Ciò che fa paura nell’immigrazionismo, e che certamente non è cattolico, è il suo rifiuto dei limiti: ogni individuo, secondo il credo immigrazionista, dovrebbe avere il diritto di trasferirsi in un paese più ricco di opportunità di quello in cui lui è nato. Questa idea fa a pugni col fatto che le nazioni del mondo sono degli insiemi limitati dal punto di vista delle risorse materiali e fragili dal punto di vista dei preziosi equilibri sociali e dell’altrettanto preziosa identità storica, mentre il numero degli aspiranti migranti è praticamente illimitato. L’ipotetico diritto umano degli africani e degli abitanti del sub-continente indiano a cercare fortuna in Germania e Scandinavia, tradotto in fatti, porterebbe al collasso delle nazioni in questione.
Scrivevo più di tre anni fa che «l’idea che l’emigrazione non deve avere limiti appartiene allo stesso insieme culturale e allo stesso modo di pensare di quanti affermano che la crescita economica deve essere illimitata, che le risorse del pianeta sono inesauribili e quindi sfruttabili a piacere, che non ci devono essere limiti alla tecnologizzazione della vita umana e allo sviluppo delle biotecnologie, che la medicina deve mirare a rendere immortale il singolo, che nessun limite morale deve ostacolare la ricerca del piacere individuale, ecc.». È il filo rosso che va dal superuomo di Nietzsche al transumanesimo che ha come obiettivo la trasformazione dell’essere umano in un cyborg dalle capacità fisiche e intellettuali illimitate. Contro questo travisamento della natura umana e della natura del Creato la Chiesa cattolica ha messo costantemente in guardia l’umanità, più recentemente con l’enciclica di papa Francesco Laudato Si’, dove il tema dei limiti torna ripetutamente: «Se riconosciamo il valore e la fragilità della natura, e allo stesso tempo le capacità che il Creatore ci ha dato, questo ci permette oggi di porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato. Un mondo fragile, con un essere umano al quale Dio ne affida la cura, interpella la nostra intelligenza per riconoscere come dovremmo orientare, coltivare e limitare il nostro potere» (n. 78); «L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. (…) Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. (…). Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia» (n. 106). Nell’enciclica Francesco richiama anche il discorso di Benedetto XVI al Bundestag: «Papa Benedetto ci ha proposto di riconoscere che l’ambiente naturale è pieno di ferite prodotte dal nostro comportamento irresponsabile. Anche l’ambiente sociale ha le sue ferite. Ma tutte sono causate in fondo dal medesimo male, cioè dall’idea che non esistano verità indiscutibili che guidino la nostra vita, per cui la libertà umana non ha limiti. Si dimentica che “l’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura”» (n. 6)
A teorizzare per la prima volta un diritto indiscriminato all’emigrazione non è stato un cattolico pauperista alla padre Zanotelli o un socialista convinto che i proletari non hanno patria, ma un politico liberale imbevuto delle idee di John Locke e di Francesco Bacone come Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. È Jefferson che attorno al 1774 scrive A Summary View of the Rights of British America, indirizzato al re d’Inghilterra per «ricordargli che i nostri antenati, prima della loro emigrazione in America, erano liberi abitanti dei domini britannici in Europa, e possedevano un diritto che la natura ha dato a tutti gli uomini, di partire dal paese nel quale il caso, e non la scelta, li aveva collocati, di andare alla ricerca di nuovi luoghi in cui abitare, e di istituire là nuove società, rette da leggi e disposizioni che a loro paiano le più adatte a promuovere la pubblica felicità». Fin dall’inizio il diritto all’emigrazione è stato iscritto nel liberale principio di autodeterminazione assoluta, quel principio secondo cui nulla è buono se non ho potuto sceglierlo io personalmente. Conosciamo bene la parabola di questo principio, che nel Settecento è servito a lottare contro i dispotismi, e oggi è approdato alla legittimazione dell’aborto, dell’eutanasia e del genderismo: non ho scelto di restare incinta, dunque devo potermi liberare del frutto del concepimento; non ho scelto io di venire al mondo, dunque devo poter togliermi la vita; non ho scelto di nascere maschio, dunque devo poter essere femmina. Il diritto assolutizzato all’emigrazione è parte integrante di questa visione del mondo, e comporta le stesse conseguenze dannose sia a livello sociale che ambientale. Oggi l’emigrazione di massa non è ecocompatbile, in quanto è funzionale a un sistema economico globale che conduce all’esaurimento delle risorse del pianeta (il 29 luglio di quest’anno è stato Overshoot Day, il giorno in cui l’umanità ha superato il limite delle risorse che l’ambiente terrestre è in grado di rinnovare nel corso di un anno) e in quanto minimizza il valore dell’attaccamento della persona al luogo in cui è nata, premessa necessaria a ogni duratura e realistica “conversione ecologica”.
