Un caso concreto ci mostra quando un datore di lavoro e i suoi dipendenti creano davvero una comunità per rispondere a un bisogno
Sinora, mi accorgo di aver usato lo spazio che mi viene concesso su questa testata per lamentarmi: degli enti pubblici, dei giudici, delle leggi, del tempo, del governo… Per cui, quando ho appreso la storia che vado a raccontare, ho pensato subito di avere l’occasione di rimediare alla mia malevolenza.
Una lavoratrice è sposata con un uomo che ha una grave malattia invalidante, che lo costringe a pesanti cure e a interventi invasivi, in strutture poste in due distinte città fuori dalla propria regione. La moglie, per come può, lo assiste; e il datore cerca di aiutarla e sostenerla in tutti i modi. Oltre al lavoro a tempo parziale, di cui già godeva, le concede tutte le ferie e i permessi che la sua lavoratrice le chiede, fino a che la lavoratrice “va in debito” di circa 200 ore tra ferie e permessi. La legge in tali casi non offre nessun soccorso.
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L’ipotesi di concederepermessi non retribuiti o anche una sospensione consensuale del rapporto, cui il datore era pure disponibile, non era praticabile perché una retribuzione, in casi come questo, era più che necessaria per la lavoratrice, anche per coprire le spese per raggiungere il marito. L’art. 33 della legge n. 104 del 1992 consente al lavoratore di fruire di permessi retribuiti per assistere familiari con handicap in situazione di gravità; ma tale diritto, per ragioni anche evidenti (altri stanno assistendo il malato), non è concesso quando il soggetto sia ricoverato a tempo pieno.
L’art. 24 del d. lgs. n. 151 del 2015 (uno dei provvedimenti riconducibili al pacchetto di misure denominato Jobs Act) ha introdotto l’istituto delle c.d. ferie solidali, ossia la possibilità di cedere ai propri colleghi – alle condizioni dettate dai contratti collettivi nazionali – i giorni di ferie che eccedono il limite minimo; ma anche tale possibilità era preclusa, visto che ci si può fare cessionari solo per assistere i propri figli minori, e non il coniuge.
L’imprenditore, anche raccogliendo e facendosi interprete di un sentimento che avvertiva nei suoi dipendenti, colleghi della lavoratrice, si informa, studia, contatta consulenti e professionisti. Alla fine, la soluzione cui perviene è per certi versi geniale: l’azienda stipula un accordo sindacale aziendale che in parte estende in parte amplia la possibilità di cedere i propri permessi/ferie retribuiti; ciascun lavoratore può in forma anonima cedere ore di riposo; il datore, dal suo canto, concede – per ogni ora di ferie/permessi donata alla collega bisognosa – un ulteriore periodo pari al 25% di quanto donato ed eventualmente reintegra le ore di ferie/permessi a quei lavoratori che abbiano voluto donare più di quanto possano ai sensi di legge.
È significativo che abbiano partecipato alla donazione non solo i lavoratori della filiale presso cui è adibita la lavoratrice, ma anche quelli delle altre due filiali, che nemmeno conoscevano la donna, fino a totalizzare 610 ore di riposo per la lavoratrice. La donna ha potuto assistere suo marito; ha conservato il posto e la retribuzione. Questi i fatti.
A me di questa vicenda colpisce che, in un’epoca in cui si ragiona delle realtà aziendali o in termini oppositivi (padrone/operai) o in termini (talvolta ipocritamente) comunitaristici (il mantra che si sente ripetere del “fare squadra” o il vezzo di promuovere iniziative comuni per i collaboratori, ecc.), ci siano aziende che sono comunità, cioè gente che tende a fare unità per uno scopo condiviso. Aziende in cui il datore di lavoro ha realmente a cuore i propri collaboratori, non paternalisticamente, come certe esperienze dell’inizio del secolo scorso han pur meritoriamente mostrato, ma chiamandoli a condividere le cose di cui si accorge e di cui gli stessi suoi collaboratori gli fanno accorgere, a condividere gli ideali che lo animano e i tentativi che mette in campo.
Questo modo di muoversi non è qualcosa di estraneo o parallelo allo scopo precipuo dell’impresa, ma è parte di esso, è condizione perché questo si possa perseguire in maniera più efficace ed efficiente. In Italia, esistono realtà di questo genere, o meglio ancora esistono persone di questo genere: penso, solo per citare un esempio mirabile, alla bolognese Faac.
Ora, il dettato paolino imporrebbe di evitare di vantarsi e di gonfiarsi… ma io invece mi vanto e mi onoro di conoscere e di essere amico dell’imprenditore che ha realizzato questa opera: si chiama Carlo Izzi, legale rappresentante della Izzi Group s.r.l. di Isernia.
P.S.: La cartina di sole che mi ha fatto commuovere, che mi ha fatto pensare che in Carlo non c’è un filo di paternalismo, che esperienze del genere sono convenienti sotto tutti i punti di vista, è la seguente: mi dice Carlo che lui e il marito della lavoratrice son diventanti amici!
Fonte: IlSussidiario.net