La Cina che verrà, crisi economica e persecuzione dei cristiani
— 24 Novembre 2014 — pubblicato da Redazione. —Con il califfato islamico che minaccia il mondo, i venti di guerra in Ucraina, la pressione fiscale da record in Europa e la lobby gay che ogni giorno ne inventa una nuova, tocca preoccuparsi pure della Cina? Sembra di sì, a giudicare dalle copertine delle principali riviste economiche internazionali di questo mese di novembre. Mentre Forbes e Bloomberg Businessweek annunciano una crisi economica cinese prossima ventura che finirà per colpire duramente tutti noi, l’Economist mette in copertina la rinnovata persecuzione dei cristiani in Cina.
Se davvero ci sarà una crisi economica in Cina, le sue ripercussioni internazionali rischieranno di innescare un terremoto economico mondiale peggiore di quello del 2008. Basta pensare al fatto che la Cina detiene una percentuale del debito pubblico degli Stati Uniti valutata al 7,7% e del debito pubblico italiano su cui non esistono dati ufficiali ma che il Financial Times stima intorno al 4% e l’allora ministro degli Esteri Frattini nel luglio 2011 addirittura al 13%. Se la Cina volesse o dovesse vendere tutti o molti di questi titoli di Stato all’improvviso, le ripercussioni sarebbero devastanti.
Perché gli analisti prevedono una crisi della Cina, e anzi qualcuno scrive che per il mondo sarebbe meglio se scoppiasse subito, anziché essere ritardata da misure del governo cinese? Il punto di partenza è chiedersi come ha fatto la Cina, un tempo Paese povero, a diventare la seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti per PIL. Le ragioni, come sempre, sono diverse, ma una sovrasta le altre: la Cina, il Paese più popoloso del mondo (un miliardo e trecentocinquanta milioni di abitanti), ha o almeno aveva una straordinaria forza lavoro, disponibile a lavorare per salari più bassi rispetto alle altre grandi economie mondiali e anche con minori controlli quanto alla sicurezza e all’ecologia. Con la fine dell’epoca maoista questa forza lavoro è stata sia motivata – perché, pur sottopagata rispetto ad altri Paesi, le è stato concesso di accedere a un modesto benessere – sia messa a disposizione del mondo, con la fine dell’isolazionismo cinese. La Cina ha cominciato a corteggiare le più grandi aziende mondiali perché delocalizzassero la loro produzione nei vari distretti industriali cinesi, attirate dai bassi costi del lavoro, dall’assenza di sindacati indipendenti e dalle norme rilassate – per usare un eufemismo – in materia di sicurezza del lavoro e di inquinamento. Il successo è stato spettacolare, con margini di crescita annuale del sette per cento mantenuti per decenni.
Detto in termini semplici, la forza della Cina era che c’erano tanti cinesi, e che – rispetto ai tempi di Mao – non erano semplicemente costretti a lavorare, ma premiati con un effettivo miglioramento del tenore di vita, così che a poco a poco diventavano anche consumatori e nel Paese si creava un mercato interno che affiancava l’esportazione. Tuttavia un terzo dell’intero PIL cinese nel primo decennio del XXI secolo derivava dalle esportazioni. Le esportazioni sono ora diminuite: non per colpa dei cinesi, ma della crisi economica internazionale che dal 2008 ha contratto il consumo in Occidente. Come numerosi studi hanno dimostrato, tutta la macchina dell’economia cinese e del suo successo è stata costruita sul presupposto di una crescita continua del PIL trainata dalla crescita della sua produzione industriale. La diminuzione di questi indicatori semplicemente non è prevista. La Cina è come un’automobile che o gira a pieno regime o non gira del tutto.
La Cina ha reagito alla diminuzione delle esportazioni stimolando la produzione e il consumo interni tramite la creazione di quella che gli analisti chiamano una bolla del credito. Le crisi economiche iniziano spesso per colpa di crediti concessi dalle banche e che non possono essere ripagati, determinando la crisi delle banche e a catena di tutta l’economia. In Occidente nel 2008 si trattava di crediti concessi a privati non affidabili per l’acquisto di immobili. In Cina si tratta invece di crediti concessi alle imprese con lo scopo di sostenere la produzione.
Gli economisti sono perplessi di fronte a questa bolla creditizia perché l’hanno già vista esplodere una volta, nella crisi del Giappone del 1997 che anticipava di dieci anni la crisi dell’Occidente. Anche in quel caso, diminuendo le esportazioni, il Giappone aveva cercato di mantenere la produzione con il credito allegro. La bolla era scoppiata quando i crediti inesigibili erano arrivati all’8%. In Cina sono già oltre il 10%. Un governo non democratico può rimandare lo scoppio della bolla: ma non all’infinito.