Che la permanenza delle persone nel luogo in cui sono nate e cresciute sia fondamentale per la conservazione dell’ambiente, Francesco lo dice nella Laudato Si’ al n. 146, riferendosi alle popolazioni indigene: «(…) è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. (…) Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura». Lo stesso concetto, più approfondito, ricorre varie volte nell’Instrumentum Laboris del Sinodo per l’Amazzonia, per esempio ai nn. 47-48: «L’ecologia integrale si basa sul riconoscimento della relazionalità come categoria umana fondamentale. Ciò significa che ci sviluppiamo come esseri umani sulla base dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con la società in generale, con la natura/ambiente e con Dio. Questa integralità vincolante è stata sistematicamente sottolineata durante le consultazioni con le comunità amazzoniche. (…) Gli esseri umani fanno parte di ecosistemi che facilitano le relazioni che donano vita al nostro pianeta, per cui la cura di tali ecosistemi è essenziale. Ed è fondamentale sia per promuovere la dignità della persona umana e il bene comune della società, sia per la tutela dell’ambiente». Quel che vale per gli indigeni, vale in realtà per tutte le comunità umane: è l’amore e l’attaccamento alla propria terra, il rapporto duraturo instaurato con l’ambiente naturale attraverso il lavoro e le tecniche più adatte a far fiorire la vita umana nel mentre che fanno prosperare l’ecosistema in cui essa è inserita, che permettono di tradurre in realtà l’ecologia umana e integrale di Benedetto XVI e Francesco. È fin troppo chiaro che la biodiversità delle specie animali e vegetali, oggi sotto pressione con l’estinzione o la quasi-estinzione di molte specie, è strettamente legata alla reale pluralità delle culture umane che si sviluppano nei differenti luoghi del mondo. Ora, le emigrazioni di massa comportano non, come qualcuno si è illuso, un meticciamento delle culture, ma l’omologazione di tutte le culture a quella che è stata definita la cultura di McWorld. Come scrive Patrick Deneen in Why liberalism failed?, l’anticultura individualista «si traduce in una monocultura, la quale, come il suo analogo agricolo, colonizza e distrugge le attuali culture radicate nell’esperienza, nella storia e nel luogo». Se vogliamo salvare la biodiversità animale e vegetale, dobbiamo salvare quella che potremmo chiamare la biodiversità antropologica. Quella che le emigrazioni di massa compromettono fatalmente.
Si dirà: chi è povero, o politicamente oppresso, o frustrato da sistemi di potere locali e nazionali che non gli permettono di realizzare il suo potenziale, non ha altra scelta che l’emigrazione, anche se sa che lo impoverirà antropologicamente. La fedeltà al luogo natìo, quello che i tedeschi chiamano Heimat, è una bella idea a parole, ma per milioni di persone non può tradursi in fatti. In realtà resta da esplorare il concetto di «mobilità circolare» formulato da Giancarlo Blangiardo: il migrante parte, acquisisce competenze ma soprattutto si crea una rete di rapporti all’estero, poi torna nei suoi luoghi di origine, dove fa fruttare quello che ha acquisito come capacità e come contatti a vantaggio della sua comunità e della preservazione dell’ambiente in cui è inserita. Non è utopia, molti migranti ne hanno già fatto una realtà.