Viaggio nella Pasticceria Giotto, nel cuore del penitenziario Due Palazzi di Padova. Dove si sfornano grandissimi panettoni artigianali ma soprattutto uomini nuovi
Il signore che gira da stamane con il trapano in mano per riparare tutto quel che traballa nel laboratorio, e che brandisce l’acuminato attrezzo con la spensieratezza del manovale che sa il fatto suo, libero di utilizzarlo come meglio crede e sa, beh, lui ha commesso un omicidio.
Bisogna guardare cose del genere, per cominciare a rendersi conto davvero di quale sia la portata di redenzione di un’opera come la Pasticceria Giotto. E che razza di coraggio e di stima verso gli uomini ci voglia per portarla avanti qui, nel cuore del carcere Due Palazzi di Padova. Bisogna guardare il signore con il trapano in mano tenendo a mente che uno così, in un altro qualsiasi dei 200 nostri penitenziari, vivrebbe come vivono praticamente tutti i 60 mila detenuti in Italia: 22 ore al giorno in una cella di tre metri per tre, facendo a turno con gli altri tre compagni per stare in piedi nell’unico fazzoletto di pavimento non occupato dalle brande, a fare niente; e poi 2 ore d’aria, una la mattina, una il pomeriggio, stipati con tutti gli altri carcerati dentro a gabbie all’aperto che sembrano voliere da zoo, e nemmeno delle più grandi. A passare anni così – anni – si fa presto a perdere la cognizione di sé e di quel che si è fatto, e allora il male compiuto prende a non esistere più, esiste solo l’ingiustizia di essere costretti in quella condizione, e magari la voglia di fargliela vedere, allo Stato, agli sbirri, alla legge. E di occasioni per imparare a fare altro male, peggiore di quello già fatto, non ne mancano quando si è sbarrati in una cella per tutto il giorno in mezzo a criminali.
Ma qui al Due Palazzi non è detto che debba andare così. Almeno per il signore con il trapano e altri quaranta detenuti c’è una chance. Un’alternativa al “master in delinquenza” o all’annichilimento totale di sé. La Pasticceria Giotto, appunto.
Work Crossing è una cooperativa sociale padovana specializzata in “pasti veicolati”, gestione cucine di fabbriche, scuole, strutture sanitarie, alberghi, e ristorazione. Nel carcere della città ci è entrata 15 anni fa proprio per occuparsi della cucina. L’invito a provarci veniva da Nicola Boscoletto, che con la sua Cooperativa Giotto offriva già lavoro ai detenuti del Due Palazzi come giardinieri e operatori di call center (altro opera coraggiosa, altra storia). Di lì a poco Work Crossing lascerà la cucina, ma nel frattempo era saltata fuori l’idea di portare in prigione il laboratorio dei dolci. «Abbiamo cominciato con cinquemila panettoni e altrettanti dubbi», racconta Roberto Polito, direttore marketing della Pasticceria Giotto. «Non sapevamo come avrebbe reagito la gente all’idea che fossero fatti dai detenuti. L’avrebbe presa bene? Si sarebbe preoccupata per l’igiene? Nessuno si aspettava che i nostri prodotti avrebbero avuto il successo che hanno oggi».
Polito ci viene spesso al Due Palazzi e infatti è lui che guida Tempi all’interno della prigione fino ai locali della pasticceria. Superate diverse sbarre e porte di ferro aperte e subito richiuse dai secondini, si arriva in un corridoio tutto tappezzato, sulla destra, delle foto gigantografiche delle tante personalità che negli anni hanno incontrato la Giotto: stelle del cinema come Maria Grazia Cucinotta, musicisti come Blue Lou Marini, giornalisti come Giovanni Minoli, celebrità della gastronomia come il grande chef di Barcellona che ai pasticcieri della Giotto confessò di essere stato anche lui «strappato alla strada dalla pasticceria». E poi naturalmente i vari esponenti politici, tra cui diversi ministri della Giustizia (Paola Severino e Annamaria Cancellieri si sono particolarmente affezionate all’opera).
La dignità dei padri
Ma quella su cui si sofferma Polito è una foto di gruppo scattata al Meeting di Rimini del 2008, quando quelli di Work Crossing caricarono armi e bagagli e detenuti e li buttarono in mezzo alla gente in fiera. Donne, bambini, anziani. «Questo è F.», spiega Polito indicando un volto nel gruppo. «Centonovantotto anni di pena. Stava facendo da guida alla mostra che avevamo allestito e raccontava di sé, quando una bimba si avvicina e gli chiede: “Ma non potevi pensarci due volte prima di sparare?”. Lui incassa ma non smaltisce. Poco dopo, sul retro dello stand, dice: “Riportatemi in carcere, non posso più starci qui”. Si era già fatto 10 anni in prigione, ma per la prima volta qualcuno lo aveva obbligato a prendere coscienza del fatto che aveva ucciso. Da allora è cambiato completamente».
