Siamo gruppo di giovani famiglie che desiderano costruire un luogo di vita fraterna ispirato al modello monastico benedettino. Un “monastero di famiglie”, un aiuto per far sì che la preghiera liturgica praticata con regolarità possa costituire l’ossatura fondamentale delle nostre vite, che continueranno a giocarsi ogni giorno nel mondo. Siamo dei grandissimi fan dell’idea del monastero wi-fi ma – forse proprio perché quasi tutti tra noi lavorano con Internet, con la tecnologia, con i media – vorremmo farne uno vecchio stile, di mattoni.
Noi viviamo a Milano e dintorni, ma ci sono già alcune altre famiglie, sparse in giro per l’Italia, interessate a questa ipotesi di vita. Da tempo stiamo progettando di iniziare questa esperienza in Brianza. Abbiamo anche ricevuto la proposta di spostarci in un altro luogo, per vivere accanto ad una comunità monastica: ipotesi affascinante, difficilmente realizzabile, ma che vogliamo valutare seriamente.
I nostri figli sono tutti ancora piccoli. Una delle prime cose che vorremmo fare è dar vita ad una scuola parentale che ci aiuti ad introdurli alla conoscenza della realtà tramite un’educazione ben radicata nella fede cattolica.
Dopo un paio d’anni di cammino, stiamo iniziando a parlare pubblicamente del nostro progetto. Nel sito www.cascinasanbenedetto.it si può leggere il nostro Manifesto ed eventualmente fare una donazione per aiutarci a rendere possibili i nostri primi passi. Quello che facciamo non è soltanto per noi: ci piacerebbe incontrare altre famiglie interessate a valutare questa ipotesi di vita.
Il nostro amico Rod Dreher, nel suo libro L’Opzione Benedetto, ha rilanciato grandiosamente l’idea che san Benedetto e la sua Regola possano essere fari che rischiarano il cammino di noi cristiani laici nel mondo di oggi. Di recente Rod mi ha intervistato per presentare il progetto di Cascina San Benedetto ai suoi lettori (qui l’articolo in inglese su The American Conservative). Sarei felice se tu volessi pubblicare nel tuo blog la versione italiana di questa intervista.
Un grandissimo abbraccio,
Giovanni Zennaro
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Rod Dreher: L’opzione Benedetto propone ai cristiani di pensare creativamente a modalità in cui si possano costruire comunità e opere dentro cui poter vivere la fede nei tempi difficili che si prospettano. Come state rispondendo, tu e i tuoi amici, a questa sfida?
Giovanni Zennaro: Vorrei dire innanzitutto quale è stato il mio primo impatto con l’opzione Benedetto: ho scoperto il tuo libro nel 2017 poche settimane dopo la sua uscita negli Stati Uniti, nel periodo in cui stavo completando il mio noviziato per diventare un oblato benedettino (membro laico dell’Ordine di San Benedetto). Il libro è stato per me una scoperta doppiamente felice: non solo perché contiene spunti utili per vivere la fede nel nostro mondo occidentale post-cristiano, ma anche perché si ispira alla figura di san Benedetto e ai monaci benedettini, la famiglia religiosa a cui appartengo.
In quel periodo io e mia moglie ci stavamo accorgendo che l’amicizia con altre due famiglie stava come prendendo una forma. I nostri ritrovi domenicali, iniziati spontaneamente come avviene tra amici, iniziavano ad avere un ordine: la partecipazione alla Santa Messa, la condivisione del pranzo, il tempo del dialogo libero tra di noi, la preghiera dei Vespri, la cena. Cose molto semplici, che stavano però diventando un’abitudine buona. Sentivamo il bisogno di rispettare e coltivare quell’abitudine.
La lettura de L’Opzione Benedetto è stato lo spunto che ci ha fatto dire: perché non rendiamo stabile quest’amicizia? “Stabile” nel senso della stabilitas loci benedettina: scegliere un luogo e una comunità come strumento privilegiato per il proprio cammino di fede. Non perché il luogo e la comunità abbiano un valore in sé, ma perché la fedeltà ad essi è un aiuto nel Quaerere Deum, la ricerca di Dio.
