L’obiettivo immediato è rendere culturalmente e socialmente accettabile anche in Italia l’idea della surrogazione di maternità. L’obiettivo remoto è giungere alla discussione di una legge che la consenta e la regoli. La strategia perseguita per entrambi gli obiettivi, immediato e remoto, è ora straordinariamente chiara. Passa innanzitutto dall’affermazione di parole ed espressioni che evochino pensieri positivi.
«Gravidanza per altri» (Gpa) anziché «utero in affitto»; «solidale» anziché «commerciale», «rimborso spese» anziché «compenso». E poi, come si è capito ieri a Roma, nella sede della Cgil nazionale dove un cartello di associazioni radical-arcobaleno ha presentato due proposte per la legittimazione della surrogazione di maternità: corroborare la narrazione con storie di vita, drammi a cui si “deve dare” una risposta in nome del diritto di ciascuno alla felicità e a soddisfare i propri desideri e aspirazioni. Storie che semplificano la complessità e stemperano la durezza della questione, tendono a colpire l’opinione pubblica per indebolirne diffidenza e sconcerto.
Maria Sole, nata senza utero per una malattia rara, non ha forse diritto a un figlio tutto suo? E Novella, dopo una gravidanza andata male che le è costata la possibilità di riprovarci, non ha forse diritto di realizzare la sua vocazione di essere madre? Beninteso, attraverso il “dono” di un’altra donna che presta il suo grembo per puro spirito di solidarietà. Per Maria Sole, Novella, e per ciascuna delle centinaia di altre giovani donne sfortunate c’è pronto un ricorso in Tribunale, al quale l’Associazione radicale Luca Coscioni chiederà l’autorizzazione ad avviare una «gestazione per altri solidale».
Riecco la strategia: attraverso i Tribunali, tentare di picconare ulteriormente la legge 40 sulla fecondazione assistita per piegarla ad altre logiche, diverse da quelle per la quale è stata approvata dal Parlamento. E intanto, provare a portare avanti i progetti di legge presentati ieri. Colonizzare teste e testi, pensieri e corpi. Ma la manipolazione della realtà ha limiti oggettivi.
È troppo sbrigativo sostenere che la surrogazione di maternità è una tecnica di fecondazione assistita tra la tante, che consentirebbe di «avere un figlio a chi non può». Il grembo di una donna non è una provetta. Tra gestante e bambino che nascerà, pur se concepito con gameti “estranei”, si crea un legame psicologico e persino biologico davvero unico. Non solo: la gestante si sottopone a uno stress fisico ed emotivo che viene taciuto quando non negato.
Si sottolinea poi la caratteristica “solidale” e gratuita che dovrebbe avere la Gpa “all’italiana”, assicurando una serie di garanzie sulla effettiva libertà della donna che mette a disposizione il proprio corpo. Ma anche questo è un equivoco: non è sufficiente sostituire la parola «compenso» con «rimborso spese» per eliminare lo scambio di denaro che pure esiste ed è inevitabile (tranne, si suppone, nei rarissimi casi di surrogazione tra madre e figlia o tra sorelle) e il conseguente controllo che i committenti esercitano sulla «madre portatrice».
La «libera scelta» finisce laddove esiste un contratto con clausole dettagliate, che in alcuni Paesi si spingono a negare la possibilità per la gestante di cambiare idea e di reclamare per sé il bimbo. Quello che si vuole regolamentare per legge, di fatto, è la separazione di un figlio da colei che l’ha portato in grembo. L’alienazione di una madre. La trasformazione di una donna in strumento di produzione e il neonato in prodotto.
Uno degli aspetti più sorprendenti è che in questa discussione centrata sul “diritto al figlio”, in qualunque situazione di malattia o di impedimento fisico, dalla mancanza di utero al diabete non compensato, in un drammatico e sconfortante rifiuto del limite, si impone un’idea di generatività a senso unico, che si identifica con il figlio a tutti i costi, passando anche letteralmente sopra il corpo di un’altra donna, ridotto a “luogo di lavoro”, a fabbrica di bambini.
Ma la generatività di una persona, di una coppia, abbraccia l’apertura alla vita in un senso infinitamente più ampio, più profondo. Adozione e fecondazione assistita non sono scelte equivalenti, né qui si ha l’intenzione di stabilire una graduatoria della loro rispettiva bontà. Sembra però che in questo imperativo della tecnica, in questa rivendicazione di un ipotetico ‘diritto al figlio’ sempre e comunque, al di là di ogni limite naturale, si perdano le coordinate di ciò che ci fa padri e madri.
Che non è in via esclusiva mettere al mondo un figlio o, se non si può, commissionarlo ad altre donne, ma offrire amore a chi ne ha più bisogno (e riceverne). Questa frase può apparire retorica, e forse lo è davvero. Ma così tanta insistenza sulla ‘gravidanza’ (per sé o ‘per altri’) rischia di offuscare altri percorsi, altre strade che saranno anche impervie ma mai inaccettabili come quella di trasformare il corpo di una donna in mezzo di produzione e un neonato in un prodotto per soddisfare un preteso ‘diritto’.