I detenuti del Due Palazzi hanno pene dai 6-7 anni in su, tutte definitive. Ci sono 350 celle da uno, adibite a celle da due per evitare l’effetto isolamento. Oggi sono circa 600 gli “inquilini”, ma negli anni dell’emergenza sovraffollamento sono arrivati a essere anche più di 800. Come detto, nelle galere italiane non si esce da quei buchi che sono le celle nemmeno per i pasti. Se sono fortunati, durante il giorno i detenuti possono ciondolare un po’ nel piano di pertinenza. Si capisce perché è un privilegio lavorare alla Pasticceria Giotto, dove c’è perfino la mensa per i dipendenti. Ma privilegio non è la parola giusta: è proprio l’unico appiglio a cui aggrapparsi per non essere risucchiati nel nulla con la propria umanità.
I pasticcieri della Giotto sanno di essere fortunati ed è per questo che «finora non è mai successo nulla di grave, anche se girano con i coltelli in mano». Qui i carcerati «hanno un lavoro vero, non un lavoro forzato». Sono regolarmente assunti e retribuiti, così possono mandare qualche soldo a casa senza costringere le famiglie a mettersi nelle mani di chissà chi. Scoprono la dignità di padri che alcuni non si erano mai resi conto di avere. Trovano la forza di dire ai figli di non prendere brutte strade senza doversi vergognare.
Pasticceria Giotto impiega 40 detenuti con orari per lo più part time, un po’ per poter offrire un maggior numero di occasioni di lavoro, un po’ perché si fatica a reggere la giornata intera, quando si sono passati anni sdraiati in una cella a fare letteralmente niente. «Alcuni, quando iniziano, hanno addirittura i movimenti rallentati». Si comincia alle 4 del mattino con le brioche e si lavora fino alle 18. Alle 19 sotto Natale. Nei locali del laboratorio si trovano fino a 20 detenuti tutti insieme, più i “civili”: il responsabile della produzione, tre maestri pasticceri, l’uomo del controllo qualità, l’economo che fa gli acquisti, lo specialista in logistica. Vanno e vengono diversi trasportatori.
Il “boss” che diventa apprendista
Una volta entrati nella “Pasticceria del carcere” di Padova, sono poche le cose che ricordano al visitatore di essere in una prigione. È un gran bel laboratorio artigianale. A parte il profumino di impasti e farciture (da svenire), colpiscono subito la pulizia, la serietà, la concentrazione, il silenzio. La cura dell’igiene è folle, come a esorcizzare i dubbi che hanno accompagnato l’impresa fin dall’inizio. Obbligatorio indossare camice e cuffia usa e getta, altrimenti non si può fare un passo. Tutto sembra filare alla massima perfezione professionale, e questo non è affatto banale, visto che c’è gente in questo posto che non aveva mai lavorato in vita sua. «Qui capita che il “boss del piano” si ritrovi a fare l’apprendista dell’ultimo scippatore, quello che in cella magari gli pulisce le scarpe, ma che in cucina gli bagna il naso in quanto a manualità».
Si rovescia tutto. Compresa la famigerata “recidiva”: normalmente il 70 per cento dei detenuti in Italia, una volta rimessi in libertà, tornano a delinquere; ma per quelli che in carcere vengono coinvolti in progetti di lavoro come in Pasticceria Giotto, la recidiva precipita al 5 per cento. Per lo Stato il costo è zero, al netto degli sgravi fiscali concessi alle cooperative. Eppure in tutto il paese sono meno di mille i carcerati che svolgono un lavoro vero per imprese sociali e possono così provare a reinserirsi nella società.
L’altra cosa che si nota subito nella pasticceria è come tutto qui si basa sulla fiducia reciproca. Serve fiducia, molta fiducia, perché non solo sopravviva, ma fiorisca un’opera che per natura è a rischio permanente: basterebbe un incidente, una rissa, un’intemperanza, un tentativo di fuga per distruggere tutto in un attimo.
Il premio più ambito
La linea di Pasticceria Giotto è rigore disciplinare assoluto (chi ruba un candito è fuori: su certe cose non si può transigere) e un’unica rigidità quasi “ideologica”: «Nessuna, ma proprio nessuna produzione di dolci a marchio Giotto avviene all’esterno», dice Polito. Tutto si fa rigorosamente in carcere e poi viene portato fuori (in alberghi, negozi, mense, scuole, ospedali), nonostante l’handicap notevole di un’ora e mezza di scrupolosi controlli dei secondini su ogni camion che va o che viene.
Eppure i successi ottenuti dalla Giotto sono clamorosi. Miglior pasticceria d’Italia nel 2013. Soprattutto, un panettone ormai famosissimo, scelto come regalo di Natale da ben due papi e moltissime aziende. «Ci piace tenere l’asticella alta», si vanta Polito. Oggi Pasticceria Giotto sforna circa 70 mila panettoni l’anno, «tutti fatti a mano, uno per uno. Le altre pasticcerie artigianali neanche si avvicinano a questi numeri. Quando arriva a 10 mila ordini, un pasticciere normale inizia a comprarsi le macchine». Ma i numeri sono frutto di capacità e qualità. E quest’ultima alla Giotto è un culto. Spiega un maestro pasticciere: «Per fare i nostri panettoni ci vogliono 72 ore, dalla farina al sacchetto alimentare, di cui 24 di lievitazione. Per capirci: nelle industrie top ci mettono tre ore in tutto». C’è un motivo, insomma, se Giotto è da dieci anni nella top ten del Gambero rosso, nella crème della classifica dei 100 migliori panettoni italiani, degustati “al buio”.
