E noi crediamo di essere immuni da tutto questo? Se è possibile sbarazzarci, dopo averli fabbricati e selezionati, di quei riccioli di materia chiamati embrioni, è possibile sbarazzarci degli errori colossali dati dalla loro riproducibilità tecnica? Quello che è accaduto nel blasonato Cha Fertility Center di Los Angeles ha del mostruoso e dimostra di no. Questa è la storia di due bambini e dell’errore più clamoroso della storia della fecondazione assistita.
ANNI SCOPRE CHE SUO FIGLIO È NATO A NY
Tutto ha inizio lo scorso anno, quando Anni e Ashot Manukyan, una coppia di Los Angeles, tornano alla clinica dove, nel 2011, avevano già ottenuto un trattamento e concepito una bambina. Il centro è famosissimo, opera con filiali in California e in Corea del Sud offrendo servizi di congelamento di sperma e ovuli, trattamento della fertilità per coppie Lgbtq, maternità surrogata e selezione del sesso dei nascituri. Questa volta ad Anni vengono impiantati due embrioni, ma nessuno dei due sopravvive. Un terzo, le dicono, è stato scartato dalla clinica.
Poi, ad aprile Anni e Ashot vengono richiamati dai medici: devono sottoporsi a un esame del dna. Scoprono così che uno dei loro embrioni è stato impiantato nel grembo di un’altra donna, un’americana di origini coreane, ed è stato partorito a tremila miglia di distanza, a New York City. Non solo: la donna insieme al figlio dei Manukyan, ha dato alla luce un secondo bambino, anche questo figlio di un’altra coppia.
AP PARTORISCE DUE GEMELI NON SUOI
Come è potuto accadere? Le tre coppie si erano rivolte alla clinica nello stesso momento ed è allora che gli embrioni, non si capisce come, sono stati scambiati: Anni e Ap (iniziali della donna di origini coreane) hanno ottenuto il trasferimento embrionale lo stesso giorno, ma mentre quello di Anni non ha avuto successo, Ap è rimasta incinta.
La coppia di New York inizia a preoccuparsi quando un’ecografia rivela che Ap aspetta due gemelli: secondo la causa, depositata l’1 aprile contro la clinica di Los Angeles, il ciclo di fecondazione in vitro a cui si era sottoposta la donna avrebbe dovuto “produrre” un solo embrione maschile. Quando i bambini nascono, non presentano alcuna caratteristica “asiatica” dei genitori. Non solo: i test del dna rivelano che i gemelli non sono nemmeno imparentati tra loro. Uno è dei Manukyan, l’altro di una terza coppia che si era rivolta per lo stesso trattamento al Cha di Los Angeles. Ap però, dopo aver portato avanti la gravidanza per nove mesi e sostenuto le spese e la fatica dei trattamenti, sente quei bambini di cui si sta occupando “suoi” e non vuole “restituirli” ai genitori biologici.
IL CASO DEI GEMELLI VINCENT E JOSEPH
La palla passa inevitabilmente ai tribunali, che a maggio si pronunciano in favore dei genitori biologici. Eric Wrubel, avvocato dei Manukyan e della terza coppia di cui non si conoscono le generalità, riesce infatti a far revocare la custodia di entrambi i bambini alla coppia di New York. Non si tratta di una pronuncia da poco: si tratta di un precedente che crea ulteriore confusione nel limbo governato da contratti e burocrazia dell’era della procreazione medicalmente assistita. Vediamo perché.
Nel 1998 Donna Fasano, una donna bianca di Staten Island, diede alla luce due gemelli, uno geneticamente “suo”, Vincent, l’altro, che chiamò Joseph, di una coppia nera, i Perry-Rogers, pazienti nella stessa clinica della fertilità di Manhattan. Anche qui, si era trattato di uno scambio di embrioni. Dopo una colossale causa contro la clinica, le due famiglie si fronteggiarono in tribunale e nel 1999 i Perry-Rogers ottennero la custodia permanente del “loro” gemello dato alla luce da Donna. Lo ribattezzarono Akiel e, nel 2000, ottennero il decadimento di ogni diritto dei Fasano, compreso quello di fare visita al bambino con suo fratello Vincent. Proprio sulla vicenda Perry-Rogers v. Fasano, ha spiegato l’avvocato Wrubel, si è basata la pronuncia a favore dei Manukyan, ma non solo: nella causa ha avuto una parte anche il caso, sostenuto da Wrubel stesso, che ha portato alla decisione storica pronunciata nel 2016 dalla Corte d’Appello dello Stato di New York sull’estensione della definizione di genitorialità per le coppie dello stesso sesso.
BROOKE, IL FIGLIO DIVENTA UN’INTENZIONE
Il caso era quello di Brooke ed Elizabeth: due donne che durante la loro relazione avevano deciso di avere e crescere un bambino. Partorito da Elizabeth con inseminazione artificiale, una volta finita la relazione a Brooke erano stati negati i diritti “genitoriali” in quanto priva di legami biologici con il bambino. Fino alla sentenza dei giudici della Corte d’appello dello stato di New York, che ha stabilito che a contare nella vicenda non dovevano essere i legami di sangue bensì l’intenzione condivisa di avere un bambino: «La definizione di “genitore” stabilita da questa corte 25 anni fa nel caso “Alison D.” non è applicabile in un contesto di relazioni familiari sempre più variegate», «dove un genitore dimostra con prove chiare e convincenti che le parti erano d’accordo a concepire un bambino e a crescerlo insieme, il partner non biologico e non adottivo ha diritto a cercarne la visita e la custodia».
Secondo Wrubel, che all’epoca rappresentava i diritti del figlio di Brooke ed Elizabeth, i giudici avevano «riconosciuto chiaramente che le linee luminose della biologia e dell’adozione non si adattano proprio oggi all’uguaglianza matrimoniale. Capiscono che le coppie e le famiglie di questi tempi non sono solo mamma e papà, e marito e moglie». Ora l’avvocato dice che Anni e Ashot sono stati riconosciuti genitori del bambino partorito a New York in quanto è stata riconosciuta dalla Corte la loro intenzione di avere un figlio con il loro dna, ma che in uno stato con leggi e sentenze diverse il caso poteva avere esiti diversi.
DAL BANCO FRIGO AL SUPERMERCATO DEI DIRITTI
L’intenzione. Dal ricciolo di materia, in attesa di conseguire una vita vera, alla nascita non più di un bambino, bensì di un progetto condiviso, il passo è stato brevissimo. Un progetto perfettamente programmabile, o cestinabile quando non corrisponde agli standard di utilità, un progetto eventuale e misurabile in centimetri. A tanto ci ha portato l’insignificanza dell’origine, dell’atto e del mezzo, il corpo, un’insignificanza regolamentata dalla classificazione ossessiva di ogni sfumatura dell’orientamento sessuale, delle relazioni, fino a intaccare quella originale della filiazione, assurta a categoria merceologica. Niente più unione, atto reciproco tra uomo e donna, ma scambio di gameti, e prodotti da etichettare in provetta e infilare nel banco frigo. Un supermercato delle infinite possibilità da normare a colpi di listini, contratti e sentenze. Ma anche nei migliori supermercati accadono gli errori. E sbarazzarsi del diritto a un progetto condiviso è più difficile di cestinare un ricciolo di materia, del cui destino – è questa l’infernale morale della storiaccia avvenuta al blasonato Cha Fertility Center di Los Angeles, dove ci si chiede “di chi sono” e non “chi sono” i figli messi al mondo -, non importa niente a nessuno.
Fonte: Caterina GIOJELLI | Tempi.it