«Mamma dice che se sto quassù per due ore, tre giorni a settimana, quest’estate non dovrò fare i compiti», così confida Calvin alla sua tigre di pezza, Hobbes, mentre scruta l’orizzonte da una casa sull’albero in mezzo al bosco. Ho sempre trovato efficace questa vignetta di uno dei fumetti che amo di più (Calvin&Hobbes), per affrontare la questione dei compiti per le vacanze, irrisolvibile se ridotta alla guerra tra due fazioni: chi sostiene che le vacanze siano l’occasione per fare piazza pulita della scuola e chi invece ritiene necessario tenere allenata la mente dei ragazzi come se la scuola non finisse mai. In astratto il dilemma non ha soluzione perché perde di vista la vita: la madre di Calvin centra la questione perché non parte dall’astrazione compiti sì/compiti no o quanti, ma dal figlio: che cosa gli «manca», di che cosa ha bisogno proprio lui? Solo a partire da questa domanda potremo scegliere e concordare «compiti» che porteranno ciascuno a «sentire la vita» che gli manca, che poi è l’unico modo per diventare «capaci di vita». Perché?
Le «mancanze» di creatività, generosità, iniziativa, sono strettamente collegate alla mancanza di «sentimento della vita» e non uso «sentimento» per indicare un’emozione, ma la relazione profonda di cuore e testa, uniti, con l’essenziale. Siamo l’unico essere al mondo che «si sente vivere», cioè capace di dire: quello a cui accade questa cosa sono io. Quindi più entro in contatto profondo con «i materiali della vita» più si approfondisce il mio sentirmi vivere, cioè il senso della mia vita, l’unica cosa capace di renderci felici perché ci strappa dall’indifferenza, il cancro della vita spirituale. Non dimenticherò mai le fughe dalla finestra nell’ora del coprifuoco pomeridiano durante la villeggiatura al mare. Avevo sei o sette anni e mi obbligavano a riposare per recuperare le forze prosciugate dal sole e dal sale ma, quando calava il silenzio, aprivo cautamente la serranda e sgattaiolavo fuori. Camminavo senza meta, esplorando la natura circostante e mi spingevo fino alle dune che nascondevano il mare, mi sembrava tutto pericoloso e straordinario. Studiavo ogni cosa: rumori, animali, reperti; inseguivo lucertole, scarabei e farfalle; inventavo giochi, avventure e tesori. Mentre scrivo questi ricordi sento gli odori e vedo i colori, tanto sono impressi nella mia memoria. Qualche estate dopo, tredicenne, in quella stessa stanza ci rimanevo volentieri perché mio fratello mi aveva prestato un libro che rapiva le ore del coprifuoco pomeridiano. Mi immergevo nelle 1.200 pagine del Signore degli Anelli con lo stesso stupore con cui anni prima scappavo per esplorare il mondo frastornato dalla calura e dalle cicale. Nell’uno e nell’altro caso si trattava di due ore, come quelle di Calvin, dedicate alla scuola dello stupore: la parola scuola viene dal greco scholè, che significava «tempo libero». La densità di ciò che mi veniva incontro era tale che si trattava di veri e propri «eventi», cioè quei fatti che si impongono all’attenzione perché talmente «traboccanti di significato» da diventare chiamate alla vita. In quelle ore ho maturato un profondo «sentimento della vita»: avventura, esplorazione, silenzio, osservazione, lettura, stupore, paura, solitudine buona… Ho imparato a incontrare le cose semplici ed essenziali, e a cercarle in tutto ciò che faccio. Questo mi ripara da quella artificiosa complicazione oggi spacciata per intelligenza e profondità e che, spesso, è il contrario: pigrizia di fronte alla verità che si offre ai nostri occhi. Per esempio, a scuola, abbiamo sotto gli occhi l’essenziale, il traboccante di significato: i ragazzi, e invece di occuparci di loro, siamo più preoccupati da programmi, burocrazia e chissà cos’altro, per poi nasconderci dietro analisi raffinatissime sul perché i giovani d’oggi siano ridotti così… Una vera rivoluzione non comincia mai dalla distruzione ma da un rinnovato atto di comprensione dell’evidente: com-prendere vuol dire «prendere insieme» qualcosa, testa e cuore uniti. Dovremmo ricordarlo noi italiani, che possiamo indicare, con un unico verbo, sia l’azione di capire qualcosa («ho compreso il punto») sia quella del sentirne la vita («ti comprendo»).