Abbiamo iniziato a parlarne con alcuni amici autorevoli, tra i quali monaci benedettini di diversi monasteri. Grazie alla loro sapiente guida abbiamo maturato l’idea di vivere insieme, nello stesso luogo. Famiglie che mettono in comune alcuni beni materiali e condividono un cammino spirituale, soprattutto attraverso una regola di preghiera da rispettare ogni giorno: è quello che negli Atti degli Apostoli viene detto della prima comunità cristiana di Gerusalemme (At 2,42-47) ed è quello che fanno i monaci nei loro monasteri.
Abbiamo chiamato il nostro progetto di vita comunitaria “Cascina San Benedetto”. Un anno fa abbiamo diffuso la prima versione del nostro manifesto, per iniziare a chiedere di pregare per noi. Quest’anno ne abbiamo pubblicata una seconda versione con la speranza di riuscire a raccogliere i fondi necessari a partire. Ci servono un po’ di soldi per acquistare e ristrutturare i primi appartamenti e qualche piccolo spazio comunitario destinato alla preghiera, all’attività scolastica e all’incontro con altre persone interessate a passare del tempo con noi.
RD: L’anno scorso ti ho fatto visita, incontrando la tua giovane famiglia e altre famiglie che vorrebbero far parte della Cascina. È stato davvero bellissimo vedervi pregare e fare festa insieme. Sembrano le cose più naturali del mondo, ma in realtà riunire giovani famiglie cristiane che vogliono condividere una vita fortemente centrata sulla preghiera è sorprendentemente difficile. Perché?
GZ: Perché abbiamo perso l’abitudine sociale (habitus) di vivere in comunità. Mi sembra che nella seconda metà del Novecento l’Occidente abbia portato a termine quel processo di imborghesimento mentale iniziato con la Rivoluzione Industriale. La principale aspirazione della singola persona e famiglia, a prescindere dal ceto sociale, è divenuta l’autorealizzazione e il proprio benessere individuale. Si è persa l’idea di comunità umana come contesto dentro cui la persona nasce e cresce, soffre e gioisce, condividendo con gli altri membri gli aspetti più profondi della propria vita. Anche i cristiani non sono stati immuni a questo fenomeno. La fede è diventata un “valore” appiccicato alla vita, anziché quell’esperienza unica che dà gusto e significato a tutto il vivere. Ma una fede del genere, un’usanza che non incide realmente nella vita, può sopravvivere solo per qualche generazione: oggi lo vediamo chiaramente.
Credo che nella nostra società secolarizzata, impregnata di relativismo e di messaggi opposti rispetto agli insegnamenti di Gesù e della Chiesa, sarà sempre più importante per noi cristiani praticare forme di vita peculiari, com’era peculiare il modo di vivere delle prime comunità cristiane. Avremo sempre più bisogno di luoghi in cui la fede si esprima visibilmente in ogni gesto della vita quotidiana, delle oasi di fede – sicuramente non prive di tutte le nostre contraddizioni e debolezze umane – in cui potersi rigenerare continuamente per cercare poi di vivere lì fuori, nel mondo, veramente da cristiani. “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?” (Mt 5,13): abbiamo bisogno – io, perlomeno, penso di averlo – di luoghi in cui mantenerci “salati”, in cui continuare a sentire il sapore tipico della vita cristiana. Solo se quel sapore lo manterremo in noi stessi, potremo poi proporlo al mondo.
Oggi la grande solitudine delle persone sta generando tentativi di ritorno a forme di appartenenza comunitaria, che però solitamente partono da aspetti della vita importanti ma parziali: un interesse, un hobby, un particolare impegno sociale, un valore in cui si crede particolarmente… Si creano così forme di aggregazione in cui la solitudine è combattuta stando con altre persone, ma senza condividere ciò che realmente costituisce il dramma della vita, le grandi domande sul significato della nostra esistenza, quelle domande che interessano la sfera religiosa dell’uomo. Penso che noi cristiani abbiamo il compito di praticare per noi stessi un modo diverso di stare insieme, e di farlo vedere al mondo. Dobbiamo vivere come fratelli e sorelle non perché siamo molto amici o condividiamo gli stessi interessi, ma perché tutti desideriamo costruire il Regno di Dio e vivere santamente per raggiungere il Paradiso. Credo che questa tensione comune possa permettere a persone e famiglie anche molto diverse l’una dall’altra di vivere insieme. Questo sarà possibile se la preghiera, e non altro, sarà il fondamento di tutta la vita, proprio come avviene nei monasteri.