Ma al di là dei riconoscimenti, il premio più ambito per l’impegno di Work Crossing è la rinascita dei detenuti. Il siciliano che sta nel reparto cioccolata illustra ai visitatori tutta la procedura di produzione con precisione e passione tali che mentre parla sembra di vederla, la cascata bruna che cola sul ripieno del bonbon. Poi sfodera il «vassoio degli assaggi» e si inorgoglisce illustrando tutti i cioccolatini, azzardati e ricercati e raffinati e squisiti come sono. «Qui abbiamo aceto balsamico e lavanda, qui miele e rosmarino: questo va moltissimo». (L’elenco sarebbe lungo, ci limitiamo a citare i gusti provati da Tempi con piena soddisfazione).
Ogni volta ricominciare da zero
Nella sala dove si tirano gli impasti e si preparano le basi dei dolci un americano si presenta: «Sono qui da lunedì!», esclama entusiasta. È un nero grande e grosso e tatuato, ma stende la crema chantilly come un maître pâtissier parigino, attento, preciso, soddisfatto. Gli brillano gli occhi. L’esperienza della Giotto lascia addosso a questi uomini – e per molti di loro è una vera scoperta – il senso di bellezza e di dignità che c’è nel guadagnarsi da vivere col proprio sudore, facendo qualcosa di utile e di buono per il mondo, prima ancora che per sé. È questo il seme della redenzione che trasforma la pena in possibilità di ricominciare. Qualcuno di loro, una volta fuori, ha pure fatto un discreto successo rimanendo nel settore e aprendo un locale nella sua città.
«Lui ha appena preso 24 in Storia medievale», dice Roberto Fabbris, responsabile della produzione, indicando un anziano detenuto che passa davanti al suo ufficio. «È dentro da 14 anni e per questo esame si è studiato quattro libri: a volte sono io che mi vergogno», scherza. Fabbris racconta che la selezione dei detenuti avviene tramite agenti, educatori e amministratori del carcere: sono loro a proporre una lista di nomi, dopo di che ci sono i colloqui con l’ufficio sociale. Chi viene assunto ha sei mesi di tirocinio formativo con tanto di attestati. La fatica più grande? Fabbris la sintetizza così: «Solo negli ultimi tre mesi abbiamo dovuto sostituire 10 persone, fra trasferimenti e scarcerazioni. È sempre così. E ogni volta si ricomincia da zero!».
Le quote del Principale
Se c’è una certezza alla Giotto, insomma, è l’imprevisto. Un ostacolo non da poco alla proliferazione di progetti analoghi. Dice Matteo Marchetto, il presidente della cooperativa Work Crossing: «Attualmente in tutta Italia ci sono soltanto una decina di cooperative che fanno lavorare i detenuti come noi». E il motivo è chiaro: «Perché si devono avverare tre condizioni per poter avviare un’impresa così: serve spazio nel carcere; ci vuole la disponibilità dell’amministrazione del penitenziario; infine occorre un’impresa disposta a rischiare. Soprattutto quest’ultima condizione manca». Del resto non è nemmeno evidente il guadagno che si può portare a casa imbarcandosi in una simile avventura. «Non è certo il profitto», spiega Marchetto, quanto «il ritorno in termini di esperienza». Dice il presidente di Work Crossing: «Questo è al fondo il risvolto più interessante, la possibilità di scoprire, vedere, che i desideri del cuore dell’uomo sono davvero gli stessi per tutti. Per noi che siamo liberi come per loro che stanno dietro le sbarre».
Tutto ciò costa fatica ed è un rischio che non tutti sono pronti a prendersi. «Noi accettiamo di correrlo perché sappiamo che una quota sociale ce l’ha il Principale: ogni giorno, da 15 anni, può succedere un casino che ci costringa a chiudere. Se finora non è successo, è tutto merito Suo».
UN REGALO DI NATALE DEGNO DI DUE PAPI
Torte, biscotti, cioccolato, torroni, focacce veneziane, grissini e altre leccornie. Oltre, ovviamente, ai celebri panettoni artigianali che hanno conquistato prima papa Bendetto XVI e poi papa Francesco. I cesti e i bauletti della Pasticceria Giotto sono stati più volte il regalo di Natale “ufficiale” scelto dai due pontefici per amici e collaborati. Dei 70 mila panettoni sfornati ogni anno dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, circa la metà infatti è venduto direttamente ad aziende di tutte le dimensioni che ne fanno incetta per il tradizionale pensiero natalizio destinato a clienti e dipendenti. Il resto passa attraverso i canali dell’ecommerce (6-7.000 i panettoni venduti online) e dei 250 rivenditori autorizzati, tra i quali spiccano i due negozi monomarca Giotto a Padova.
Per informazioni e shopping: www.idolcidigiotto.it
Fonte:Pietro Piccinini | Tempi.it