Per «sentirmi vivo» vado sempre a caccia del «semplice perduto». Nei letti da rifare cerco di provocare, prima in me e poi in voi, una rivoluzione basata su atti di «comprensione»: mettersi di nuovo di fronte all’evidente, come fosse la prima volta o l’ultima, per sentirne la vita. Solo questo porta l’immaginazione ad accendersi, la creatività a muoversi, la generosità ad attivarsi, solo il «sentimento della vita» ci fa scoprire che siamo «capaci di vita», cioè esseri che, per aver vita, devono prima riceverla: ma per diventare capaci bisogna prima ammettere di essere mancanti, solo così ciò che trabocca può riempirci. E che cosa trabocca? Ciò che è semplice, ricco di verità e bellezza. E dove è questo «semplice perduto»? È in tutto ciò che possiamo definire «mistero», una parola oggi purtroppo (mal)ridotta a fenomeni paranormali, irrazionali o puramente emotivi. «Mistero» è invece tutto ciò che trabocca di significato, ciò che non può essere spiegato da altro, perché è originario e non ulteriormente spiegabile: è la pienezza della vita bella che riempie il cuore e la mente. Semplice è ciò che ha una sola «piega» (plica in latino), diversamente da ciò che va spiegato (liberato dalle pieghe: ex-plicare) perché è com-plicato (pieno di pieghe). Il semplice ha un solo «velo», e per questo ci attrae e seduce, perché vuole s-velarsi a noi. Quei pomeriggi estivi non posso «spiegarli» ma ri-viverli e ri-velarli, perché a quelle cose e a quelle pagine bastava esserci per riversare in me la pienezza di vita che contenevano. E ricordo tutto nei dettagli proprio perché in quei dettagli c’era tutto: il mistero è semplice in sé, non è però facile per noi, perché richiede (oggi è meno scontato) uno stato di «veglia».
La vacanza è luogo privilegiato per questa «veglia» al mistero: vacanza vuol dire infatti «vuoto», quindi «mancanza», l’ideale per riscoprirsi «capaci» di ricevere la vita dove trabocca, essere riempiti di un «contenuto» che non più esserci tolto, e che quindi ci fa «contenti». Anche per questo dedico due settimane delle mie vacanze a un trekking in montagna con ragazzi di 14 e 15 anni, dove il cellulare quasi non prende e bisogna concentrarsi sulle cose evidenti: il passo, la fatica, il silenzio e le parole misurate, la bellezza di laghi, ghiacciai, animali, alberi, fiumi… e gli altri, con cui condividere l’ascesa e questo ben di Dio. Il «ben di Dio» è tutto ciò che ci è dato per riempire la nostra capacità di vita e sentirci di nuovo vivi. Solo questo può farci riposare, perché ci rende di nuovo attenti, fiduciosi e fedeli a una vita che spesso diventa opaca, noiosa, assurda. Inoltre questo ci abitua a ricevere le cose semplici come «eventi» e guarisce sia dall’indifferenza sia dall’ossessione della prestazione, anche in vacanza, atteggiamento che porta a cercare e moltiplicare gli eventi esteriori, nella speranza di trovare il riposo nell’eccezionale o nell’esotico, finendo le vacanze più stanchi di prima. Per ricevere la densità riposante delle cose dobbiamo seguire il consiglio che il Lear di Shakespeare dà alla figlia in uno dei passi più belli di tutta la letteratura: «Vivremo, pregando, cantando,/e raccontandoci antiche storie… e prenderemo su di noi il mistero delle cose come se fossimo le spie di Dio,/e vedremo consumarsi partiti e fazioni di potenti,/che s’alzano e s’abbassano come la marea/sotto l’influsso della luna». Prendere su di sé il mistero delle cose non è un esercizio esoterico o emotivo, ma il serissimo «compito» di ricevere e condividere, con chi amiamo, la vita come continuo «evento» organizzato dalle cose traboccanti di significato, liberi dal sali e scendi di una marea di cose inutili. Solo incontrando «il ben di Dio» diventiamo «spie di Dio»: coloro che, ricevendo il «segreto» traboccante della vita, ne diventano «segretari», lo custodiscono e segnalano ad altri (aggiornando il testo) come spie accese. Questo è il compito di noi adulti in vacanza: aiutare bambini e ragazzi a sentire le loro «mancanze» e incontrare il mistero, il traboccante di significato, la semplicità essenziale delle cose vicine. Spesso viviamo male soltanto perché arriviamo impreparati al presente: siamo altrove, dispersi, mai pronti a ricevere i doni della vita, come Calvin.
Il letto da rifare oggi allora è scegliere bene luoghi e attività delle vacanze. Non si tratta né di intraprendere azioni mirabolanti né di ripetere sempre le stesse cose, ma di scegliere, prima di tutto noi, i materiali necessari a risvegliare il nostro/loro sentimento della vita. Allora i compiti potranno essere di qualsiasi tipo, scolastici o meno, ma mirati a ogni Calvin, concordati (con gli insegnanti?) e condivisi (con familiari e amici?): libri (uno tra quelli dati a scuola?) letti insieme ad alta voce in serate senza tv, esercizi (dallo sport alla preghiera), approfondimenti (dalle osservazioni celesti a imparare una lingua, dalle visite in luoghi studiati a iniziare a suonare uno strumento), tenere compagnia a chi è solo o aiutare chi le vacanze non può permettersele, e tutto ciò che sceglierete con creatività perché lo ritenete, per voi e per i vostri figli, essenziale e traboccante di significato: due ore, tre volte a settimana (senza cellulare). Vi stupirete. Vi riposerete. Ve lo ricorderete.
Fonte: Corriere.it