RD: Se riuscirete ad avviare la Cascina, come pensi che la vita comunitaria cambierà gli adulti? Come cambierà i bambini?
GZ: Dal punto di vista pratico, ciascuna famiglia continuerà a vivere la sua vita: come mi ricorda spesso mia moglie, non bisogna confondere una comunità cristiana di famiglie con una comune hippy. Però, abitando nello stesso luogo, potremo essere fedeli ad alcuni momenti di preghiera comunitaria durante la giornata, soprattutto recitando la Liturgia delle Ore al mattino e alla sera. Qualche volta pranzeremo o ceneremo tutti assieme, specialmente nel weekend. Potremo accogliere altre persone che vorranno passare del tempo con noi, in particolare per pregare: per farlo sarebbe bello avere presto una foresteria per gli ospiti.
Credo che nell’immediato ciascuno di noi manterrà il suo lavoro. Ma se lo riterremo utile, qualcuno potrà rinunciare in tutto o in parte al proprio lavoro per dedicarsi all’educazione dei bambini e alle necessità della comunità.
La vita dei bambini cambierà nel senso che i figli di ogni famiglia avranno molte più occasioni per essere a contatto con adulti che credono in ciò che credono i loro genitori, e per giocare con i loro figli. Non stiamo inventando nulla: è un modo di vivere che fino a un po’ di tempo fa era normale per la maggior parte delle famiglie. Bisogna considerare che la nostra è una generazione di emigrati: anche chi è rimasto in Italia spesso si è trasferito di città in città per trovare lavoro, e molti tra quelli che hanno cambiato città per gli studi universitari non sono tornati a vivere al loro paese di nascita. Questa non è una tragedia, però è un fenomeno che ha contribuito a tagliare le radici: sono molte le famiglie giovani che vivono lontane dai parenti. La storia nostra e di molti nostri amici è così. Questo contribuisce a farci desiderare di vivere una familiarità quotidiana con chi crede in ciò che noi crediamo.
RD: State pensando di avviare una scuola all’interno della Cascina. Perché? In che modo questa scuola sarebbe diversa dalle altre scuole che i vostri figli potrebbero frequentare?
GZ: Vorremmo iniziare una piccola scuola parentale, come è consentito dalla Costituzione italiana, che permetta ai genitori di essere pienamente coinvolti nel percorso educativo dei figli. Le scuole private cattoliche, che garantirebbero il rispetto della libertà di educazione venendo incontro ai nostri desideri e ai nostri bisogni, sono troppo costose (e non per colpa loro) per famiglie che devono mandarci per molti anni più di un figlio. Infine mi sembra che molte famiglie, ormai prive di radici religiose e culturali in cui riconoscersi, non avendo una chiara idea educativa utilizzino la scuola e ogni altra possibile attività per riempire il tempo dei bambini, con l’illusione di poter delegare ad altri la loro educazione. Di conseguenza la scuola stessa diventa un ente erogatore di servizi, anziché uno strumento a supporto del ruolo educativo che è proprio della famiglia. Noi desideriamo che i nostri figli possano crescere guardati da persone che raccontano loro la verità, cioè che la realtà è bellissima e che tutto è un dono di Dio. Vogliamo che possano imparare ogni cosa, dalla storia alla matematica, alla luce della fede cristiana e degli insegnamenti della Chiesa cattolica. Pensiamo anche che l’insegnamento a piccoli gruppi di bambini possa favorire una didattica personalizzata per ciascun allievo, valorizzando i suoi talenti e le sue attitudini.
RD: Lavorate tutti a Milano, ma volete iniziare l’esperienza di Cascina San Benedetto in campagna, dove già vivete tu e tua moglie Alice. Perché ritenete importante vivere in una zona rurale?
