È la prima volta che un Comitato Onu interviene platealmente su una vicenda di peso internazionale, esponendosi in modo inedito
L’intervento del Comitato Onu dei Diritti delle persone con disabilità, che ha salvato la vita a Vincent Lambert almeno per i prossimi sei mesi, è un precedente importantissimo, e potrebbe essere una vera e propria pietra di inciampo nel dilagare apparentemente inarrestabile delle leggi su eutanasia e suicidio assistito.
È la prima volta che un Comitato Onu interviene platealmente su una vicenda di peso internazionale, esponendosi in modo inedito. Lo può fare grazie al protocollo aggiuntivo della Convenzione stessa, dove è previsto che il Comitato che ne monitora l’applicazione da parte degli stati che l’hanno sottoscritta può ricevere segnalazioni di sue violazioni, procedere per indagare e pronunciarsi nel merito. Il suo parere non è legalmente vincolante ma ha un peso politico straordinario, e l’atteggiamento del ministro della Sanità francese lascia capire l’intenzione di attenersi a quanto verrà indicato.
Fra i vari articoli di cui si contesta la violazione, uno in particolare, il n.25, che prevede l’obbligo degli Stati di «prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità», è stato formulato mentre si lavorava ancora sul testo della Convenzione, inserito dopo la drammatica morte di Terri Schiavo, proprio per evitare che quella tragedia si ripetesse.
Se il Comitato si pronunciasse per continuare a far vivere Vincent Lambert, porrebbe un vero e proprio argine alla mentalità e alle leggi eutanasiche, solitamente introdotte dietro la maschera dei legittimi rifiuto e rinuncia delle cure. Nancy Cruzan e Tony Bland, Terry Schiavo e Eluana Englaro: i principali “casi famosi” che hanno traghettato l’idea secondo la quale in certe condizioni è preferibile morire perché “quella non è vita”, riguardano persone in stato vegetativo, non in fin di vita e sostenute solo da alimentazione e idratazione artificiale.
Ne spiega le ragioni Maurizio Mori, a lungo Presidente della Consulta di Bioetica – l’associazione che più di tutti ha sostenuto le richieste di Beppino Englaro – nel suo Il caso Eluana Englaro:
«Il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina. Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana. Sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali implica abbattere una concezione dell’umanità e cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell’ippocratismo e anche prima nella visione dell’homo religiosus, per affermarne una nuova da costruire. Come Porta Pia segna la fine del papa re e di un paradigma del ruolo sacrale della religione in politica, gettando le basi di un’aurorale democrazia in Italia, così il caso Eluana segna la fine (sul piano teorico) del paternalismo in medicina e di un paradigma medico fondato sul vitalismo ippocratico, gettando le basi di un aurorale controllo della propria vita da parte delle persone».
Il percorso eutanasico ha uno schema che si ripete spesso, a tre passi. Il primo è utilizzare una condizione estrema come lo stato vegetativo, dove la perdita di autonomia e di comunicazione con l’esterno è evidente a tutti, anche ai non addetti ai lavori: sono queste le condizioni per cui è più facile far passare l’idea che morire può essere preferibile a vivere. Il secondo è definire idratazione e alimentazione artificiali come “trattamento sanitario”, anziché riconoscerle come accudimento; si sposta l’attenzione sul presidio sanitario necessario, cioè il sondino o la peg, sottolineando che serve un medico per applicarlo a una persona.
Il terzo è la logica conseguenza: per ogni trattamento sanitario è necessario il consenso del paziente, consenso che sarebbe scontato se si parlasse esplicitamente di sostegno vitale, cibo e acqua – chi chiederebbe mai di morire, o far morire qualcun altro, di fame e di sete? In quale legge potrebbe essere scritto con chiarezza? –, e che non lo è più se il sostegno lo si chiama “terapia”.
Gli estremi per un contenzioso ci sono tutti. Anche nei casi in cui c’era accordo fra familiari, rappresentanti legali e medici, le leggi di tutti i paesi occidentali erano ispirate al favor vitae, e procedere al distacco di alimentazione e idratazione di una persona costituiva sempre un reato: inevitabile il coinvolgimento di un tribunale.
I contenziosi vinti da chi chiedeva l’interruzione dei sostegni vitali hanno quindi aperto la strada a un nuovo paradigma, dove la scelta di morire ha lo stesso valore di quella di vivere, e la sospensione di alimentazione e idratazione viene legittimata, equiparata a un atto medico. La morte medicalmente assistita entra così a far parte del corredo delle opzioni terapeutiche, anche se estreme. La parola eutanasia non compare mai, e se si parla di suicidio si accompagna sempre a “assistito”, per sottolinearne la “sicurezza”, rispetto alla drammaticità di chi si butta da solo da un ponte. Ma è questione di tempo: una volta cambiata la mentalità e acquisita la nuova prospettiva, soprattutto da parte dei medici, prima o poi arriveranno anche leggi ulteriori ed espressioni esplicite.
Se invece la persona in stato vegetativo è riconosciuta come “disabile”, vengono meno tutti i presupposti di cui sopra, perché all’idea di “disabile” non si associa quella di “vegetale”, “quasi morto”, “vita solo biologica”. Un disabile è un cittadino, indubbiamente vivo e tutelato dalla legge in ogni paese civile. Difficile ammettere che sia una “ostinazione irragionevole” dargli da mangiare e da bere, anche con un presidio sanitario: si sa che i disabili ne usano sempre, di tutti i tipi.
Se il Comitato Onu darà ragione ai genitori di Vincent Lambert, quindi, sarà un vero sconquasso rispetto al quadro normativo eutanasico che abbiamo appena descritto, perché ne verranno minati i presupposti. Non è difficile ipotizzare che i prossimi sei mesi saranno complicati, per il Comitato: la riservatezza a cui è tenuto non lo terrà certo al riparo da pressioni esterne, inevitabili. La sua decisione finale, qualunque sia, è destinata a lasciare un segno pesante. Speriamo tutti sia un segno di vita.
Fonte: Assuntina Morresi | Tempi.it