Carissimi ragazzi, vi salutiamo con simpatia, affetto, gratitudine.
Ci complimentiamo con voi per i risultati raggiunti, per la costanza, l’impegno, l’insolita serenità con cui avete affrontato quest’ultimo anno, propria di chi si è abituato ormai da anni a vivere la scuola come responsabilità.
I complimenti sono, però pieni di consapevolezza che l’esito dell’esame, quantunque nel complesso più che soddisfacente, avrà rallegrato alcuni, scontentato altri. Gioia e delusione, come ogni anno, attraversano il viso dei ragazzi all’esposizione dei tabelloni.
Gli esami contengono in sé due componenti incognite: l’imprevisto e il fattore umano, entrambi imponderabili.
L’imprevisto ci fa capire meglio a livello esperienziale che la ragione non riesce a cogliere e a comprendere tutto, perché la realtà non è stata costruita e progettata da noi, ma ci previene. L’imprevisto è sorprendente e liberante ad un tempo, perché ci permette di comprendere che noi non siamo onnipotenti, non tutto dipende da noi, gli esiti non sono sempre in mano nostra. Perché è liberante questa consapevolezza? Perché se non tutto dipende da noi, se l’esito non è la naturale conseguenza di un impegno e di uno sforzo, significa che esiste un altro criterio di giudizio del lavoro e dell’impegno, esiste un’altra possibilità di valutazione dell’operato, un metro di giudizio che è interno al cuore, non estraneo, che coincide con la coscienza: quanto ho lavorato e mi sono impegnato, ovvero quanto sono stato responsabile, cioè ho cercato di rispondere alle richieste della realtà, delle persone e dei compagni? Quanto sono cresciuto e sono diventato più maturo, più grande, più cosciente di me? Prima ancora che il voto è la risposta a queste domande che ci fa capire il senso di questa esperienza.
Di fronte all’imprevisto potremmo assumere come linea guida il disimpegno oppure la proposta di sant’Ignazio de Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».
Il secondo fattore è quello umano, così ben descritto nel meraviglioso film di Clint Eastwwood Sully. La vita per fortuna non è un’equazione matematica, non può essere riassumibile in formule ed equazioni. Un pilota si trova ad affrontare un guasto nell’aereo appena decollato, avendo pochi secondi per valutare, giudicare, prendere posizione; non si comporta come un robot, proprio perché ha il fattore umano, fattore che rende affascinante l’avventura della vita. Un esame di Stato non è mai uguale ad un altro. Da un lato, quest’anno abbiamo avuto la grazia di essere accompagnati da una commissione particolarmente accogliente, preparata, sempre desiderosa di capire chi fosse lo studente che avesse davanti a sé. Dall’altro, con gli esami ciascuno di voi ha potuto capire un po’ meglio se stesso, la propria emotività, le reazioni, le capacità, le inclinazioni e i desideri.
Gli esami rimangono l’ultimo rito di iniziazione nella civiltà occidentale. È stato tolto il titolo di esame di maturità, convinti che con gli esami non si valutasse la maturità dello studente. E questo è vero! Ma in un certo qual modo gli esami hanno sempre segnato l’ingresso ad un nuovo mondo, non sono solo la fine, aprono anche ad una fase diversa, ad un nuovo inizio. Finisce per voi un’epoca e ne inizia un’altra.
A vent’anni si è ormai grandi, si apre davvero la fase della maturità, intesa come responsabilità, come momento della scelta e della libertà.
In questi anni avete dimostrato che la forza e la bravura di un gruppo non deriva da una somma di talenti, ma che l’unità, la coalizione, la condivisione degli intenti e degli obiettivi fanno la forza e permettono di raggiungere gli obiettivi. L’unità non deriva dall’essere uguali, ma dal guardare nella stessa direzione.
Abbiamo insieme imparato che il desiderio del proprio bene è la bussola dell’umano agire. In un mondo in cui si perdono i punti di riferimento il criterio guida deve essere il desiderio di pienezza, seguire il bene, il bello e il vero che incontriamo in quell’umiltà che ci rende consapevoli che non siamo noi la verità incontrata e che la verità è per tutti.
Abbiamo nella vita iniziato a scoprire che l’amicizia è una preferenza, ma che la vera preferenza spalanca, apre, fa desiderare che la bellezza di un rapporto sia non solo tra pochi, ma anche per altri. I rapporti veri aprono, non chiudono.