La diminuzione della domanda di prodotti cinesi da parte dell’Occidente, conseguenza della crisi economica occidentale, è solo una delle due ragioni della difficoltà economica in cui versa la Cina. La seconda ragione è demografica. Qualche anno fa sarebbe sembrato assurdo sostenere che il problema della Cina era che c’erano troppo pochi cinesi, e ancora oggi il numero di cinesi continua a crescere, sia pure con percentuali dello zero virgola. Eppure è vero: i cinesi stanno diventando troppo pochi.
Per ragioni non principalmente economiche ma ideologiche – e anche perché gli strateghi del Partito Comunista credevano a tesi fallaci avanzate da organizzazioni internazionali – nel 1979 la Cina ha iniziato il più grande esperimento demografico della storia con la politica del figlio unico. All’inizio la donna che restava incinta per la seconda volta e non abortiva tempestivamente era fatta abortire a forza. In seguito i metodi sono diventati meno brutali, ma le forti multe hanno continuato a scoraggiare chiunque dal violare la legge, tranne pochi ricchi. Il tasso di fertilità delle donne cinesi è sceso all’1,45%, che non è il più basso del mondo perché l’Italia – senza leggi sul figlio unico – è all’1,4%, ma che resta lontanissimo dal tasso di rimpiazzo del 2,1% che permette alla popolazione di rimanere stabile.
Ma, si obietterà, dal 1979 la popolazione cinese è aumentata da circa un miliardo a un miliardo e trecentocinquanta milioni, nonostante la legge sul figlio unico. È vero, ma nel frattempo è cambiata drammaticamente la composizione demografica, da due diversi punti di vista. Primo: la Cina, un tempo un Paese di giovani, ha ora una percentuale di ultra-sessantacinquenni che marcia verso il 30% previsto per il 2030. La forza della Cina era il «dividendo demografico», cioè una popolazione composta in grande maggioranza da adulti in età lavorativa. Questa forza si sta rapidamente esaurendo, e la Cina – un Paese che ha tradizionalmente un grande rispetto per gli anziani, per cui (per fortuna) nessuno propone l’eutanasia e la popolazione reclama un buon trattamento dei vecchi – si trova, esattamente come l’Europa, con tanti pensionati e sempre meno lavoratori per mantenerli.
Secondo: la politica del figlio unico, insieme alla tradizione cinese per cui per l’onore e la prosperità della famiglia è sempre preferibile il figlio maschio, ha portato alla conseguenza, forse non prevista, che sono state abortite – talora anche uccise dopo la nascita, con pratiche di infanticidio selettivo – molte più bambine che bambini. Oggi nascono 118 maschi ogni 100 femmine ma in passato le cose andavano anche peggio, così che un quinto dei cinesi maschi che oggi arriva all’età adulta può importare una moglie dalla Corea o dalla Siberia russa, emigrare in cerca non solo di fortuna ma anche di una moglie o non sposarsi del tutto: un problema che destabilizza la società in diversi modi.
I dirigenti cinesi si rendono conto di questi problemi, e stanno gradualmente modificando le leggi sul figlio unico. Dal 2013 sono permessi due figli alle coppie dove almeno uno dei due genitori era a sua volta figlio unico. Tuttavia i primi dati non sono confortanti. Molte coppie cui sarebbe ora permesso dalla legge avere due figli continuano ad averne uno solo. Come ha scritto sulla rivista Forbes lo specialista di cose cinesi Gordon G. Chang, la riforma del 2013 è un classico caso di «troppo poco e troppo tardi» perché «alcuni, dopo decenni di indottrinamento, non vogliono un secondo figlio e altri non possono permetterselo» a causa delle difficoltà economiche.
Oltre ai costi per il mantenimento di una crescente percentuale di anziani, lo squilibrio demografico della Cina fa sì che la forza lavoro sia diminuita, e nello stesso tempo sia meno produttiva, sia per i problemi sociali creati dallo squilibrio tra maschi e femmine sia per l’effetto descritto da Luca Ricolfi nel suo libro «L’enigma della crescita» (Mondadori, Milano 2014). L’accresciuto benessere, spiega Ricolfi, rende meno determinati nel lavorare e produrre, dunque meno ferocemente produttivi, perfino i cinesi.
I dirigenti politici cinesi negano di essere sulla strada del Giappone e insistono che in un’economia pianificata le transizioni si possono governare. Ma nello stesso tempo stanno adottando un gigantesco piano B, che consiste nel delocalizzare una parte della produzione cinese in Africa, un continente che non ha problemi demografici. Siamo abituati a considerare la Cina un Paese dove si delocalizza. Ma in realtà è diventato un Paese che delocalizza, come spiega il giornalista Howard French nel suo recente «China’s Second Continent» (Knopf, New York 2014).