GZ: La zona in cui io e Alice viviamo è ancora ricca di attività agricole e allevamenti di animali. Molti dei nostri vicini di casa lavorano nei campi e nelle stalle. Si respira un’aria genuina, è più facile stringere rapporti rispetto che in città. Guardandoci attorno vediamo prati e colline, non insegne luminose e cartelloni pubblicitari. Qui esiste ancora il silenzio. Sono condizioni che aiutano la vita spirituale. Possiamo tranquillamente raggiungere Milano ogni mattina per andare a lavorare. Inoltre, in campagna gli immobili hanno prezzi molto più accessibili.
RD: Se riuscirete ad avviare la Cascina e tutto andrà per il meglio, come saranno le cose tra quindici anni?
GZ: OK, proviamo ad usare la fantasia. Tra quindici anni i nostri figli più grandi avranno vent’anni e forse staranno decidendo se accettare o rifiutare il modello di vita che noi abbiamo scelto e proposto. Magari staranno valutando se restare a vivere con noi o andare altrove. In quel momento si vedrà se abbiamo seminato bene: lo si vedrà non dalla scelta che faranno, ma da quanto si sentiranno liberi di scegliere.
Forse tra quindici anni si saranno aggiunte alla comunità altre famiglie più giovani di noi, e noi potremo aiutarle condividendo la nostra esperienza.
Infine, un sogno: forse la nostra scelta di vita avrà attratto non solo altre famiglie, ma anche alcuni monaci che avranno costruito un monastero vicino alla nostra casa. Questo sogno ha una storia: abbiamo ricevuto da una comunità monastica la proposta di trasferirci vicino a loro – in una cittadina isolata, a molte ore di viaggio da dove viviamo ora – per realizzare il nostro progetto di vita comunitaria accanto al loro monastero. Avere un rapporto quotidiano con i monaci, partecipare alla loro liturgia e coinvolgerli nell’educazione dei nostri figli sarebbe la cosa più bella, la miglior forma di realizzazione del nostro progetto. Stiamo valutando anche questa possibilità che è affascinante ma difficile, perché non sapremmo come mantenerci vivendo lì. Se dovremo restare vicini alla città in cui lavoriamo, Milano, il mio sogno è che siano un giorno dei monaci ad arrivare vicino a noi.
RD: Incontro spesso giovani come voi che vogliono iniziare qualcosa di simile, ma non hanno le risorse. Anche voi non siete ricchi. Come pensate di riuscire ad avviare questo progetto?
GZ: Se non riusciremo ad ottenere qualche aiuto, cercheremo di iniziare comunque con le nostre risorse, anche se un po’ scarse. Vorremmo sistemare fin da subito non solo i nostri appartamenti, ma anche qualche piccolo spazio comune per la preghiera, per la scuola e per gli ospiti. Se deve essere un “monastero di famiglie”, deve riuscire ad assolvere alle funzioni tipiche del monastero: la preghiera, lo studio, il lavoro manuale, l’ospitalità. Per questo stiamo cercando sostegno economico. I monasteri vivono del proprio lavoro e di ciò che manda la Provvidenza: anche noi faremo lo stesso.
RD: Un’ultima domanda: avete circa trent’anni, quanto è controculturale la vostra idea per le giovani famiglie cattoliche italiane di oggi? Che consiglio daresti ad altri cristiani che in Italia, ma anche negli Stati Uniti e altrove, volessero avviare un progetto come il vostro?
GZ: In Italia la nostra idea è di sicuro controculturale, ma non del tutto nuova. Grazie a Dio, esistono molte altre comunità di famiglie cristiane, nate negli scorsi decenni all’interno di specifiche esperienze ecclesiali o attorno a particolari opere sociali. Con alcune di queste realtà siamo in contatto, possiamo imparare molto da loro. La particolarità di Cascina San Benedetto è che noi vogliamo fare nostro il modello monastico: la nostra “opera sociale” sarà la preghiera.
Non saprei che consiglio dare ad altri cristiani per realizzare progetti di questo tipo, se non quello di pregare molto e cercare di ascoltare sempre la volontà di Dio: i suoi progetti fioriranno, i nostri moriranno. Noi stessi ancora non sappiamo che cosa il Signore vorrà fare di questo nostro grande desiderio.
Fonte: BlogCostanzaMiriano.com