzazioni e dell’azione degli spin doctor dell’opinione pubblica, che cosa ha fatto sì che i giovani rispondessero? Che cosa rappresenta per loro «questa» ragazza? Questo mi interessa prima del suo messaggio climatico, sul merito del quale proprio la scienza è tutt’altro che unanime.
Greta, come l’Islandese, ha incontrato la Natura ma, questa volta, l’ha trovata in crisi. Il dialogo leopardiano si è ribaltato: l’uomo si è vendicato della divina indifferenza naturale e si è liberato dal suo giogo. Il divorzio tra Natura e Uomo è sancito in Occidente nel XVII secolo da Francesco Bacone, che si sbarazzò della tradizione secolare per cui la verità sulle cose e sull’uomo era un’armonia divina da indagare e rispettare. Il filosofo immaginò Nuova Atlantide, città-laboratorio governata da scienziati che a qualsiasi costo devono garantire il benessere ai cittadini, la loro scienza è finalizzata alla tecnica, che serve a incatenare la Natura: «sapere è potere». La cultura non serve più a curare e ampliare il Giardino, che nel racconto biblico Dio affida ad Adamo da «custodire e coltivare» (Gn 2,15), ma a costruire un giardino alternativo, artificiale: tutto fatto dall’uomo e finalmente libero dal male. Bacone inaugura la fede nel Progresso, religione che, rimosso Dio, l’uomo occidentale ha del tutto interiorizzato, diventando l’uomo-dio raccontato di recente da Harari in Sapiens e in Homo-Deus. Il XXI sarà il secolo della biologia-cibernetica, l’uomo diventerà totalmente padrone della vita e della morte, gli ultimi presidi che la Tecnica cerca di strappare alla Natura. La conseguenza, già in atto, è una cultura che ha disfatto qualsiasi verità non «costruita» da noi: non avendo su cosa radicare il proprio stare al mondo e il senso da dare al viaggio, l’io-soggetto, ciò che sta sotto (sub-iectum) e cresce affrontando i conflitti della vita, si è sbriciolato, lasciando l’io-individuo, un io senza fondamento e destino, che deve creare e procurasi con le sue forze (se le ha): «Puoi e devi diventare ciò che vuoi: sei onnipotente». Chi nasce non riceve più la patente dell’esistenza, se la deve conquistare, ma le tante verità contraddittorie a disposizione non gli permettono di farsi «soggetto»: è un oggetto in balia di correnti emotive e di potere, una pianta che comincia dallo stelo e deve poi procurarsi le radici. Non sa da dove viene e quindi chi è e dove va, e si oppone alla disintegrazione interiore con uno sforzo titanico della volontà ma, non cercando e non trovando dentro di sé quello che vuole diventare, fallisce e si sfinisce, come mostrano disagi psichici, dipendenze e suicidi. Non può trasformare il destino ricevuto, ciò che è, in destinazione: sospeso nel vuoto egli deve fabbricarsi da solo il pavimento su cui camminare, il terreno in cui mettere radici per slanciarsi nella vita. Che cosa sono i beat rabbiosi e tribali del rap, tanto amati dai ragazzi, se non il bisogno di ancorarsi a qualcosa di primordiale, proprio mentre si solleva il frastuono di una vita che va in pezzi? Ci stanno forse chiedendo una vita più «naturale»?
Gli adulti affondano e i ragazzi cercano in una coetanea l’indicazione di un fondamento. Un tragicomico ribaltamento delle parti, in cui i giovani provano a ri-fondarsi, e gli adulti, invece di consegnare loro una storia da cui partire, li inseguono, imitano o usano. I ragazzi, orfani di senso, intravedono una via d’uscita dal nichilismo adulto, in un nuovo eroismo: vorrebbero essere come Greta, avere una visione che li definisca, li unisca e dia senso alla vita. «La Natura è una struttura stupenda che possiamo capire solo in modo molto imperfetto e davanti alla quale una persona riflessiva deve sentirsi pervasa da un profondo senso di umiltà. La mia religiosità consiste in un’umile ammirazione di quello Spirito immensamente superiore che si rivela in quel poco che noi, con il nostro intelletto debole e transitorio, possiamo comprendere della realtà. Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri», scrive Einstein: o torniamo a indagare i pensieri di Dio come creature, parola latina che indica una vita ricevuta da custodire e portare a compimento con slancio e rispetto, o distruggeremo il creato. Siamo giardinieri non creatori: la Vita non l’abbiamo fatta noi e non è a nostra totale disposizione, non c’è bisogno di essere credenti per vederlo, basta osservare la realtà e conoscere un po’ di storia. La vita umana è una corrente tra i due poli di necessità e libertà, terra e cielo, natura e cultura: se non li teniamo uniti e distinti in una verità superiore, continueremo a inquinare la Vita, e di conseguenza la Terra. L’assenza di senso, alimentando individualismo, nichilismo e consumismo, porta a non avere niente e nessuno da rispettare, ma solo potere da affermare: questo è il clima in cui la Vita soffoca e muore.
Una sedicenne ha risvegliato nella sua generazione la nostalgia di una Vita «naturale». Ma credo che prima di «che mondo lascerete ai vostri figli?» ci stia chiedendo «a quali figli lo lascerete?». Lo sapranno curare e sviluppare solo quelli a cui avremo dato non solo la vita ma il senso della vita. E che senso ha? Lo sappiamo dire loro? La risposta non ce l’hanno né il Progresso né la Natura. Il letto da rifare è allora chiedere periodicamente a vostro figlio/a: «Che cosa fai oggi per rendere la Vita migliore di come l’hai trovata?». E se di rimando vi chiederà: «Tu cosa fai?». Che cosa risponderete (oltre a: «ho fatto te»)?
Fonte: Corriere.it