La Cina secondo French è ormai un impero che si stende su due continenti, l’Asia e l’Africa. A partire dal Forum di Pechino del 2006 sulla cooperazione sino-africana, la Cina ha investito venti miliardi di dollari in Africa in tre anni mentre il resto del mondo tramite la Banca Mondiale ne ha investiti diciassette miliardi. In più la Cina ha spostato come tecnici o emigranti più o meno pilotati dal governo un milione di cinesi in Africa. Si aggiunge che i dittatori africani vedono di miglior occhio le fabbriche cinesi che quelle europee e americane perché certamente i cinesi non sollevano problemi sui diritti umani. Certamente il progetto cinese ha fini politici di tipo neo-colonialista – i dirigenti di Pechino si sono accorti che nessuno si occupa dell’Africa né ci crede, e hanno deciso di occuparsene loro – ma anzitutto si tratta di una vasta impresa di carattere economico, i cui esiti saranno da verificare nei prossimi decenni. Nel frattempo, la Cina ha annunciato che entro il 2020 raddoppierà i suoi investimenti in Africa decisi nel 2006, e li quadruplicherà entro il 2030.
Ultimamente però il problema della Cina non è solo economico ma culturale, come dimostra la grande campagna di distruzioni di chiese che si sta verificando soprattutto a Wenzhou, una città di nove milioni di abitanti chiamata «la Gerusalemme cinese» per il grande successo delle comunità protestanti. Quest’anno il governo vi ha fatto distruggere 230 chiese, affermando che erano state costruite illegalmente. Queste azioni sono parte di un andamento pendolare, in base al quale il regime per un po’ tollera e poi stronca l’espansione del cristianesimo al di fuori delle chiese «patriottiche» i cui dirigenti e vescovi sono nominati dal governo, le sole ufficialmente autorizzate. Le periodiche campagne di repressione tuttavia non frenano questa espansione.
C’è un grande dibattito su quanti siano i cristiani in Cina – il più noto sociologo delle religioni vivente, Rodney Stark, dedicherà al problema il suo prossimo libro – e si va dai sedici milioni dichiarati dal governo alle cifre tra cento e duecento milioni fornite da agenzie missionarie protestanti. Stark e il sociologo cinese Yang Fenggang, adottando metodi di calcolo rigorosi, arrivano alla cifra di settanta milioni. La crescita annuale intorno al dieci per cento, dovuta soprattutto a conversioni dei più benestanti e dei più istruiti, «l’élite della nazione» come ha detto qualche mese fa Stark in una intervista al nostro quotidiano (clicca qui).
Prima della rivoluzione comunista in Cina c’erano tre cattolici per ogni protestante. Oggi ci sono dieci protestanti per ogni cattolico. «La spiegazione è semplice – spiegava Stark nella stessa intervista –. Non è che i missionari o il clero cattolico siano meno attivi e anche eroici dei protestanti. I cinesi amano molto i riti e le cerimonie e questo prima della Rivoluzione era un punto di forza del cattolicesimo. Ma dopo la Rivoluzione è diventato un fattore di debolezza, perché è più facile nascondere alle persecuzioni una religiosità con riti ridotti all’osso e che possono essere praticati in casa e in silenzio, come è quella di molto protestantesimo cinese, che una Messa cattolica, dove magari ai cinesi piace anche cantare».
Al di là delle statistiche, la rinascita religiosa e l’atteggiamento oscillante e incerto del regime – che comprende momenti di relativa tolleranza rapidamente sostituiti da campagne di persecuzione – mostra tutto il dilemma della Cina. L’inchiesta dell’Economist cita una serie di voci autorevoli che si esprimono sui quotidiani cinesi e che prevedono o auspicano che, dopo l’apertura alla proprietà privata del 2004, il Partito Comunista cinese, se vuole sopravvivere, dovrà aprire anche alla religione e alla libertà religiosa. Ma, come scriveva Karl Marx negli «Annali franco-tedeschi» del 1844, per il marxismo «la critica della religione è il presupposto di ogni critica». Abolendo la critica della proprietà privata sostituita dal famoso slogan «arricchitevi» del comunismo in Cina è rimasto poco. Abolendo la critica della religione non resterebbe nulla, o meglio resterebbe solo un regime non democratico privo di giustificazioni ideologiche e circondato da sempre minore consenso. Il minimo di consenso necessario a sopravvivere è stato finora garantito dai successi economici. Se i successi fossero sostituiti dalla crisi economica si aprirebbero scenari diversi.
di Massimo Introvigne | in LanuovaBQ