Crescere non significa comprendere che l’uomo compie il male ed è sostanzialmente egoista, come la visione cinica imperante nella vita ci vorrebbe insegnare. Nel bellissimo romanzo Ilia e Alberto di Angelo Gatti Alberto chiede ad un prete come riesca ad amare l’uomo e a credere in un Dio che ha creato questo «animale così cattivo, che bisognerebbe piangere di gioia ogni volta che fa un’opera buona». Il prete risponde: «Anzi, per questo. Con Dio il mondo è un mistero, senza Dio un assurdo». La vita è bella, perché c’è una fiammella che permette di fuoriuscire dalle tenebre e di camminare verso la meta: «Questo è il bello. Conoscere l’uomo, capire ogni giorno il male che fa, e operare come se fosse buono ed ogni giorno compisse il bene. Andare innanzi per la via oscura, perché lontano si scorge una fiammella, e vivere per quella fiammella, che però assicura l’esistenza del fuoco. Perdonare, perché gli uomini non sanno che cosa fanno». Si può sempre scommettere sull’uomo e sulla sua capacità di amare, anche quando sbaglia mille volte. Il perdono riafferma proprio questa ferita del cuore che spalanca e si àncora a quel bene più profondo a cui noi aneliamo.
C’è chi lo intraprende con la fede e chi con la ragione, chi in fretta e chi pazientemente, chi dolorando a lungo e chi consolandosi presto, chi, infine, confessandolo e chi fingendo d’ignorarlo. «Ognuno tenta l’impresa della vita con forze e in modi differenti, e ognuno conosce soltanto il proprio affanno, ed è estraneo e quasi nemico all’altro» (Ilia e Alberto). L’uomo ha una ragione, una logica, un sentimento, ma è l’amore vero soltanto che indica e apre la via.
Ciò che manca maggiormente nella società contemporanea è l’io, è l’uomo. Scrive Carlo Betocchi:
«Ciò che occorre è un uomo/non occorre la saggezza,/ciò che occorre è un uomo in spirito e verità;/non un paese, non le cose/ciò che occorre è un uomo/un passo sicuro/e tanto salda la mano che porge,/che tutti possano afferrarla/e camminare liberi e salvarsi».
L’uomo ha necessità di riscoprire che il primo fondamento per vivere, per muoversi, per resistere alle intemperie della vita in cui sembra di essere sommersi dalle circostanze è l’io. L’uomo avverte che il proprio cuore anela ad un’acqua viva e zampillante in eterno, di una felicità infinita. Solo la constatazione di trovarsi in un arido deserto può permettere all’uomo di domandare e di mendicare, di chiedere aiuto e accettare la mano che gli permette di rialzarsi.
La vita è, in fondo, un ritorno all’origine. Vivere è scoprire che quello che cercavi l’avevi già, che bisogna partire per ritornare a casa. E allora scopri la gratitudine, l’originale dipendenza che è il seme della pianta che si chiama letizia.
Vivere è scoprire che c’è un compito, una vocazione. Solo quando lo comprendiamo (perché siamo chiamati), tutto s’illumina. L’amore è una chiamata, l’amicizia è una chiamata, il lavoro è una chiamata. Ma tutti siamo chiamati, dobbiamo avere solo le orecchie attente all’ascolto e gli occhi spalancati alla vista.
Qualche anno fa, una studentessa scrisse che aveva capito che si doveva dedicare il tempo a qualcuno. A quel punto comprese che non c’era motivo di lamentarsi nella vita.
Nel Sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij il protagonista è stanco di tutto, quando incontra una povera bambina. Ritornato a casa, si accorge di aver provato compassione per lei e si addormenta. Nel sogno gli viene rivelata la verità sulla vita e sul mondo. Il sogno gli rivela che il male è frutto della nostra scelta libera di compiere il male, ma noi potremmo anche aderire al bene, potremmo compiere un piccolo gesto buono per quella povera bambina e per le altre persone che incontriamo. Un piccolo gesto, ma che porta (come dice il termine) un grande significato. E allora tutto inizierebbe a cambiare. Svegliatosi, l’uomo ridicolo decide di dedicare tutta la sua vita alla predicazione del Mistero che gli è stato rivelato.
Nel salutarvi noi professori vogliamo ringraziare quanti hanno agevolato e permesso la nostra attività educativa, dalla preside al direttore ai genitori e a tutti quanti in modi diversi hanno collaborato nel nostro percorso: in particolare, in questi giorni, i membri della commissione (a partire dal presidente) che vi hanno accompagnato con tanta accoglienza, disponibilità e umanità, facendo sembrare normale quel clima di amore e di benevolenza che è quanto di più straordinario ci sia nelle difficoltà e nelle prove.
Vi porteremo nel cuore, vi ricorderemo tutti, anche chi ha iniziato il cammino con voi, ma poi ci ha lasciato seguendoci da lassù.
Grazie e a presto. Buone vacanze.
Fonte: Giovanni FIGHERA | Tempi.it